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Fast Writing: Scritti di rapida consumazione
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Fast Writing: Scritti di rapida consumazione
E-book194 pagine2 ore

Fast Writing: Scritti di rapida consumazione

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Info su questo ebook

Seconda edizione del progetto firmato Leyla Khalil.
I racconti ospitati in questo volume sono:

    • Karramba di Nino Princi

    • Liberate Marc di Francesco Benedetto Belfiore

    • Il ritorno di Rossella Mele

    • Grottesco sipario cittadino di Alexey Alberti

    • Il ghiaccio di Sara Milla

    • La regola dei terzi di Valentina Maini

    • Angeli di Alessandra Leonardi

    • Nina e la Rossa di Maria Clara Valenti

    • Garlic Mushroom di Peppe J. Gallo

    • Il mio amico Alan di Ignazio Sardo

    • Saturn fried cheese di Paolo Bartalini

    • Clandestino di Stefano Raspa

    • Flushberry di Cinzia Carotti

    • Rachele (capitano coraggioso) di Federica Sposato

    • Presenze assenti di Nicoletta Fanuele

    • Apolonio di Raethia Corsini

    • Le scarpe felici di Federico Tonegatti

    • DynafemPadova, 2024 di Collettivo Bolina Fest

    • L’istante in cui l’elettricità non è mai esistita di Leyla Khalil

    • Patatine fritte di Federica Lauto

    • La notte in cui te ne andasti di Fiorella Carcereri

    • Amburgher di Francesca Brotto

LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2017
ISBN9788868811747
Fast Writing: Scritti di rapida consumazione

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    Anteprima del libro

    Fast Writing - Autori vari

    Prefazione

    Non è in questi luoghi sovrappopolati, dove si incrociano ignorandosi migliaia di itinerari individuali, che sussiste oggi qualcosa del fascino incerto dei terreni incolti, delle sodaglie e degli scali, dei marciapiedi di stazione e delle sale d’attesa dove i passi si perdono, di tutti i luoghi dell’incontro fortuito dove si può provare fuggevolmente la possibilità residua dell’avventura, la sensazione che c’è solo da veder cosa succede?

    Marc Augé

    La loro parola risuonava in uno spazio in cui i vivi si facevano sempre più rari […]. Così e solo così deve essere recepita la letteratura postesotica: come un’ultima testimonianza inutile e immaginaria, pronunciata da individui allo stremo delle forze o dai morti e per i morti. La nostra parola.

    Antoine Volodine

    Menti multitasking, smart food e smart city, glocal contro global contro local, wireless e Wi-Fi, tag e hashtag, smaterializzazioni multiple e contemporanee, surrogati di cibi, stampa 3 d di qualsiasi cosa, fluorescenze metropolitane e realtà aumentata: quale narrativa è possibile oggi? Anzi: c’è narrativa in grado di descrivere questa realtà e di ambientarvi storie?

    «Fast Writing» è il tentativo di risposta a questo interrogativo. Come i migliori quesiti, anche questo resterà probabilmente insoluto. Ci chiamano nativi digitali, siamo qui per sfida e per gioco, per provare a smentire l’accusa fatta alla realtà liquida che ci ha partorito, di aver fatto appassire ogni possibilità di poesia. Per dare una possibilità poetica ai nonluoghi, per estrarre come levatrici le storie, cavarle fuori da meccanismi inestricabili, trascinarle via dal vortice parabolico che le ingoia e astrae o entrandoci anche noi. Perché i fast food sono roccaforti in cui troviamo riparo a ogni ora del giorno e della notte in ogni angolo del mondo, in cui tutti abbiamo diritto a una bolla inconsistente di invisibilità anonima. I non-luoghi sono pronti ad accoglierci con fredda democrazia e tanto ci basta per sentirci sicuri. Effimeri, temporanei, inconsistenti, sono covo di miracoli inaspettati, di incubi irreali come videogames, crudeltà aggrovigliate, insoddisfazioni sociali, drammi interiori scanditi da tempi brevi, suonerie, sveglie, rumori di fondo, allarmi che suonano, ticchettii e scadenze.

    Siamo tutti lì, ci siamo stati almeno una volta. Qui vogliamo sederci e osservare la mancanza di ordine cronologico, la liquidità spaziale, l’interconnessione dello spazio-tempo, l’infinitamente astratto intrecciato con l’assolutamente concreto, la fisica quantistica e la teoria relativista riflessi nel tavolo di un fast food.

    Il «Fast writing», osmosi di realismo e magia, è il nuovo modo di dire la realtà: il surrealismo e il fantastico non sono più tali, li abbiamo sotto gli occhi ogni giorno; è la realtà stessa a rendersi magica e quindi a perdere, lentamente, la magia che possiede. Gli «Scritti di rapida consumazione», già nella loro prima edizione, riportano semplicemente questo: miracoli urbani che avvengono nel momento in cui non ci si crede più. Ma da cui ci si lascia volontariamente affascinare. Ci sono racconti che è difficile situare in un preciso contesto cronologico, storie dal sapore gotico o surreale, inquietudini dalle radici ignote, vortici inestricabili di assenze e di incubi e la cosa più importante è che questa matassa intrisa di umanità non ha ancora smesso di permeare la realtà. Oggi come ieri come in tutti quegli istanti che scorrono fuori dal tempo e oltre i luoghi, c’è qualcosa che può e sa sorprendere e commuovere. Anche le insegne fluo sospese nei paradisi capitalisti e i sorrisi di clown-mascotte e i distributori di cibo-spazzatura celano stratificazioni di vissuti disarmanti. Madri di famiglia, clochard, impiegati, neonati, disoccupati, immigrati e fuggiaschi, studenti, ragazze promiscue, donne velate, scassinatori, scrittori frammisti a icone pop, immagini frammentate, colori fosforescenti, cibo surgelato, nomi stranieri – stranieri rispetto a dove? –, offerte del mese, assenze malinconiche, schermate estranianti, tradimenti inspiegati, hamburger preconfezionati sorprese preconfezionate forchette preconfezionate uomini e donne preconfezionati e ritmi martellanti, bizzarrie quotidiane, rituali automatizzati e tic nervosi.

    Gli «Scritti di rapida consumazione» sono brevi componimenti apolidi in cui l’altrove è ovunque e da nessuna parte, e la meraviglia si crea di volta in volta mutando lo sguardo che si getta sul mondo dai tavolini tutti uguali e pieni di briciole dei fast food. Alla ricerca dei nuovi confini dell’umano e del reale. Panino alla mano, carta e penna davanti, sguardo lontano.

    Leyla Khalil

    Karramba

    di Nino Princi

    La mia sveglia è iniziata alle 07.15.

    Io ero girato nel letto a pancia in giù, con il volto verso sinistra.

    Ho allungato il braccio verso il cellulare, che mi fa da sveglia, e ho premuto il tasto per spegnerlo.

    Poi mi sono rigirato nel letto e ho dormito altri dieci minuti.

    Poi mi sono svegliato, ho acceso la luce piccola, accanto al letto e sono andato in cucina.

    In cucina, ho preso la macchinetta del caffè, quella per due, e ho pensato di fare il caffè sia per me e sia per il mio coinquilino.

    Questo pensiero mi ha fatto sentire buono.

    Ho pensato di essere buono. In realtà mentre entravo in cucina ho visto che era tutto pulito e quindi non potevo usare la macchinetta piccola, quella per una persona, perché quando esce il caffè sporca tutto il piano cottura; quindi dovevo usare per forza la macchinetta per due, e così il mio pensiero buono era in realtà un pensiero negativo mascherato da pensiero buono. E allora ho pensato Sei una testa di cazzo. Se proprio una testa di cazzo.

    Poi ho aperto il frigo, ho preso il contenitore del caffè, ho preparato la moka e l’ho messa sul fornello. Mentre il caffè era sul fuoco sono andato a lavarmi la faccia.

    Mentre mi lavavo la faccia ho pensato che dalle otto alle undici avrebbero sospeso l’erogazione dell’acqua per dei lavori al piano di sopra.

    Mi sono asciugato il viso e solo a quel punto mi sono sentito sveglio. Quindi ho cominciato a canticchiare Senza fine però al posto di fine dicevo firma o sosta.

    Così cantando ho spento il fornello del caffè, ho riaperto il frigo, ho preso una banana, una mela e il latte. Appena ho visto il latte ho smesso di cantare, perché mi sono ricordato che forse era scaduto, perché scadeva l’otto. Così ho annusato e mi sembrava fosse fresco. Allora ho ripreso a cantare, ho preso il frullatore, ho versato il latte, ho sbucciato la mela. A un certo punto la mela mi è scivolata di mano, e anche lì ho smesso di cantare. Poi l’ho presa, ho finito di sbucciarla e l’ho messa nel frullatore. Poi ho sbucciato la banana, ho pensato che dovevo buttare la spazzatura, ho aggiunto la banana al resto, insieme al miele buono d’acacia e ho fatto frullare tutto, iniziando il conto alla rovescia da sessanta a trenta.

    Anche a questo punto, ho smesso di cantare.

    Arrivato circa a trentotto, ho terminato il conto alla rovescia, ho spento il frullatore e ho ricominciato a cantare.

    Poi ho preso il mio bicchiere, ho versato il frullato, ho versato il caffè nella tazzina, lo zucchero, ho mescolato e l’ho lasciato lì, preferendo bere prima il frullato e, alla fine, il caffè.

    Ore 07.45.

    A questo punto è iniziata la vestizione. Sono andato in camera da letto e, mentre attraversavo i tre metri di corridoio che separano la cucina dalla camera, mi sono ricordato del sogno che ho fatto stanotte. Allora ho smesso di cantare, e ho aggrottato le ciglia.

    Nel frattempo però non sono stato fermo, anche perché entro le otto dovevo uscire. Solo che ogni tanto mi veniva da ridere e mi veniva da guardarmi allo specchio in camicia, cravatta, giacca e pantaloni di pigiama a strisce. Allora noi due ci siamo guardati e ci siamo fatti una bella risata, non tanto forte da mettersi la mano sulla pancia e piegarsi, ma nemmeno tanto debole da non farmi reclinare la testa all’indietro come Raffaella Carrà, però con il busto più rigido e con le braccia più ferme. Inoltre, mentre mi guardavo allo specchio, ho pensato al sogno fatto stanotte, quello delle fotosberle.

    Ho sognato di essere un artista famoso per avere inventato le fotosberle. Le fotosberle consistevano in un soggetto ritratto mentre io gli do una sberla. Non è facile fare una fotosberla, perché oltre alla difficoltà nel reperire soggetti disposti a subirla, è difficile scattare una foto mentre si dà una sberla. Una mano infatti deve mantenersi rigida mentre l’altra deve essere in movimento e colpire. Allora io con la sinistra tenevo la macchinetta fotografica e con la destra mollavo una sberla. In genere erano tutte persone a me molto care.

    Quindi nel sogno io andavo in giro con una macchina fotografica Nikon intorno al collo, una macchina gigante, da turista, e andavo alle feste, ai party, conoscevo gente. E ogni tanto concedevo una fotosberla a qualcuno e tutti mi facevano i complimenti. Mentre pensavo a queste cose ho completato la mia vestizione.

    Mano a mano che mi sveglio, il passato diventa presente e torno presente a me stesso.

    Torno in cucina, sono già in cappotto. Mi siedo, prendo le scarpe e mi piego per indossarle. Però ho quest’abitudine di mettermi le scarpe per ultime, anche dopo il cappotto, per cui non riesco a piegarmi se non facendo un notevole sforzo. di solito mentre sono piegato a mettermi le scarpe, paonazzo, penso di essere vecchio, e qualcosa si modifica in me.

    Poi penso Non sei vecchio, sei coglione e mi scappa da ridere. Finisco di fare tutto ed esco canticchiando Ancora tu. Sono le 08.01.

    Io abito al terzo piano ma non prendo mai l’ascensore perché è lento, allora scendo a piedi, esco nella corte del mio condominio, attraverso il corridoio e si spalanca il portone. Buon giorno Milano, vestita di semafori e neve ghiacciata intimidita ai lati delle strade, di gratta e vinci, edicole, mille macchiati freddi, macchine, distese di macchine, e io non faccio in tempo ad attraversare questi trecento metri di Milano che la poesia è finita e mi immergo nel sottopasso della stazione di Dateo, scendo giù di una rampa, poi di un’altra, alla terza intravedo il tabellone e sono in anticipo di due minuti sul carro bestiame delle 08.10.

    Mi dico che anche stamattina ho vinto, e scopro finalmente qual era la mia battaglia: impedire qualunque attesa, perché uno mica si sottrae al sonno per attendere.

    Mentre salgo sul carro bestiame mi viene in mente che il corpo mio non ha un nome, nessuno dei miei organi ha un nome, ma non dovrebbe essere così, da piccoli diamo nomi a oggetti, orsacchiotti, cani, gatti, bambole, soldatini e non diamo un nome ai nostri organi, anzi uno sì, al pisello sì, da piccolo lo battezzai Franz, come Beckenbauer. Comunque, a parte Franz, nessuno aveva un nome, allora decido di darlo in questi 60 minuti che mi separano da Novara, e comincio dagli occhi, li chiamo Alessio e Giorgio, poi le gambe, Claudio e Luca, poi le orecchie, Vito e Nico, poi al naso, Saverio, dovrei nominare anche i denti, le labbra, le ciglia, i capelli, è un lavoro enorme e non so dare un nome al cuore, quello sì che è difficile.

    Per ora mi fermo alle mani, che hanno nomi di donna, perché le mani sono sorelle, Maddalena ed Elena.

    E quindi a un certo punto Maddalena accarezza Saverio e si adagia su Alessio e Giorgio, mentre Claudio salta in braccio a Luca, e Vito si concentra sulla conversazione di una signora seduta sul sedile accanto al mio, ma quanta bella gente c’è qua, mentre Elena modula le dita battendo un rintocco e facendo scattare la voce, che per ora non ha un nome nemmeno lei.

    E andiamo così, mentre il mostro catorcio fende lento l’aria come milioni di fotosberle al secondo nella rotaia ghiacciatarrugginita, con i rumori che fanno i treni nei fumetti.

    Ciuff… sbum… ciuff… ciuff… fiiiiiiii!

    Maddalena ed Elena si abbracciano, perché fanno così loro due quando sentono freddo, isolate dal resto, loro due fuse assieme, sorde, protette solo da me.

    Attraversiamo così Milano, prima sottoterra e poi all’aperto. Passiamo sotto le cose in dieci minuti.

    Usciti dalla città, rimaniamo ormai in pochi sul treno e il controllore fa presto ad arrivare da me.

    Maddalena tira fuori dalla borsa l’abbonamento mensile, il controllore lo guarda e fa una faccia strana. Poi mi dice che è tutto OK, con la mano come se stesse salutando. Ha quella pinzetta in mano, il controllore, quella pinzetta simpatica che fa quelle forme strane nel biglietto. Una volta qualcuno mi spiegò che in realtà quelle forme sono personalizzate, ogni controllore ha la sua.

    Alessio e Giorgio mi fanno notare che la signora si è alzata appena ha visto il controllore. È una bella signora sui sessanta, con un paio di occhiali da sole scuri, un vestito rosa lungo sotto un piumino bianco soffice, sembra nervosa. Si alza tesa e non ha la forza per aprire lo sportello. Poi vedo che prende fiato e la apre con un colpo di reni, il caschetto biondo le scivola all’indietro. Giorgio e Alessio vorrebbero che la seguissi ma Claudio e Luca sono piantati a terra, categorici, e mi intimano di stare fermo e riposarmi. La signora scompare, il controllore finge di non accorgersi.

    Arriviamo a Rho Fiera. Vedo la signora oltre il finestrino. Sembra essere scesa, il suo passo è sempre più nervoso. Le porte si chiudono, la gogna riparte lenta, farraginosa.

    Vedo la signora di nuovo sul treno, ipotizzo che deve essere risalita, insinuo che forse sta scappando da qualcuno, mi viene incontro, viene da me, e mi dice:

    «Scusa, sai a che ora arriva questo treno a Novara?».

    «dovrebbe arrivare per le nove e un quarto».

    «Credi sia in ritardo?».

    «No, non dovrebbe».

    «Senti, tu conosci Novara?».

    «No, ci lavoro ma conosco solo la strada per andare al lavoro, solo che non è in centro. Perché cosa vuole vedere? C’è la cupola di Antonelli, che non è figa come quella di Torino però ha il suo porco…».

    La signora mi interrompe:

    «Non me ne frega niente di

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