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Il Settecento - Storia (56): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 57
Il Settecento - Storia (56): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 57
Il Settecento - Storia (56): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 57
E-book650 pagine6 ore

Il Settecento - Storia (56): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 57

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Info su questo ebook

Il Settecento può essere giudicato a buon diritto un secolo rivoluzionario, viste le numerose rivoluzioni che lo sconvolgono: demografica, agricola, industriale, una rivoluzione intellettuale e culturale, e due decisive rivoluzioni politiche, quella americana e quella francese, che determineranno l’assetto di almeno due continenti. Ed è proprio nelle rivoluzioni politiche che emerge l’intenzionalità e la consapevolezza del carattere rivoluzionario del Settecento, che si basa sulla volontà di rifondare la società e le istituzioni sulla base di principi ritenuti razionali e universali, senza più il bisogno di ricercare in un passato mitizzato la legittimità delle istanze. Uguaglianza, libertà e benessere sono i valori guida della rivoluzione americana, scatenata dal conflitto politico-costituzionale delle colonie con l’Inghilterra e dall’esigenza di conquistare autonomia e libertà commerciale sui mari, e in questo processo rivoluzionario convergono, condizionandosi reciprocamente, il radicalismo popolare, la cultura illuminista e la tradizione puritana. Sull’altro versante invece la rivoluzione francese affonda le sue radici nella lunga crisi finanziaria che mette in discussione tutto il sistema di privilegi economici e di rappresentanza politica per ordini, tipico dell’antico regime, cui si aggiunge la rivendicazione dei diritti del terzo stato, ma gran parte ha la proclamazione dei Diritti universali. In questo secolo dunque gli eventi propriamente storici non sono scindibili dall’ampia riflessione critica sugli ordinamenti politici e sociali, tanto che nel Settecento diventa largamente prevalente, se non egemone, un’immagine della società centrata sugli individui, sui loro diritti, sui loro rapporti reciproci e su quelli con lo Stato, per cui il fine dell’azione dei poteri pubblici non è più quindi la potenza dello Stato e il prestigio del monarca, ma la “pubblica felicità”, la somma delle felicità che i singoli individui hanno il diritto di perseguire.
In questo ebook si intrecciano sapientemente gli eventi storici con le riflessioni critiche che li motivano e li alimentano per una profonda comprensione del Settecento con le dinamiche che lo attraversano e le loro implicazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2014
ISBN9788897514916
Il Settecento - Storia (56): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 57

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    Il Settecento - Storia (56) - Umberto Eco

    copertina

    Il Settecento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Settecento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia del Settecento

    Vittorio Beonio Brocchieri

    Il secolo delle rivoluzioni

    Chi fosse alla ricerca di un’espressione capace di racchiudere il significato storico del Settecento, si troverebbe di fronte a una difficoltà opposta a quella rilevata per il Seicento. In quel caso il problema era la mancanza di una etichetta convenzionale (Burke) sulla quale far convergere un ampio consenso. Per il Settecento il problema potrebbe essere semmai quello di sottrarsi a un’etichetta quasi d’obbligo, quella di secolo delle rivoluzioni (e anche un po’ delle riforme). Ma poiché in fondo la definizione ci sembra adeguata e pertinente, rinunciamo al tentativo senza rimpianti ma non senza una spiegazione.

    Ci sono molte buone ragioni per definire il Settecento un secolo rivoluzionario. Gli storici vi hanno infatti individuato una moltitudine di rivoluzioni: una rivoluzione demografica, una agricola, una industriale, una intellettuale e culturale – l’Illuminismo – oltre naturalmente le due classiche rivoluzioni politiche, quella americana e quella francese. Come vedremo, l’opportunità di utilizzare il termine ‘rivoluzione’ per descrivere i mutamenti avvenuti in questi diversi ambiti è stata ed è materia di controversie. Molto dipende ovviamente da cosa si intende per rivoluzione. Quanto radicale e rapido deve essere un cambiamento per meritare di essere definito rivoluzionario? Una rivoluzione che si dispiega nel corso di decenni – come può avvenire per le rivoluzioni economiche o culturali – può essere ancora chiamata tale? Ogni rivoluzione inoltre può – e in un certo senso deve – essere inquadrata in dinamiche di lungo periodo che inevitabilmente ne ridimensionano la portata innovativa.

    Ma quale che sia la valutazione che possiamo dare delle varie discontinuità rivoluzionarie del Settecento, rimane un buon motivo per conservare al secolo questa etichetta. Ed è il fatto che il Settecento ha saputo di essere, e in larga misura ha voluto essere, un secolo rivoluzionario. I secoli che lo hanno preceduto hanno visto mutamenti forse ancora più radicali di quelli settecenteschi: la scoperta dei nuovi continenti e l’avvio di una storia veramente mondiale, la lacerazione confessionale, la formazione del moderno Stato territoriale, le prime rivoluzioni della modernità, quella olandese e quella inglese, la nascita della scienza moderna, per citare solo i maggiori.

    Ma di queste fratture oggettive, per usare un termine politicamente poco corretto, gli Europei del Cinque e Seicento non hanno tratto fino in fondo le conseguenze. Per certi aspetti hanno cercato disperatamente di disconoscerle, di legittimare il nuovo come un ritorno all’antico, in definitiva di ridimensionarne la portata eversiva. Nell’America si sono viste delle Indie occidentali, nella Riforma un recupero della verità originaria del cristianesimo. Da Copernico a Newton ci si è illusi che il diritto di sottoporre la natura a un esame razionale potesse convivere con il dovere di sottomettersi all’autorità quando si trattava di religione o politica.

    Il Settecento può essere considerato il primo secolo moderno perché la sua modernità, nel senso di discontinuità con il passato, l’ha rivendicata orgogliosamente. Semmai gli si potrebbe rimproverare di esserlo stato meno di quanto proclamava, di aver sottovalutato, un po’ ingenuamente il peso delle resistenze, delle vischiosità e della continuità materiali, culturali e sociali con il passato.

    Illuminismo, pubblica felicità e sfera pubblica

    A metà del Seicento René Descartes affermava chea parte le verità di fede, che ho sempre messo al primo posto, ho ritenuto di potermi liberamente disfare di tutte le altre mie opinioni. Poco più di un secolo dopo, Denis Diderot scrive: imponetemi il silenzio in materia di religione e di governo e io non avrò più nulla da dire. Due prese di posizione speculari che riassumono efficacemente la distanza che separa la stagione della rivoluzione scientifica da quella dell’Illuminismo. Descartes, come Galileo, rivendicava la legittimità dell’uso spregiudicato della ragione per indagare i fenomeni naturali, ma accettava l’autorità della Chiesa in materia di religione e quella del principe in campo politico. Il principio nihil de Rege et parumde Deo – (si parli poco di Dio e per nulla del Re) era quasi universalmente accettato, almeno fino alla crisi della coscienza europea di fine Seicento individuata da Paul Hazard. Naturalmente sappiamo che nel Seicento, dell’uno e dell’altro, di Dio e del Re si parlò moltissimo. Ciò che veniva rifiutata era però la possibilità di una coesistenza legittima di opinioni contrastanti su queste materie. In sostanza era possibile solo esprimere liberamente la propria adesione all’ortodossia – politica e religiosa – vigente all’interno di ciascuno Stato. Per gli uomini dell’Illuminismo, invece, confinare il pensiero critico all’ambito della scienza naturale, escludendone l’indagine sulla religione, l’uomo e la società, è una limitazione inaccettabile, tanto più che al cuore del progetto illuministico vi è la volontà di progresso materiale e morale della società, il conseguimento della pubblica felicità.

    La legittimità della riflessione critica sugli ordinamenti politici e sociali deriva anche dal fatto che nel Settecento diventa largamente prevalente, se non egemone, un’immagine della società centrata sugli individui, sui loro diritti, sui loro rapporti reciproci e su quelli con lo Stato. Quella che gliilluministi chiamano la pubblica felicità è quindi in sostanza la somma della felicità che i singoli individui hanno il diritto di perseguire e che le istituzioni hanno il dovere di promuovere con politiche adeguate. Il fine dell’azione dei poteri pubblici non è più quindi la potenza dello Stato e il prestigio del monarca. Ma se la società è il mezzo e l’individuo il fine, diventa legittimo verificare l’adeguatezza dei mezzi – le istituzioni sociali e politiche, ora desacralizzate – al raggiungimento del fine, ovvero la felicità dei singoli, ed eventualmente intervenire per modificarli. E diventa pure legittima la partecipazione dei singoli, più o meno direttamente, all’elaborazione politica. L’emergere di una sfera pubblica, intesa come rete di discorsi pubblicamente accessibili che riguardano questioni di interesse collettivo è certo uno degli aspetti più rivoluzionari del Settecento.

    Famiglia e individualismo

    Il fatto che la società europea del Settecento sia concepita (e in qualche misura sia effettivamente) sempre più come società degli individui non ha solo conseguenze sul piano politico ma investe tutto lo spettro delle relazioni interpersonali, a cominciare dai legami – economici, di potere, affettivi, giuridici – che costituiscono la ragnatela intricata e flessibile delle relazioni famigliari.

    Qui lo storico si muove su un terreno estremamente insidioso. Salvo che per gli aspetti strettamente giuridici, la storia della famiglia e della parentela, soprattutto nelle sue dimensioni sentimentali ed emotive, si presta male a periodizzazioni rigorose. Affermare categoricamente che nel Settecento nasce l’amore romantico, o la famiglia nucleare affettiva, o che tramonta il modello patriarcale significa esporsi a facili smentite. Non è difficile individuare amori romantici e famiglie coniugali affettive secoli prima o ravvisare la persistenza, a Novecento inoltrato, di modelli famigliari e di parentela dati per estinti da secoli. In parte ciò dipende dalla vaghezza della terminologia adottata, in parte dalla diversità dei contesti sociali e geografici ai quali ci si riferisce.

    Comunque sia, fin dall’inizio dell’Ottocento gli osservatori più precoci e acuti dell’avvento del mondo moderno, come Alexis de Tocqueville, hanno sottolineato il nesso strettissimo fra avvento di una società egualitaria e individualista e il tramonto di quello che Tocqueville chiamava esprit de famille. L’esprit de famille poggiava su una concezione organica e corporata della famiglia, vista come un’istituzione destinata alla riproduzione biologica e sociale alla quale gli interessi dei singoli individui dovevano essere necessariamente subordinati; per esempio, istituzioni come il fedecommesso e il maggiorascato, che prevedevano la trasmissione del patrimonio indiviso a un unico figlio maschio, con evidente danno per i cadetti e le femmine, destinate, nei Paesi cattolici, al chiostro.

    La critica più radicale e limpida a questa concezione dei rapporti fra famiglia e individuo la troviamo in pagine famose di uno dei più illustri illuministi italiani,Cesare Beccaria. Finora, scrive Beccaria, la società è stata pensata come un’unione di famiglie nella quali la felicità delle persone è sacrificata a un idolo vano che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone. La società che Beccaria ha in mente è invece un’unione di uomini, liberi di costruire autonomamente il proprio destino e perseguire la propria felicità privata.

    Ciò naturalmente non significa che la famiglia europea e le relazioni fra i generi e le generazioni siano radicalmente cambiate nel giro di pochi anni. L’ideologia e la pratica del bene di famiglia si è dimostrata notevolmente tenace. Inoltre i limiti dell’emancipazione individuale proposta dagliilluministi sono evidenti. Le donne ne sono ancora sostanzialmente escluse. Tutto ciò non deve farci trascurare il rilievo di questa sorta di rivoluzione copernicana che ribalta il rapporto fra persona e società, nelle sue diverse manifestazioni, dallo Stato alla famiglia, aprendo la strada, nel bene e nel male, all’individualismo moderno.

    L’Illuminismo industriale e la rivoluzione industriale

    L’Illuminismo è legato da molti fili con un’altra grande rivoluzione settecentesca, quella industriale, ed entrambe le rivoluzioni hanno vissuto negli ultimi decenni momenti non sempre facili dal punto di vista storiografico. All’Illuminismo è stata rimproverata una scarsa creatività filosofica e scientifica, rispetto a movimenti che lo hanno preceduto, come il Rinascimento o la rivoluzione scientifica del Seicento. È stato rimproverato anche di essersi risolto in un progetto di dominio e di manipolazione dell’uomo e della natura che ne contraddiceva le proclamate finalità di liberazione.

    Per quanto riguarda la rivoluzione industriale, molti dubbi sono stati avanzati sulla sua stessa esistenza. È stato osservato come i tassi di crescita dell’economia non siano stati nei decenni finali del secolo particolarmente elevati, che l’adozione su vasta scala della macchina a vapore sia avvenuta solo nel corso dell’Ottocento e che in ogni caso le trasformazioni riguardarono solo alcuni settori dell’economia inglese in aree geograficamente circoscritte. A beneficiare del ridimensionamento di questa rivoluzione settecentesca sono stati, ancora una volta, il Seicento e l’Ottocento. Da una parte si è preferito sottolineare come la rivoluzione industriale sia un processo di lunga durata, più evolutivo che rivoluzionario, connesso strettamente con la rivoluzione industriosa e la protoindustria, che l’hanno preceduta a partire dal Seicento. Dall’altra si è anche sottolineato come solo a partire dalla metà dell’Ottocento, con il trionfo dell’acciaio, della nuova industria chimica ed elettrica e con la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, il mondo sia entrato definitivamente in una nuova era.

    Il concetto di rivoluzione industriale è comunque sopravvissuto e anzi, negli ultimi anni, ha dimostrato una rinnovata vitalità. Se è vero che uno sguardo cronologicamente più ampio ci consente di cogliere meglio la sua natura, non per questo dobbiamo sottovalutare il significato di rottura rappresentato dalle trasformazioni economiche che ebbero luogo in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento. L’immagine che oggi abbiamo della rivoluzione industriale è certo meno prometeica di quella tradizionale ma non per questo meno rivoluzionaria. Si tratta certo di una rivoluzione permanente, le cui onde d’urto si sono progressivamente estese a tutto il globo ma non bisogna dimenticare che questo terremoto ha avuto il suo epicentro in un luogo e un momento preciso: l’Inghilterra di fine Settecento.

    Questa collocazione spazio-temporale ha riportato l’attenzione sul rapporto fra Illuminismo e trasformazioni economiche. Coniando l’espressione Illuminismo industriale, lo storico Joel Mokyr ha voluto sottolineare come la rivoluzione industriale non sia comprensibile senza tener conto non solo dell’apporto della rivoluzione scientifica, ma anche e forse soprattutto del mutamento della cultura scientifica diffusa, con il moltiplicarsi di accademie, società di lettura, riviste, e della nuova considerazione di cui gode nel Settecento il sapere tecnico che acquista così una maggiore capacità di dialogo con la cultura scientifica in senso stretto.

    L’alba dell’egemonia europea

    Proprio le nuove interpretazioni della rivoluzione industriale ci spingono a considerare con maggiore attenzione l’evoluzione delle relazioni economiche, ma anche politiche e culturali, fra l’Europa e il resto del mondo. Fin dalla sua prima fase,infatti, la trasformazione economica dell’Europa non sarebbe comprensibile senza tener conto dell’afflusso di risorse – prodotti alimentari e materie prime – provenienti dagli altri continenti. È difficile considerare una semplice coincidenza il fatto che la Gran Bretagna, negli stessi anni, dia avvio alla prima fase dell’industrializzazione e si imponga come potenza egemone del sistema di scambi intercontinentale. Limitarsi a considerare l’interazione fra le diverse dinamiche – economiche, culturali e politiche – interne all’Europa sarebbe fuorviante, per quanto riguarda il Settecento ancor più che nei secoli precedenti. La storia, se non globale, è certamente già mondiale.

    E, da questo punto di vista, nel XVIII secolo si assiste a una svolta di grande portata. Durante i primi due secoli dell’espansione europea, vi era stata un’evidente asimmetria fra quanto accadeva nello scacchiere atlantico e americano e gli sviluppi in Asia meridionale e orientale. Nel primo caso gli Europei avevano potuto dettare le proprie condizioni e plasmare la nuova geografia economica e culturale in funzione dei propri interessi e priorità. In Oriente invece avevano dovuto adattarsi a condizioni preesistenti e, nonostante l’indubbio successo conseguito inserendosi nei circuiti economici asiatici, erano stati i potentati asiatici a stabilire le regole del gioco, limitando, come fece la Cina dei Ming e dei Qing, o addirittura eliminando – si veda il Giappone dei Tokugawa– le intromissioni occidentali. L’esiguo margine di vantaggio di cui gli occidentali potevano godere in alcuni settori della tecnologia militare – velieri e armi da fuoco – fino alla metà del Settecento non fu decisivo.

    Poi, nel giro di pochi decenni, quelli che separano la battaglia di Plassey (1756) dalla presa di Seringapatam (1799), l’equilbrio si altera bruscamente. L’intero subcontinente indiano, per estensione e popolazione paragonabile al complesso dell’Europa, cade sotto il dominio britannico. I grandi imperi asiatici, nonostante le enormi risorse umane ed economiche, non appaiono più in grado di sostenere la competizione tecnologico-militare con gli Stati europei. È questo l’inizio della lunga stagione di egemonia globale europea che si sarebbe conclusa solo due secoli dopo. Questo ribaltamento degli equilibri mondiali può essere certamente interpretato come il punto di arrivo di processi avviati da tempo, ma resta il fatto che la sua concretizzazione è molto rapida.

    Un’altra rivoluzione settecentesca dunque, che ha avuto ripercussioni delle quali è difficile esagerare la portata. Ripercussioni economiche, come si è detto, ma anche sugli assetti del sistema degli Stati europei, perché d’ora innanzi il concetto di equilibrio europeo deve essere riformulato tenendo conto degli equilibri mondiali. Come gli osservatori più acuti comprendono già nella prima metà del secolo, la conservazione di un equilibrio continentale tra Francia, Austria, Prussia, e Russia nasconde sempre meno bene la realtà di un’egemonia mondiale britannica.

    Rivoluzioni politiche

    Veniamo ora le rivoluzioni par excellence, ovvero le grandi rivoluzioni politiche considerate dalla tradizione storiografica, ma anche dal senso comune, lo spartiacque non solo fra l’Antico Regime e i nuovi assetti politici e sociali liberali, rappresentativi e in seguito democratici, ma più, in generale, fra Tradizione e Modernità. E con ottime ragioni. In fondo è proprio nelle rivoluzioni politiche che emerge con maggiore evidenza l’intenzionalità e la consapevolezza del carattere rivoluzionario del Settecento.

    Nei secoli precedenti non erano certo mancati rivolgimenti politici drammatici, rivolte e congiure. Non pochi sovrani europei erano stati deposti ed erano morti di morte violenta. Anche l’esecuzione giudiziaria di Luigi XVI ha dei precedenti nelle esecuzioni di Carlo I e di Maria Stuart. E non erano mancate neppure le rivoluzioni propriamente dette, non solo rivoluzioni religiose, come la Riforma, ma anche rivoluzioni politiche, vale a dire quel particolare tipo di mutamento sociale in cui non sia ha semplicemente un avvicendamento traumatico al vertice del sistema politico o anche un cambiamento di regime, ma una messa in discussione radicale delle basi di legittimità dell’ordinamento politico e sociale vigente. Perché si possa parlare di rivoluzione occorre che non ci sia solo una lotta per il potere fra gruppi e fazioni ma anche una contrapposizione fra diverse posizioni ideologiche. Da questo punto di vista anche la rivolta contro gli Asburgo dei Paesi Bassi nel Cinquecento o i conflitti civili dell’Inghilterra del Seicento meritano l’appellativo di rivoluzioni. Ma i principi ai quali anche i rivoluzionari, e non solo i difensori dell’ordine costituito, facevano appello erano rivolti al passato. Poteva trattarsi di quelle che erano considerate le libertà tradizionali del popolo inglese o delle città dei Paesi Bassi, oppure della difesa della religione riformata, concepita come recupero della purezza evangelica di fronte alla minaccia papista o anglicana. In ogni caso si trattava di rivoluzioni orientate al passato, ovvero rivoluzioni che immaginavano di essere delle restaurazioni, anche se le loro conseguenze furono di fatto innovative.

    L’orientamento al futuro, la volontà consapevole di rifondare – o almeno di riformare in profondità – la società e le istituzioni sulla base di principi ritenuti razionali e universali, caratterizza, seppur non esclusivamente, le rivoluzioni (e in parte anche le politiche riformatrici dei sovrani) del Settecento. I rivoluzionari americani e soprattutto quelli francesi non si sentono più obbligati a ricercare in un passato mitizzato la legittimità delle loro istanze. La ragione laica viene ritenuta sufficiente a indicare e a giustificare la via da seguire. Il passato non è più un deposito di saggezza a cui attingere ma un accumulo di detriti e scorie che frenano il progresso dell’umanità e ostacolano il conseguimento della felicità, pubblica e privata, e dei quali è necessario quindi disfarsi.

    Panorama del secolo

    L’Europa delle successioni

    Marina Montacutelli

    Il Settecento sembra aver abbandonato le aspirazioni universalistiche. O, almeno,nella prima metà del secolo queste hanno cambiato forma: c’è bisogno, intanto, di denaro per le crescenti esigenze degli Stati e dei loro apparati, da ottenere con il minor costo possibile. La lotta per l’egemonia prosegue, ma con mezzi diversi dalla guerra che divora risorse e uomini: la diplomazia si rivela meno dispendiosa, i matrimoni più convenienti, le relazioni internazionali uno scacchiere volto alla conservazione dello status quo ante e all’equilibrio. Le guerre per la successione sui troni spagnolo, polacco e austriaco si rivelano come una possibilità di ridisegnare le alleanze nel Vecchio Continente ma soprattutto, e sia pur con differenze regionali e nazionali, progressivamente si constata la trasformazione da una società basata sulla cieca obbedienza all’autorità del sovrano e del clero a una società sempre più fondata sul diritto che mina alle fondamenta anche le relazioni tra gli Stati.

    La guerra con altri mezzi

    Le clausole della pace dei Pirenei suggeriscono che le guerre seicentesche sono ormai finite: progressivamente, nella seconda metà del Seicento, l’obiettivo sembra non essere più l’erigersi a monarchia universale, la difesa della vera fede o l’egemonia in Europa o nelle colonie ma, pressoché ovunque e quasi esclusivamente, il drenaggio delle risorse e l’aumento delle entrate fiscali ottenuti con il minor costo possibile: i matrimoni si rivelano più utili – e meno costosi – degli eserciti, le intese diplomatiche più dei conflitti. Le relazioni tra gli Stati sono un complesso scacchiere in cui ogni mossa ne produce di eguali e contrarie al fine di mantenere un sostanziale equilibrio; in realtà la guerra per l’egemonia prosegue: ma con altri mezzi e con protagonisti meno dispendiosi e letali.

    D’altra parte, la costruzione dello Stato moderno ha dato un nuovo impulso al gioco diplomatico favorendo strategie volte soprattutto al mantenimento dello status quo ante e affidando un diverso ruolo sia all’esercito che agli apparati, nel crescere un po’ ovunque della crisi della coscienza europea; si è fatta strada, infatti, non solo una nuova sensibilità ma, soprattutto, la necessità di acquisire un andamento dissimile proteso a trarre dal nuovo e dal diverso il massimo beneficio e, nel relativismo, inglobarlo negli apparati e nello Stato. In breve tempo, sia pur con differenze regionali e nazionali, si constata la trasformazione da una società basata sulla cieca obbedienza all’autorità del sovrano e del clero a una società fondata sul diritto che mina alle fondamenta anche i principi e le relazioni tra gli Stati: il principio territoriale e dinastico, connesso al prodursi degli Stati nazionali, si rivela a essi può congruo dei valori universali e vettore di utile promozione sociale e sostiene e sottende progressivamente il cambio di ruoli e funzioni nelle gerarchie continentali mentre giochi diplomatici sempre più complessi sono enfatizzati e non escono dal recinto delle corti. Ma i protagonisti sono cambiati.

    La guerra di successione spagnola

    Il 1° novembre 1700 muore, senza eredi maschi, il re di Spagna Carlo II d’Asburgo. Già da tempo il problema della spartizione di un regno, che, sia pur in disfacimento, resta tuttavia essenziale per gli equilibri europei e delle colonie americane, è all’attenzione delle corti europee: due anni prima le maggiori potenze interessate avevano tentato di dirimere la questione della successione fra i vari pretendenti, indicando come futuro re di Spagna il figlio del principe elettore di Baviera, Giuseppe Ferdinando, la cui nonna paterna era sorella del sovrano spagnolo. Si cercava così di scongiurare la possibilità che l’eredità andasse ad altri due discendenti indiretti di quella dinastia, Luigi XIV di Francia – che aveva sposato la sorella del re spagnolo – o l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, che, succedendo al trono di Spagna, avrebbero alterato l’equilibrio europeo. Nell’accordo, peraltro, erano previsti importanti compensi territoriali per quei due monarchi. Nel 1699 però la morte del giovanissimo principe bavarese porta le maggiori potenze a stipulare un nuovo trattato in favore del secondogenito dell’imperatore, Carlo d’Asburgo, al quale sarebbero andate la Spagna e le colonie d’America, mentre il delfino di Francia avrebbe dovuto ricevere Napoli, la Sicilia e il Ducato di Lorena, e il duca di Lorena il Ducato di Milano.

    Intanto, però, in Spagna cresce il numero dei fautori del partito dell’integrità spagnola, che si oppone allo smembramento del regno: un mese prima di morire il sovrano, aderendovi, nomina erede il duca d’Angiò, Filippo V di Borbone, nipote di Luigi XIV, a condizione che rinunci per sé e per i suoi successori ai diritti sulla corona francese, scongiurando in tal modo un’unione dinastica tra Borbone ed Asburgo di Spagna. Il Re Sole, constatandone i vantaggi, decide di disattendere l’accordo precedentemente stipulato e di accettare per il nipote la successione. Alcune iniziative politiche e militari, prese immediatamente dopo, rivelano tuttavia la sua intenzione di interferire negli affari spagnoli e il disegno sostanzialmente egemonico dei Borboni: truppe francesi sono inviate a Mantova e nei Paesi Bassi, mentre il nuovo re si circonda di consiglieri francesi e concede a compagnie commerciali francesi privilegi e vantaggi negli scambi con le colonie americane. L’unione tra le due corone, sia pur non formalizzata, sembra materializzarsi spaventando Gran Bretagna e Province Unite, che si alleano con l’imperatore Leopoldo I per impedire che si sopprimano i Pirenei creando una nuova monarchia universale, sotto il segno francese. Si uniscono alla Grande alleanza siglata a L’Aja vari principi tedeschi, fra cui l’elettore di Brandeburgo, premiato nel 1701 con il titolo di re di Prussia. Il duca di Savoia Vittorio Amedeo III, che in un primo tempo si allea alla Francia, passa nel 1703 al campo avversario, ottenendo la promessa del Monferrato; lo stesso cambiamento di campo viene compiuto dal re del Portogallo, che con il trattato Methuen-Alegrete sottoscrive un accordo commerciale con l’Inghilterra, a scapito degli Spagnoli e dei Francesi.

    La guerra inizia nel 1702 e, in una prima fase, sembra favorevole alle truppe francesi che si spingono verso Vienna, con il duca di Vendôme che si muove nella Pianura Padana e il maresciallo Villars lungo il Danubio: intanto, però, in Spagna si ribella la Catalogna, che conferisce il trono all’erede considerato legittimo in linea dinastica, il figlio dell’imperatore Carlo d’Asburgo, e gli Austriaci, respingendo le forze franco-spagnole, arrivano a conquistare dapprima Milano (1706) e poi Napoli (1707), mentre l’Inghilterra occupa Gibilterra (1704) e Minorca – e consente così agli alleati di occupare la Sardegna – e le truppe anglo-imperiali entrano in territorio francese espugnando Lille e arrivando, nel 1708, a minacciare Parigi. Tale capovolgimento è reso possibile dalla superiorità marittima anglo-olandese, dalle risorse finanziarie di Londra e di Amsterdam, nonché dalle capacità militari di Eugenio di Savoia e di John Churchill, duca di Marlborough. Ma la Francia è anche provata da un’eccezionale gelata che, nell’inverno del 1709, distrugge i raccolti e provoca una gravissima crisi demografica, economica e finanziaria. Luigi XIV è costretto a chiedere, ufficiosamente, la pace.

    Le condizioni imposte dagli alleati sono però così umilianti (tra queste, la richiesta dell’impegno da parte del re di Francia di allontanare, anche con le armi, suo nipote da Madrid) da costringerlo a chiedere al Paese un ulteriore sforzo per continuare la guerra. Nel settembre del 1709 Villars ferma l’avanzata degli alleati a Malplaquet; anche i tentativi di insediare Carlo III sul trono spagnolo falliscono perché Filippo V riesce a unire la sua causa a quella dell’indipendenza nazionale. Nel 1710, intanto, cade a Londra il ministero Whig, sostituito da un governo Tory, più sensibile alle proteste dei proprietari terrieri al peso delle tasse per la guerra. L’anno successivo, la prematura scomparsa del nuovo imperatore Giuseppe I, fratello di Carlo, apre il problema della successione agli Stati ereditari austriaci e alla dignità imperiale e minaccia di sconvolgere, in caso di riconoscimento di Carlo anche come re di Spagna, l’equilibrio europeo. La Grande alleanza si scioglie e i dissensi fra gli ex alleati portano a due trattati di pace separati: quello di Utrecht, concluso nel 1713 dalla Francia con la Gran Bretagna e l’Olanda, e quello di Rastadt, l’anno dopo, con la monarchia austriaca. Il primo prevede la cessione di gran parte del Canada agli Inglesi, che ottengono nel Mediterraneo Gibilterra e Minorca, oltre al riconoscimento dell’asiento, ossia il monopolio della tratta degli schiavi africani nelle colonie spagnole, e il vascello de permissione per inviarvi una nave di merci inglesi ogni anno rompendo il tradizionale monopolio spagnolo; il secondo porta i Paesi Bassi ex spagnoli, nonché il Ducato di Milano e i regni di Napoli e di Sardegna, sotto il dominio austriaco.

    Ma al di là delle clausole dei trattati, che pure per l’Italia rappresentano la fine di una lunga egemonia (confermata nel 1720 dalla pace dell’Aja), la guerra per la successione al trono di Madrid e la sua conclusione evidenziano non solo la decadenza della Spagna ma anche la crisi francese: per dirla con Voltaire, dopo una fase iniziale nella quale l’Europa appare immersa nel torpore della sorpresa e dell’impotenza, quando vide la monarchia spagnola sottomessa alla Francia, della quale era stata rivale per trecento anni e uno dei nipoti di Luigi XIV pronto a governare ai suoi ordini, la Spagna, l’America, la metà dell’Italia e i Paesi Bassi", la conclusione del conflitto vede il tramonto di un modello costituzionale e di governo: quello dell’assolutismo monarchico, impersonificato dal Re Sole che, un anno dopo, muore mentre si affacciano sulla scena dell’egemonia l’Inghilterra e l’Impero.

    La guerra di successione polacca

    Tuttavia la pace siglata a Utrecht, con un testo scritto per l’ultima volta in latino e destinata a consolidare la pace nell’equilibrio degli Stati, si rivela in breve tempo una semplice tregua: un nuovo focolaio si accende nell’instabile area baltica nel febbraio del 1733. Dopo la morte del re di Polonia Augusto II, la Dieta polacca – cui spetta il diritto di elezione del re secondo i Pacta conventa imposti dalla nobiltà nel 1573 – elegge suo successore Stanislao Leszczynski, suocero di Luigi XV, già sovrano dal 1704 al 1709. Le truppe russe e austriache entrano in Polonia e impongono – con il nome di Federico Augusto III – la proclamazione dell’elettore di Sassonia Federico Augusto. A favore di Stanislao si schierano la Francia (in cui prevale la fazione antiaustriaca, capeggiata dal ministro degli Esteri Chauvelin favorevole a riprendere la sua politica di espansione nei territori renani e in Italia), il Ducato di Savoia – cui viene promesso con il trattato di Torino lo Stato di Milano – la Spagna (trattato dell’Escorial) e la Baviera.

    Dopo l’invasione della Polonia, Leszczynski si rifugia a Danzica e i Russi assediano la città che cade nel luglio del 1734. Ma nella guerra di successione polacca gli alleati vedono soprattutto l’occasione per far valere i propri interessi in altre aree e per contrastare il crescente espansionismo asburgico: la guerra si combatte infatti quasi esclusivamente in Italia, dove le armate imperiali vengono sconfitte. Milano viene occupata nel dicembre del 1733 dall’esercito franco-piemontese e i Regni di Napoli e Sicilia vengono conquistati dall’esercito spagnolo comandato da Carlo I di Borbone che sconfigge gli Austriaci a Bitonto (25 maggio 1734). Un simile esito avrebbe alterato il complesso equilibrio europeo: per questa ragione l’Inghilterra, che pure non aveva preso parte al conflitto, minaccia di schierarsi al fianco degli Austro-Russi.

    La pace di Vienna, le cui trattative iniziano nel 1735 e che viene siglata ben tre anni dopo (1738), stabilisce soprattutto il nuovo assetto politico territoriale italiano: in particolare, l’Austria deve rinunciare ai Regni di Napoli e di Sicilia a favore di Carlo di Borbone, ma ottiene il riconoscimento della successione in Toscana per Francesco Stefano di Lorena, genero dell’imperatore, mentre il Ducato di Lorena è dato come vitalizio a Stanislao Leszczynski e alla sua morte sarà unito alla Francia.

    La guerra di successione austriaca

    Anche gli equilibri conseguiti con difficoltà a Vienna non durano a lungo: tra le sue clausole, l’imperatore Carlo VI aveva ottenuto dalle maggiori potenze il riconoscimento della Prammatica sanzione, con cui si stabiliva che, in assenza di eredi maschi, i domini ereditari della casa d’Austria sarebbero andati alla discendenza femminile. Alla sua morte, nel 1740, la successione di sua figlia Maria Teresa è tuttavia contestata soprattutto dall’elettore di Baviera Carlo Alberto, che nel maggio del 1741 stringe un’alleanza con la Francia, la Spagna, la Sassonia e la Prussia. Questa intanto, fin dal dicembre del 1740, ha invaso – senza dichiarazione di guerra – la Slesia, una delle regioni più ricche dell’impero per le miniere di ferro ed alcune fiorenti manifatture tessili. Nel contempo, gli alleati franco-bavaresi invadono la Boemia e l’Austria, dove Carlo Alberto si fa proclamare arciduca e, poco dopo, è eletto imperatore come Carlo VII. Maria Teresa, che ha avviato trattative per un’alleanza con la Gran Bretagna, da cui ottiene aiuti finanziari, riceve solennemente nella Dieta di Presburgo (1741) la corona di regina d’Ungheria, grazie ai privilegi fiscali concessi alla nobiltà magiara; può quindi muovere un esercito contro la Baviera, conquistando Monaco e, cedendo la Slesia a Federico II, riesce a distaccare il Regno di Prussia dai suoi alleati, che sconfigge poco dopo in Boemia. L’alleanza con la Gran Bretagna rafforza l’esercito austriaco per gli aiuti che apportano l’elettore di Hannover (dove, per l’unione personale del 1714, regna Giorgio II d’Inghilterra) e l’Assia: i Francesi sono sconfitti nel giugno del 1743 a Dettingen e Carlo VII deve rifugiarsi a Francoforte.

    Ma i successi austriaci spingono Federico II a riprendere le armi per timore di perdere la Slesia, e le vicende belliche si complicano sui vari teatri di guerra: Germania, Paesi Bassi, Renania, Italia, a cui si deve aggiungere la guerra per mare e quella nelle colonie dell’America settentrionale, aspramente combattuta.

    La morte di Carlo VII e il trattato di Dresda (1745) liberano l’Austria dalla guerra con la Baviera e con la Prussia; nonostante le importanti vittorie dell’esercito francese sotto il comando del maresciallo Maurizio di Sassonia e il ritiro dell’esercito britannico per la ribellione giacobita in Scozia, l’Austria, dopo aver confermato la cessione della Slesia alla Prussia, riesce con la pace di Aquisgrana (1748) a fare riconoscere la successione al trono imperiale di Francesco I di Lorena, marito di Maria Teresa. Il trattato riporta in pratica lo status quo ante sia in Europa, sia nelle colonie americane. In Italia l’equilibrio raggiunto apre un mezzo secolo di pace, che favorisce l’introduzione di importanti riforme soprattutto in Lombardia, in Toscana e, per certi aspetti, nei regni di Napoli e di Sicilia. Le ostilità suscitate dai successi di Federico II in Austria, in Francia e in Russia, e al tempo stesso il conflitto coloniale rimasto aperto tra Francia e Inghilterra per il dominio dell’America del Nord (ma anche per il commercio dello zucchero nei Caraibi e ancor più per il controllo dei mercati in India), pongono invece le premesse per il rovesciamento delle alleanze (Austria, Francia e Russia contro la Prussia sostenuta dalla Gran Bretagna) e il riaccendersi delle ostilità nella guerra dei Sette anni (1756-1763).

    Rimandi

    Volume 44: Felix Austria: l’Impero asburgico da un fanciullo ignudo a Praga magica

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    Volume 62: La Prussia e l’ascesa della Germania

    Equilibri fra potenze: ascese e declini

    Marina Montacutelli

    Agli inizi del Settecento gran parte dell’Europa è - sia pur nei diversi regimi - un’unica comunità, con frequenti legami dinastici e identici principi politici; il sostanziale equilibrio sembra rompersi con le guerre di successione in cui Francia, Inghilterra, Impero asburgico e Spagna si scontrano e

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