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Calabria malata. Sanità, l’altra ’ndrangheta
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E-book240 pagine3 ore

Calabria malata. Sanità, l’altra ’ndrangheta

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Info su questo ebook

I fatti presi in considerazione vanno dal 12 marzo 2015 al 18 aprile 2019. I comportamenti, invece, sono antichi.
Attraverso l’analisi degli eventi e delle decisioni, non necessariamente illegittime, cerco di dimostrare che la Calabria non interessa a nessuno, se non quando si avvicinano le elezioni.
La Calabria non è importante per Roma né, purtroppo, per i calabresi, che si sono arresi a quanto giudicano inevitabile e immutabile.
Questa assuefazione collettiva è la droga venduta dall’altra ’ndrangheta, silenziosa, che si insinua nella vita quotidiana, in particolare della sanità pubblica, una miniera d’oro, per far proliferare i propri affari.
Anche il nuovo si è subito adeguato. I parlamentari 5 stelle, con le dovute eccezioni, sono come gli altri in Calabria.
I privati, quando si sentono minacciati, si rivolgono alla politica o addirittura alle istituzioni. Anche la Chiesa è poco attenta a non esporsi in affari non sempre trasparenti. I funzionari delle aziende sono spesso tacciati di essere conniventi con i privati. Le organizzazioni sindacali hanno parzialmente perso la loro identità.
Un Presidente di “sinistra” cerca di far annullare un mio decreto per l’assunzione di quasi mille operatori. Ma non dovrebbe esserne felice? Capisco: li voleva assumere lui. Le assunzioni portano voti.
La Ministra, per calpestare la Calabria, cita dati sui livelli essenziali di assistenza che i suoi collaboratori conoscono come fasulli. Nessuno si indigna, tranne il sottoscritto.
L’Asp di Reggio Calabria viene commissariata per infiltrazioni ’ndranghetiste. E viene nominato un prefetto a gestirla. E le competenze? Non servono.
La media borghesia si è costruita una nicchia di benessere: manda i figli a studiare e a lavorare fuori regione e si gode il sole e il mare della Calabria.
Chiunque provi a mettere a fuoco i problemi, cercando la verità, diventa scomodo. Se poi ci mette anche passione e disinteresse, diventa un virus urticante.
Vogliamo reagire? Il primo passo è  conoscere.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2019
ISBN9788868227975
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    Calabria malata. Sanità, l’altra ’ndrangheta - Massimo Scura

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    MASSIMO SCURA

    CALABRIA

    MALATA

    Sanità, l’altra ’ndrangheta

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2019

    ISBN: 978-88-6822-797-5

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Alle calabresi
    e ai calabresi

    Introduzione

    I fatti presi in considerazione vanno dal 12 marzo 2015 al 18 dicembre 2018, periodo durante il quale sono stato Commissario ad acta del governo alla sanità in Calabria e abbracciano un periodo successivo fino al 18 aprile 2019.

    I comportamenti, invece, sono antichi. E sono quei comportamenti a rendere devastante, in questa regione, quel mix in cui sanità, ’ndrangheta e politica trovano convenienza nell’intrattenere buoni rapporti.

    Per cominciare alcuni scampoli di storia recente: un Presidente di sinistra (dice) fa votare in Consiglio Regionale un ordine del giorno che lo autorizzi ad annullare un decreto di assunzione di quasi mille operatori. Ma non dovrebbe esserne felice? No, forse perché il cappello su quelle assunzioni voleva metterlo lui: mille persone assunte equivalgono a migliaia di voti per tutta la vita lavorativa, e hanno un costo di cinquanta milioni di euro l’anno per il servizio sanitario regionale. Se sugli oltre ventimila addetti del servizio sanitario regionale, fossero quattromila gli assunti e beneficiari di una carriera, senza selezioni, grazie alla politica, frutterebbero fino a 40.000 voti e avrebbero un costo di circa 200 milioni di euro l’anno, che paga la sanità pubblica, cioè altri. Quanti anni occorrono alla magistratura per recuperare una cifra simile dal patrimonio della malavita organizzata?

    La sanità porta voti, e alla politica i voti interessano più d’ogni cosa. Se un senatore ottiene di organizzare due audizioni sullo stato della sanità calabrese, prima ascoltando il commissario e poi il governatore, ma non accade null’altro, e se un ministro si fa vedere da queste parti con gran clamore mediatico e annuncia una riunione del consiglio dei ministri in Calabria, è il segno che sono in pieno svolgimento le grandi manovre in avvicinamento alle elezioni regionali di fine 2019, con le europee tappa intermedia. Anche la guerra tra la ministra della salute e il presidente regionale sulle nomine dei direttori generali delle aziende sanitarie rientra nella logica pre-elettorale. Purché se ne parli.

    In questo contesto le false notizie sono all’ordine del giorno. Non fanno più specie. Abbiamo fatto l’abitudine, ahimé, alle migliaia di migranti morti annegati nel Mediterraneo, figuriamoci a qualche innocente bugia. La ministra per motivare la sua indignazione verso la Calabria cita dati sui Livelli Essenziali di Assistenza, che tutti i suoi collaboratori diretti conoscono come fasulli, ma, per utilità politica, trascura la verità…

    Ancora: l’Asp di Reggio Calabria viene commissariata per infiltrazioni mafiose. Viene nominata una commissione guidata da... un prefetto. Come se l’Asp fosse un comune. Ma se una squadra di calcio va male, la proprietà chiama un nuovo allenatore, non un prefetto o un generale! Infatti un altro prefetto era subentrato anni prima, sempre per scioglimento, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non è una questione di persone, ma di competenze. E non sta scritto da nessuna parte che per garantire legalità e trasparenza ci vogliano le stellette.

    Nessuno si indigna. Abbiamo fatto il callo. Ci coprono di fango e non diciamo nulla, nemmeno ci puliamo! Ci militarizzano e non reagiamo, quasi quasi ci solleva da responsabilità e ci rende più sereni. Siamo incapaci di unirci per migliorare la nostra vita. Peggio, se una cosa non la faccio io, non la deve fare nessuno.

    Ecco il senso di queste pagine: attraverso l’analisi di fatti, comportamenti e decisioni, non necessariamente illegittime, dimostrare che la Calabria, in fondo, non interessa a nessuno se non quando si avvicinano le elezioni. La Calabria non interessa né a Roma per convenienza, né – purtroppo – ai calabresi, arresisi a quanto ormai giudicano inevitabile e immutabile. E questa assuefazione collettiva è la droga venduta dalla ’ndrangheta silenziosa per proliferare i propri affari in sanità.

    Manca l’amore per la ricerca della verità. Anzi l’uso della menzogna o delle false notizie è talmente usuale che passa inosservato. Spesso non si ha rispetto neppure di se stessi, delle proprie parole e, peggio, di quanto scritto e sottoscritto.

    Anche il nuovo, dal quale ci si aspetterebbe una ventata di aria fresca, si è immediatamente adeguato. I cinque stelle, con le dovute eccezioni, sono come gli altri, almeno in Calabria. Anzi in quanto a fake news, come si dice oggi, sono imbattibili. La fantasia, infatti sopperisce all’incompetenza.

    La magistratura e le forze dell’ordine sono impegnate ad assicurare alla giustizia chi ammazza, corrompe, truffa o delinque. Ma esiste un’altra ’ndrangheta, più subdola e indiretta che si insinua nella vita quotidiana, in particolare della sanità pubblica, un affare da 3,5 miliardi di euro all’anno, quasi il 70% del bilancio regionale, che coinvolge settori privati e finanche istituzioni. I privati sono talmente assuefatti a vedere soddisfatti i loro interessi, che anche quando si sentono minacciati da una sentenza della magistratura amministrativa, si rivolgono alla politica o addirittura alle istituzioni, le quali, invece di respingerli e prenderne le distanze, li stanno a sentire o addirittura ne prendono le parti. Anche la Chiesa è poco attenta (in alcuni suoi esponenti) a non esporsi in affari non sempre chiari e trasparenti, sorda ai richiami evangelici di Papa Francesco. I funzionari delle aziende sono spesso chiacchierati e tacciati di essere conniventi con i privati, alcuni di loro sono raggiunti da avvisi di garanzia o rinviati a giudizio, ma intorno tutti stanno zitti. Nessuno reagisce. L’omertà e la paura, sorelle gemelle, spadroneggiano e intanto le aziende sanitarie pagano milioni all’anno che si potrebbero evitare, se fossero gestite in modo efficiente e trasparente. Alcuni funzionari della regione o della prefettura vengono nominati commissari ad acta per l’ottemperanza di sentenze di pagamento e, a quasi mille euro a nomina, arrotondano lo stipendio. E tutto è legittimo. L’importante è che il sistema faccia acqua da tutte le parti. Ognuno mette un tappo per chiudere una piccola falla… purché a pagamento, oppure raccoglie un po’ d’acqua con il proprio pentolino.

    Le organizzazioni sindacali hanno parzialmente perso la loro identità, che dovrebbe essere quella di difendere i diritti dei lavoratori. Questi non li interpellano quasi più, scavalcandoli, in cerca di una giustizia diretta. I sindacalisti si fanno gli affari loro all’ombra della politica. A volte, infatti, i sindacati scelgono un altro ruolo: quello di fiancheggiatori della politica (se è al potere) oppure di opposizione, a prescindere, riempendo di esposti i faldoni delle procure. Eppure in questi quattro anni un bagliore sindacale si è notato.

    In Calabria non funziona quasi nulla: nella classifica sulla qualità della vita da anni le cinque province occupano gli ultimissimi posti. La regione calabrese è la più assenteista d’Italia e Locri è il comune italiano con il maggior tasso di assenteismo. La Calabria occupa il 191° posto su 193 regioni d’Europa in quanto ad efficienza amministrativa; il suo reddito procapite è il più basso d’Italia; è ultima nelle donazioni di organi, ma prima nel numero di comuni e aziende sanitarie sciolti per infiltrazioni mafiose. Insomma il malaffare che altrove è fisiologico in Calabria è patologico e, purtroppo, accettato supinamente. La sanità è una riserva di caccia allettante.

    La media borghesia si è costruita una nicchia di benessere: manda i figli a studiare e poi a lavorare fuori regione e si gode ciò che di bello resta in Calabria, il sole e il mare, oltre a una discreta vita di relazioni.

    Tutto ciò avviene nella consapevolezza e nel silenzio di tutti. I consapevoli si dividono tra furbi, politici, sindacalisti e media borghesia. Tutti gli altri sono tenuti all’oscuro dai primi e vivono in modo rassegnato, più o meno frustrato, questa situazione disastrata.

    Chiunque provi a mettere a fuoco i problemi, cercando la verità e applicando il principio di legalità, trasparenza e competenza diventa scomodo. Se poi ci mette anche passione e disinteresse, che gli garantiscono credibilità ed autorevolezza, diventa un virus urticante.

    Vogliamo reagire? Il primo passo è conoscere.

    1. Il mio amore per la Calabria

    Il mio amore per la Calabria si perde nella notte dei miei tempi. Avevo un anno quando i miei genitori neolaureati cercavano lavoro al Nord ed io diventavo il nono figlio di nonna Marietta, nella casa di Vaccarizzo Albanese, un paese arbëreshë della provincia di Cosenza.

    Sono stato ospite dei nonni paterni per diversi mesi, accolto con calore dai fratelli e sorelle di papà, primogenito di otto figli.

    Era il 1945 ed ero troppo piccolo per capire che stavamo vivendo uno dei capitoli più difficili della nostra storia nazionale.

    I miei genitori si trasferirono a Borgosesia, in provincia di Vercelli, ed è lì che sono cresciuto con i miei fratelli Maria Barbara e Marco, pensando però sempre alla Calabria. Del resto i ricordi battono come un secondo cuore.

    La casa dei nonni era per me un piccolo paradiso: attendevo impaziente le vacanze estive per farvi ritorno. Era una casa piuttosto grande, equidistante dal centro del paese e dalla frazione S. Nicola, sulla strada provinciale; era costruita su tre livelli: a piano terra c’era la caserma dei carabinieri, visti da noi bambini come super eroi, con due celle per reclusi che, a mia memoria, non ospitarono mai nessuno. Al secondo piano c’era un enorme forno dove la nonna, aiutata da qualche figlia e da Ersilia, una donna del posto, ogni quindici giorni preparava un pane fragrante che sarebbe bastato per le due settimane seguenti e, nell’occasione, le gabmarite (gabba il marito). Erano pizze saporitissime che sparivano in un batter d’occhio, anche perché per l’occasione gli zii che vivevano da Corigliano, Rossano e Cosenza ne approfittavano per salire a Vaccarizzo. Una bella festa familiare.

    La mattina il banditore scendeva dal centro per informarci dei nuovi arrivi. Pepè! Pepè! Pepereperepè! Si annunciava con una trombetta. Pisci alla chiazza, facioli reci lire o chilo.

    Le scuole allora iniziavano il primo ottobre e io mi trattenevo fino al 26 settembre per la festività dei Santi Cosmo e Damiano, patroni del vicino paesino San Cosmo Albanese.

    Se il fervore devozionale animava migliaia di fedeli provenienti anche dalla Campania, Puglia e Basilicata, oltreché da ogni parte della Calabria, in pellegrinaggio per il santuario di San Cosmo, un diverso ardore muoveva i miei passi da ragazzo. Infatti, durante la novena che precedeva la festa, nel pomeriggio, gruppi di donne partivano a piedi alla volta del santuario, distante circa 3 km e in quell’occasione si potevano ammirare le ragazze, bellissime nei loro variopinti costumi tradizionali albanesi, ed era lecito pregare per un miracolo.

    Altrimenti gli sguardi erano solo furtivi: in chiesa, durante la santa messa domenicale, o alla fontana dove le giovani accompagnavano le madri a riempire di acqua fresca di sorgente gli orciuoli che, una volta pieni, riportavano a casa ritti sulla testa, come indossatrici ante litteram. Allora non c’era l’acqua corrente nelle case.

    Corteggiavamo con costanza, tenacia e soprattutto a distanza! 

    In quel mese, esclusi i giorni della novena, alle 16.00 in punto, dopo aver bevuto a crudo un uovo che la nonna mi obbligava a succhiare, praticando due fori alle estremità del guscio – conditio sine qua non per poter andare a giocare – si andava al campo.

    Così, semplicemente, veniva chiamato un piano ricavato da una collina rocciosa, spianata a suon di piccone dai nostri padri. Le porte erano senza rete e le linee delimitanti il terreno di gioco non esistevano. Semplicemente, quando la palla colpiva la roccia da un lato, oppure si perdeva lungo il pendio della collina dal lato opposto, era fallo laterale. Sulla linea di fondo si andava a occhio, con buona sportività. Cadere significava tornare a casa con ginocchia e gomiti sanguinanti e, peggio, rovinare i panni che indossavamo. Non tutti possedevano molti ricambi. Per non parlare delle scarpe.

    In caso di braciole, come chiamavamo le ferite, ci pensava Ciuchino, soprannome dato a Salvatore, ottimo portiere e allo stesso tempo staff medico che, raccolta una manciata di polvere di roccia, la passava sulla parte sanguinante a mo’ di emostatico. Nessuno ha mai avuto infezioni. E poi dicono che non esiste l’angelo custode!

    Si giocava fin verso le 18,30 (l’ora legale sarebbe stata introdotta nel 1966), quando quasi non si vedeva più il pallone e si rischiava di perderlo, se rotolava giù dalla collina, cosa che durante le partite, accesissime, capitava di frequente. Poi tutti alla fontana a rinfrescarci. Di fianco c’era il lavatoio e poco più in là l’abbeveratoio per gli animali. 

    La vita in paese era estremamente interessante. Passavamo le mattinate andando a trovare gli artigiani intenti ai loro lavori. Il fabbro, il sarto, il falegname, il barbiere, il maniscalco e il calzolaio, il mio preferito. Costruiva le scarpe ed era uno spettacolo vedere come riusciva a modellare il manufatto con una destrezza che gli strumenti a disposizione non lasciavano sospettare.

    Poi una partita a carte, a stop o a briscola e tressette o a bocce costituite da pezzi di piastrelle sagomate, in mancanza di meglio!

    In quel mese passavo alcuni giorni a Cosenza da mio zio Giulio, ingegnere, ora navantaseienne. Mi portava con sé sui cantieri in costruzione: la scuola di Castrovillari, l’acquedotto di Frascineto, la diga sul Fiume Crati. Ce n’era abbastanza per un ragazzo per scegliere di diventare ingegnere da grande. Il Premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta e Karl Ziegler per le loro ricerche sui polimeri, la sintesi del polipropilene isotattico, il famoso moplen delle pubblicità, avrebbero indirizzato la mia specializzazione in ingegneria chimica.

    Il 27 settembre il nonno mi accompagnava a Cosenza dove prendevo il treno per Roma. Mi affidava a qualche passeggero dello scompartimento e io, a 10 anni, viaggiavo solo. A Roma trovavo alla Stazione Termini uno zio, che il giorno dopo, con la stessa raccomandazione, mi metteva sul treno per Milano, dove ad attendermi trovavo mio padre. Altri tempi, sicuramente più difficili, ma più sicuri e sereni.

    Nel 1965 morì mio nonno Gennaro. Aveva solo la quinta elementare ed era rimasto orfano di padre in età adolescenziale; ciononostante seppe costruire una fortuna, condivisa con suo fratello Francesco, realizzando le Autolinee Scura. Avevano iniziato acquistando a basso prezzo un autocarro in svendita dall’esercito, dopo la prima guerra mondiale e gli avevano montato una carrozzeria in legno, costruita con le loro mani. Poi, via via dei pullman sempre più moderni. Oggi le Autolinee IAS, sotto la guida dei miei cugini Gennaro e Francesco Scura, percorrono le strade regionali e nazionali, trasportando i calabresi anche fino a Milano, Torino e in Sicilia.

    Come il nonno, anche nonna Marietta aveva una visione proiettata al futuro. Infatti aveva sostenuto le figlie negli studi universitari a Napoli e Messina, suscitando commenti non sempre benevoli, così lontano da casa!

    Praticamente fino alla laurea un mese a Vaccarizzo era assicurato con grande gioia mia e dei nonni.

    Dal 1969, anno del mio matrimonio con Tani e inizio di una famiglia allietata da tre figlie, Paola, Emanuela e Francesca e poi da cinque nipoti, Giada, Cora, Lorenzo, Ambra e Martina, le mie visite a Vaccarizzo si diradarono. Quando andavo, una volta l’anno, accompagnavo zio Angiolino, costretto sulla sedia a rotelle, al quale ero affezionatissimo fin da bambino, a verificare lo stato d’avanzamento lavori della costruenda centrale termoelettrica ENEL di Rossano Calabro, che nessun comune aveva voluto in altri siti siciliani, calabresi e pugliesi. L’effetto nimby esisteva già allora.

    Alfedena (AQ) 6 marzo 2015

    Alfedena è il paese dove è nata mia madre. Oggi 940 residenti, cui si aggiungono nella stagione dello sci (Roccaraso è a due passi) e nei periodi estivi oltre 5.000 villeggianti. Il mio interesse per questo comune in provincia dell’Aquila al confine con il Molise è sensibilmente aumentato quando, nel 2011, su invito di un gruppo di giovani, ho accettato di candidarmi a sindaco e abbiamo vinto le elezioni con una lista civica che raccoglie sensibilità politiche diverse, ma è cementata da onestà intellettuale e materiale e amore per il nostro paese. Uno scrutinio al cardiopalmo, 288 a 282! Saremmo stati confermati cinque anni dopo con uno scarto di 70 voti.

    Come ogni venerdì, la Ciurma si incontra, dopo cena, in Comune per fare il punto della situazione. Così amano definirsi gli assessori e i consiglieri di maggioranza che ho il piacere di guidare. D’un tratto mi vibra il cellulare e appare sul display il nome di Federico Gelli, l’ex vicepresidente della Giunta Regionale Toscana, ai tempi in cui ero direttore generale delle Asl, di Livorno prima e di Siena poi. Quasi dodici anni di lavoro intenso e di grandissime soddisfazioni palesate anche da riconoscimenti importanti.

    Nel 2008 l’Asl 7 di Siena è stata insignita del Premio Qualità della Pubblica Amministrazione (unica Asl) per il proprio sistema organizzativo basato sul modello EFQM, (European Foundation for Quality Management) e i risultati conseguiti in ambito sanitario ed economico. Dove sta scritto che per risanare un bilancio occorra tagliare linearmente la spesa!? Nel 2009 ancora l’Asl 7 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il cosiddetto Premio dei Premi, per l’innovazione organizzativa. Ricordo che, evidenziandogli che i morti sul lavoro, argomento che gli stava molto a cuore, in provincia di Siena

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