Un'altra Cuba
Di Yoe Suárez
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Info su questo ebook
Vi ritroverete a seguire le tracce di Lucifero a L'Avana, a conversare con una sacerdotessa maya, o scoprirete le vite degli ultimi praticanti di una religione che ha l'acqua come divinità.
Entrerete in caverne, città che sfidano siccità e uragani, e paludi, accompagnati da temerari cacciatori di coccodrilli. Scoprirete la quotidianità surreale in cui vivono alcuni cubani.
Yoe Suárez
Yoe Suárez, poeta, giornalista e regista, nasce a L"Avana nel 1990. È autore di numerosi articoli e reportage, tra cui Pasajes de la luz (2012) e Tú no te llamas desierto (2015), che formeranno parte della trilogia in costruzione Cuba crucis, così come Los hijos del diluvio (2016). Ha vinto il Premio nazionale di giornalismo culturale Ruben Martínez Villena 2013 e nel 2016 la sua biografia Charles en el mosaico ha ricevuto una menzione speciale da parte dell"Associazione scrittori e artisti cubani UNEAC. In ambito documentaristico, ha vinto il concorso Premio Documental Memoria Joven, all"interno della 11° Muestra Joven organizzato da ICAIC, l"Istituto cubano per l"arte e l"industria cinematografica. Nel 2015, invece, si è aggiudicato la borsa di studio Chicuelo con il copione del lungometraggio El rostro del mal. Cura inoltre il blog in lingua spagnola Tenía q decirlo (yoesuarez.wordpress.com).
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Anteprima del libro
Un'altra Cuba - Yoe Suárez
FINALISTA DEL PREMIO PER REPORTAGE DI VIAGGI
MICHAEL JACOBS 2016
DELLA FUNDACIÓN PARA EL NUEVO PERIODISMO IBEROAMERICANO
Un´altra Cuba
È vietata la riproduzione integrale o parziale di questo libro, né il suo utilizzo informatico, né la sua diffusione in alcun formato o con alcun mezzo, sia esso elettronico, meccanico, in fotocopia o con altri metodi, senza il previo permesso per iscritto dei titolari del Copyright.
I diritti sono riservati © 2018, rispetto alla traduzione in italiano, a:
© Yoe Suárez
© Editorial Guantanamera
ISBN: 9788417283971
ISBN eBook: 9788417283322
STAMPATO IN SPAGNA-PRINTED IN SPAIN per conto di:
Lantia Publishing S.L.
Plaza de la Magdalena, 9, piano 3, 41001, Siviglia
www.lantia.com
Per Adriana
Chiavi di viaggio in un’altra Cuba
Questo libro è una mappa. Una mappa che porta da occidente a oriente. La mappa in rilievo delle persone e degli strani modi di vivere che coabitano l’arcipelago cubano. Il giornalismo narrativo darà l’impulso necessario per attraversare questa terra meravigliosa, che va ben oltre i soliti cataloghi turistici.
Attraverso la lettura vi ritroverete a conversare con una sacerdotessa maya, a seguire le tracce di Lucifero a L’Avana, o a immergervi nelle vite degli ultimi praticanti di una religione che ha l’acqua come divinità.
Ci avventureremo per caverne e paludi, accompagnati da temerari cacciatori di caimani. Scoprirete le più segrete leggende su città e montagne, e la quotidianità surreale in cui vivono alcuni cubani.
Ogni stereotipo verrà spazzato via. Qui le storie sfidano l’immaginazione, nel ritratto di un’isola multiforme, cordiale, selvaggia e paradossale che nei Caraibi dorme un sonno ad occhi aperti.
Occidente
Al di là della muraglia
¹
dall’Autostrada Nazionale si scorge in lontananza la Cordigliera di Guaniguanico. Ti trovi lì, di passaggio, quando vedi spuntare questa sagoma azzurro-verdognola, e ti viene da chiederti cosa ci sia al di là della muraglia.
Il viaggio lo si può cominciare, mettiamo, all’ombra del ponte di San Cristóbal. Le ore vanno diluendosi tra suoni di grida e zoccoli di cavalli diretti in paese. La gente del posto, abituata a certi non-orari, attende un mezzo per risparmiare cammino. È il suo amaro pane quotidiano.
«Il camion dello Stato che passa verso le dieci ha avuto un guasto; oggi non arriverà» dice una ragazza, quasi ripetendo un ritornello imparato da tempo.
Alle undici e un quarto la turba si mette in movimento. Decine di donne e uomini si buttano sulle spalle borsoni, bambini, zaini. Una scatoletta sferragliante si arresta sotto il ponte. L’assalto non tarda molto.
Dopo venti minuti un camion privato parte, stracolmo, su per la strada scoscesa. Per dieci pesos regala crampi agli arti, porta chissà quante vite al bordo del precipizio, sottopone il corpo a una sauna nauseabonda.
Chi ha avuto la fortuna di raggiungere un finestrino, cerca di estraniarsi e spostare lo sguardo all’esterno. Nel verde chiuso del paesaggio; nelle alture maestose sovrastate da nude rocce; nelle case che intrepide si sono arrampicate fin sulle cime. L’aria illimpidisce, la profonda montagna ci regala i propri suoni. Alle spalle, tra un monte e l’altro, resta l’immagine della pianura incendiata dal sole e sulla pelle il fresco dei palmeti si fa via via più piacevole.
Per primo c’è La Olla, poi altri abitati fino a giungere a Quiñones. Lì finisce l’asfalto del nostro viaggio. Davanti al consultorio municipale del paese aspettiamo il prossimo mezzo di trasporto. Dovrà essere agile e minuto per cavarsela con successo nel a volte angusto e sempre ripido terrapieno che ci attende.
Il rumore lo annuncia in lontananza: il motocarro prende una curva a tutta velocità per poi fermarsi davanti a noi. Dieci pesos. In poco più di un metro quadrato, ci stipiamo in sette più rispettivi bagagli. E il viaggio comincia con sobbalzi e scossoni tremendi a ricordarti che sei fatto di ossa, su, su, sempre più su per la montagna.
«Non converrebbe asfaltarlo questo tratto di strada?» chiede uno dei miei amici all›ipercinetico autista.
«Eh no, muchacho! Se lo asfaltano poi le macchine riescono ad arrivare fino a Los Cayos, e gli affari mi vanno a farsi fottere.»
L’uomo risponde senza guardarlo in faccia. Senza staccare gli occhi dalla strada davanti a sé.
«Ho caricato fino a dieci persone su questo triciclo» ci racconta orgoglioso.
«E fino a che ora lavori?» indaga un›altra amica.
«Sono del paese, di Los Cayos, e ogni volta che qualcuno ha bisogno di scendere giù, basta che mi cerchi o mi telefoni a casa,» prende un respiro; continua, «vedessi il sabato!, quando c’è una festa o la discoteca a Quiñones, salgo fino alle due di notte a riportare a casa i ragazzini.»
A un certo punto il motociclista chiede ai tre uomini del gruppo di scendere dal mezzo. Il prossimo tratto di strada è troppo ripido all’inizio e molto inclinato alla fine. Minore è il peso, minore è la possibilità di incidenti. Grati in un primo tempo per l’opportunità di sgranchirci le gambe, ci ritroviamo presto a urlargli di fermare il galoppo di quel trabiccolo demoniaco. Corriamo venti minuti, e la montagna s’inghiotte le nostra grida.
Ancora mezz’ora di strada finché il motore si spegne. Non lo sappiamo, ma lì si stabilisce un point of no return. Fino a Los Cayos arriva la fibra ottica e c’è campo per i cellulari. Di martedì e di venerdì un camion percorre i nove o dieci chilometri di rocce e fango che lo separano da Machica, l’insediamento umano più vicino.
Un fiume gonfio d’acqua ci accompagna per un po’. Poi ci abbandona mentre ci inoltriamo nella montagna dura e pura. I passi affondano fino alle caviglie e l’umore a volte sceglie di seguirle.
Da quelle parti le case sono sempre meno e sempre più distanti. Gli alberi sbarrano tutto: il cielo e i nostri corpi. Dall’alba dei tempi ormai, manghi, pompelmi e limette nascono senza chiedere il permesso. I Todi variopinti ci seguono, gli Ani beccoliscio rivelano la nostra presenza, il Tocororo si nasconde dalle fotocamere ficcanaso.
La strada diventa un sentiero. Il sentiero si unisce al fiume. E ci rimbocchiamo le maniche e i brandelli rimasti dei pantaloni. Un fiume ingrossato non è uno scherzo. Sembra che là dove siamo diretti stia diluviando. La vista si acuisce, sappiamo che in lontananza le nuvole cospirano contro il sole. Bisogna sbrigarsi.
Uno davanti, uno dietro, come bambini in fila indiana, attraversiamo l’alveo torbido, fanghinolento.
«È stupendo, quando scorre tranquillo. L›acqua è chiarissima» assicura la nostra guida. La famiglia della mia amica ha vissuto qui per anni, finché non hanno trasferito cose e vita a L›Avana. Non è rimasto che qualche ex vicino.
I legami generazionali di questi luoghi, hanno dell’incredibile. Dal momento che un vicino è forse l’unico simile nel raggio di chilometri, i legami si saldano come in una sorta di legge tribale. Un vicino è un fratello; e i suoi figli sono figli. Con tutto che la sua famiglia è emigrata nella grande città da oltre due decenni, e che ha lasciato la montagna ancora in fasce, la mia amica confida nel cognome della nonna per trovare un riparo per la notte.
Quimbo
Quimbo si ricorda di Nena come se la donna non avesse mai abbandonato le montagne. È sbalordito da quanto sia cresciuta la nipote di Nena. E non lo dice con la bocca, ma coi suoi occhi di montanaro che scivolano dalla mia amica a noi, i quattro intrusi che cercano alloggio in casa sua perché un velo di pece sta soffocando la sera.
Quimbo è discreto, di poche parole. Come quasi tutti gli uomini della montagna, ha troppo poco tempo per dire qualcosa. Smonta dal ronzino, si pulisce le manacce nei pantaloni militari e dice alla mia amica di piazzarci per di là. Ci dedica un timido sorriso da dietro ai folti baffi.
«Per di là» significa nella baracca di legno e fogli di lamiera alle nostre spalle. I quasi due metri dell’uomo si allontanano al suon degli speroni, m’immagino il suo yarey a tesa larga, stritolato, maciullato, tra le dita mostruose. Di balzo in balzo risale le pendici di una montagna vicina. È coltivata ad ananas, ordinata. Di questo vivono Quimbo e la moglie. Lassù vale due la frutta che a L’Avana s’aggira tra i dieci e quindici pesos. È un frutto così regale: l’ampia corona, il corpo carnoso, succoso l’interno. Morderlo è un vero piacere.
Da queste parti l’ananas è il pane quotidiano, quindi qualche fetta per merenda e un bicchiere di garapiña rinfrescante per colazione, è d’obbligo. Un lusso che non possiamo lasciarci scappare, incomprensibile agli occhi del nostro anfitrione.
La signora di casa è assente in questi giorni. Quimbo più tardi ci racconterà, curvo sullo sgabello, col sole ormai quasi tramontato, che Cuca è partita per San Cristóbal alla ricerca di saponi, medicine e qualche indumento. Come abbiamo potuto notare, la strada è sfiancante, perciò Cuca resterà qualche giorno in paese, a casa della sua famiglia.
Gli alberi inghiottono i deboli raggi del sole. Le faraone selvatiche tornano nella vegetazione, soddisfatte per aver rubato ai polli le briciole di pane e i rimasugli di mais che Quimbo getta per terra. Durante la notte sentiremo i loro lamenti: «pasqual!», «pasqual!». Dicono che si accòppino per tutta la vita con lo stesso partner.
Due segugi denutriti si lasciano cadere nell’ingresso di terra battuta. Lo sguardo afflitto, gli occhi tristi. Si scuotono solo quando le donne spengono i tizzoni del camino e il profumo della minestra appena cucinata supera la coltre di fumo sotto il tetto di palma.
Morta la sera, non resta altro da fare che mangiare, e fare due calcoli, in caso se ne abbia voglia. Inizia l’interrogatorio. Quimbo, gentilmente, ci ascolta e parla giusto il necessario. Quanto dista il paese più vicino? Machuca: a una, due ore di cammino. Trova strana la mia abitudine cittadina di catalogare ogni cosa. Non c’è nulla di battezzato tra Machuca e Los Cayos. Forse in un ufficio a centinaia di chilometri, sì; ma per quanto riguarda Quimbo e i montanari della zona, le cime, il fiume che frammenta la catena montuosa, una valle che abbiamo attraversato, tutto è senza nome come all’alba dei tempi.
Le zanzare non si azzardano ad arrivare così in alto; Quimbo ci assicura che dormiremo come angioletti. Senza elettricità e con a malapena batteria nei cellulari, la notte sulla Cordigliera è in realtà la notte dei nostri antenati.
Il regno dell’acqua
Il terreno irregolare, sassoso, richiede un cavallo e gli scarponi. Paesaggio strano questo: sul tappeto verde disteso tra vetta e vetta, si stagliano blocchi monolitici di basalto rosso; in lontananza, un faraglione sguaina il biancore calcareo di pareti torreggianti.
Inoltrandosi nei monti, risalendo i monti, si giunge nel regno dell’acqua. Sgorga da una qualche sorgente nascosta ad alta quota,