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La Casa di Dio
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E-book364 pagine5 ore

La Casa di Dio

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Info su questo ebook

Nell’estate del 1620, nelle stanze dell’arcivescovado di Milano, un uomo attenta alla vita del Cardinale Federico Borromeo e viene incarcerato nella Torre dell’Imperatore, in attesa di essere torturato e condannato a morte.
Il Cardinale affida la confessione dell'uomo al prete Giovan Pietro Giussani, con lo scopo, tutt’altro che celato, di raccogliere quante più informazioni possibili sul prigioniero. Si scopre così che quest’ultimo è il pastore riformato Blasius Alexander, membro di quel gruppo di predicatori mandati in Valtellina dalle Tre Leghe Retiche a contrastare i disegni della Chiesa di Roma e dell’alleato spagnolo.

Si tratta di un romanzo storico dove gli avvenimenti locali e personali si intrecciano con i pensieri e le grandi vicende che segneranno la storia del continente, in anni contrassegnati da grandi scoperte scientifiche, dall’arte di Caravaggio e da sanguinose e interminabili battaglie nelle quali la Valtellina si ritrova ad essere una preda ambita dalle diverse fazioni in lotta.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2016
ISBN9786050447996
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    Anteprima del libro

    La Casa di Dio - Andrea Luzzi

    Luzzi

    La Torre dell’Imperatore

    Le chiese delle nostre terre, francesi o spagnole, sedici secoli dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, portano raffigurate nelle loro pareti le sembianze terrificanti di quello che Mater Ecclesia chiama Inferno. Nessuna di queste, che io ricordi, raffigura la Porta, la Soglia, il Vestibolo o l'Aleph, che dir si voglia, della tana del demonio. Neppure i novizi amano parlarne, eppure sono i soli a poterne discorrere dal momento che i più savi di noi tralasciano certi discorsi.

    Nemmeno Bosch, nelle sue Visioni, osò affrescare il principio delle tenebre e quel fiammingo conosceva bene il mestiere. Nei tempi antichi ci si arrivava per mare, varcando i confini stessi del mondo ed addentrandosi nei freddi e fumosi meandri dell'Oltretomba da una grotta, mentre l'Alighieri decise che i cristiani dovessero varcare la soglia della dannazione attraverso una porta: ma non descrisse né i muri ai lati né lo stato di quell'ingresso. Vi lesse una non beneaugurante iscrizione e credette di aver assolto il proprio compito. Fin da bambino avrei voluto sapere come gli apparve, avere indizi sul colore, sul tipo di legna o pietra con i quali quel varco venne chiuso, sulle dimensioni e su dove Virgilio avesse posto le mani per passare oltre. Ma anche il Poeta mi tradì e ben poco seppe dirmi.

    Gli arabi videro l'orefizio che conduceva alle tenebre fra le gole del fiume Alcantara, dove i greci sbarcarono fuggendo alle persecuzioni delle loro terre, per portare più a occidente la loro grande civiltà. Come i greci, anche gli arabi si convinsero che quella discesa fra le curve sotterrannee del fiume apriva un varco che conduceva all'antro di Lucifero, dritto dritto alla vicina Jabal al-burk ā n, la montagna di fuoco, il qui ignem mulcet, la tana di un Efesto inferocito, impegnato a lanciare strali di fuoco su quelle genti spaventate. Quale buco meglio s'addice alla caduta dell'Angelo Ribelle di quel Monte terribile sorvegliato dai mostri dello Stretto!

    Non sono uno studioso, ma so bene come l'Inferno terribile dei fuochi inestinguibili e dei demoni equini faccia parte più della politica spirituale che delle Sacre Scritture. Nessuna visione dell'Apostolo o versetto del libro d'Isaia avrebbe potuto servire il disegno principe di spaventare il gregge meglio di quell'orribil fosso scavato dall'Angelo Dannato. Le fiamme eterne sanno soggiogare il popolo, come l'ululato del lupo fa rinserrare le pecore che ruminano fra i suoi echi. Ma forse di questo non dovrei scrivere, non sapendo bene quale sia il confine fra logica ed anabattismo, fra pensiero ed eresia.

    Eppure l'incontro che avrei avuto ancor più confonde e rende indistinti i confini fra ortodossia e paganesimo. Ma allora ignoravo molte cose.

    Ad innescare pensieri di tal sorta fu la vista del portone che mi avrebbe condotto alle prigioni sotterranee della Torre dell'Imperatore, che si volle adibire, tempo addietro, a prigione per le streghe in attesa del fuoco, prima terreno e poi eterno. Fu il Cardinale Federico Borromeo ad avere la bella pensata di utilizzare quel vecchio torrione a tale scopo. Ancor più curiosa risulta essere l'idea di scavare le prigioni nelle fondamenta della torre, scendendo almeno venti metri al di sotto della strada e lasciando il fabbricato del tutto inutilizzato, forse per non permettere a quelle anime dannate di avvicinarsi al Cielo; questo deve aver avuto nella testa il nostro Cardinale. Se proprio dobbiamo mandarli all'Inferno, facciamoli abituare all'idea.

    E qualcuno dice che l'hanno fatto Cardinale solo perché ha un parente santo.

    Privilegio per pochi, la prigione rinchiudeva l'uomo al quale avrei dovuto chiedere la confessione. Ad un eretico, seguace del Dorfmann, autore di un peccato per cui non poteva esserci perdono.

    Non immaginavo diversa la porta degli Inferi, non maestosa, ma stretta e bassa come se solo contorcendosi l'uomo potesse dannarsi per l'eternità, non potendoci essere il benché minimo segno di grandezza nella distruzione infinita dell'essere.

    E forse questo il Poeta non volle narrare: la dannazione non poteva che avere in principio una sofferenza ulteriore, un'umiliazione finale. E allora meglio tacere e lasciare al lettore il compito di trovare immagini di portoni e porziuncole.

    Così pensavo mentre scendevo le scale per quell'Antinferno, dove il mio dannato attendeva la sua ora nella speranza di lasciare, il prima possibile, quell'ultimo luogo terreno e raggiungere la vita senza vita che lo attendeva a sua volta. Quando aprirono la porta, dopo la bussata, un odore di escrementi e piscio mi fece indietreggiare mezzo passo. Il carceriere non capì, abituato com'era ai miasmi del luogo e fece un cenno d'invito. Gli consegnai il mio nome, ma non so se comprese, emise un grugnito e guidò la mia discesa al girone dov'ero diretto. Preferivo avere quell'uomo davanti e sotto di me, mentre scendevamo gli scalini, piuttosto che alle mie spalle; lo sguardo, la bocca contorta e la mancanza totale di parola mi facevano pensare ad un bovino. Mancavano solo le corna e la coda, o forse il buio nascondeva pure quelle.

    I gradini permettevano a malapena di scendere, ma la mia guida sembrava sicura dei suoi passi. Più di una volta mi appoggiai al muro per non finire addosso a quell'uomo. Non so se mi spaventasse più la caduta o la reazione di quel guardiano.

    Sembrava di discendere verso il centro del pianeta, che già Eratostene seppe essere una palla, ma che per secoli pensammo insensatamente piatto. Ed anche oggi se ne discute e si fanno processi agli studiosi, come se un processo potesse rimettere le cose a posto, secondo i propri desideri. Ma la Terra avrà la forma che avrà, qualunque sia la decisione di Cardinali e giurati. Chissà se quel Virgilio silenzioso, che mi trovavo davanti, la vedeva ancora piatta o se, più probabilmente, nulla pensava di tutto ciò che stava oltre la porticina da cui mi fece entrare; e se il Governatore gli farà avere un gallo, questa sera, per cena, allora la Terra potrebbe anche essere a forma di Spagna, od avere le fattezze di Re Filippo; tanto nessuno saprà mai come stanno le cose e magari non è nemmeno bene che si sappia. Chi l'ha detto che bisogna sapere come Dio ha fatto il mondo? Lo sa lui, e tanto basta.

    D'abitudine, faccio parlare i pensieri degli altri e li ricamo nell'aria. Ognuno ha i propri passatempi ed io ho quello di dare voce alle menti mute. A volte rido, cercando di nascondere i denti. Qualche anno fa scrissi anche una burla, su degli animali che, come le volpi ed i corvi di Esopo, se la intendevano fra di loro. Questo bue con le chiavi mi aveva fatto tornare alla mente tutti i miei asini, le pecore e le rane di un tempo.

    In mezzo a questi giochi di vecchio giungemmo alla cella. Senza aggiungere nulla, al nulla intercorso lungo il tragitto, il mio compagno estrasse un chiavone da non so dove, forse da una borsa che teneva agganciata alla cinta, lo infilò in un buco da cui veniva un raggio di luce e volse il ferro nel senso opposto alla logica, girando verso sinistra come se avesse deciso di sbarrare la cella per l'eternità. E invece, con mia sorpresa, la porta si aprì.

    Feci appena in tempo a fare un passo oltre la soglia che l'uscio si richiuse dietro di me e la chiave fece un altro giro, immaginai dalla parte opposta. Come mi aspettavo, la cella era immersa in una oscurità profonda. Solo un piccolo raggio di luce veniva da una grata in un angolo sperduto lassù in alto.

    L'uomo che avrei dovuto incontrare se ne stava rannicchiato sul pavimento al centro del quadrilatero, avvolto in una coperta. Lo scansai, quasi per caso e andai ad appoggiarmi al muro sulla destra. La cella era talmente piccola che due uomini posti l'uno di fronte all'altro, con le spalle appoggiate alla parete, avrebbero potuto toccarsi allungando le braccia.

    Forse stava dormendo; non sapevo che fare. Avrei potuto toccarlo, oppure attendere che si muovesse, o fare un rumore, con i piedi magari, contro il muro. Decisi di non far nulla; forse avrebbe assunto le parti del seccatore, il ratto che si era trovato un buco nella parete dall'altra parte.

    Possibile che non si fosse accorto, quell'uomo, della mia entrata e della porta che si era prima aperta e poi richiusa?

    «Wer ist hier?» un sussurro aiutò la mia indecisione e l'attesa.

    «Ein Mann» risposi, non sembrandomi il caso di dilungarmi in spiegazioni. La risposta sembrava appropriata, umile e fiera allo stesso tempo. Pensandoci, successivamente, lo dico sinceramente, me ne compiacqui.

    La coperta si mosse ed un'ombra prese il posto di una porzione della parete.

    «Un uomo che capisce il tedesco» venne dal lato opposto al mio, in ottimo italiano.

    «È una delle ragioni per cui sono qui.»

    Mi guardò, o almeno mi sembrò di riconoscere il bianco degli occhi. Fino al sorgere del sole non avrei potuto vedere il suo viso, perciò cercai di abituarmi a quella conversazione fra ombre.

    «E quali sono le altre ragioni per cui siete qui?»

    «Difficile da dire: forse pensano che io possa convincervi ad una richiesta di perdono o forse sperano di poter ottenere qualche informazione sui vostri fratelli o sulle vostre prossime imprese. Per quanto mi riguarda mi accontenterei di un nome.»

    L’ombra lasciò passare solo il tempo necessario per vedere fino a che punto avrebbe potuto spingersi. Poi d'un fiato disse: «Uomo infelice, perché le tristi dimore dei morti vieni a visitare?»

    Usai la stessa tattica, attesi giusto il tempo per cogliere appieno il frutto che mi era stato lanciato.

    «Mentre scendevo in questa cella, pensavo, tra gli altri, proprio a Tiresia e alla discesa di Odisseo negli inferi. Tiresia, se ho ben colto l'enigma che si cela dietro al vostro uomo infelice, conclude dicendo: lascia ch'io ti narri

    «Non mi è andata male» mi rispose questa volta a bruciapelo, «non mi hanno mandato il solito stupido servitore di sacrestia e l'Odissea l'avete colta al volo. Quantomeno non morirò sommerso dai rosari di un noioso vegliardo con più anni che cervello. Ma per quale motivo mi mandano un vecchio?»

    «Da cosa avete capito...» chiesi io.

    «Se aveste avuto meno anni, non avreste atteso un mio cenno. L'attesa è per i vecchi. Se aveste avuto meno anni, magari fresco di seminario, non avreste avuto pietà di un eretico. Quando si è giovani i confini sono marcati ed i nemici sono bestie buone per la strappata. Come avete speso il tempo che vi siete lasciato indietro?»

    «Sono stato al servizio del Borromeo.»

    «Quale dei due? Il caro cugino?»

    «Il maggiore, il maggiore, fino alla sua morte.»

    «E che facevate?»

    «Scrivevo per lo più lettere, prediche, annunci, discorsi, agiografie, a volte libri. Molte volte traduzioni dal greco e dall'ebraico.»

    «Conoscete quelle lingue?»

    «Non da conversare amabilmente intorno ad una tavola imbandita ma qualche lettura...Me la cavo di più con il tedesco.»

    «E chi vi manda?»

    «Federico.»

    Quella serie di interrogativi mi aveva provato. Ero andato lì per porre delle domande e mi ritrovavo accerchiato da quell'inchiesta. Per di più, pareva di conversare con un'ombra. Non c'era modo di vedere i lineamenti del viso, solo un paio di orbite biancastre sembrava fuoriuscire dal muro di fronte a me.

    «Il Cardinal Federico» declamò sarcastico «comunque io parlo italiano.»

    «L'ho notato» risposi quasi scherzosamente.

    «State a servizio da Federico ora?»

    «No. Dopo aver scritto della vita di San Carlo ho lasciato la curia e ho trovato tana in un convento.»

    «Perché? I preti non lasciano le curie, con le loro carni rosse e bianche, da mangiare e da toccare, sempre di prima scelta. In un convento la fortuna non è così a buon mercato.»

    Forse stava provando la mia capacità di sopportazione. Avrebbe imparato molto presto che non avrei mai dovuto chiedere perdono al Signore per l'ira. Per altri peccati, certamente, ma l'ira non era fra i miei compagni abituali.

    «Qual è il vostro nome?» chiesi per non lasciargli troppa corda. La temperanza non va abusata.

    «Nomi vorrete dire, per quel che valgono, che certo costano meno del pane ed uno, volendo, può mettersi tutti i nomi dei martiri e degli apostoli ed essere meno santo di un cane rabbioso; ho un nome per ogni valle, secondo le esigenze di stanziamento: lungo l'En, dove nacqui, nella Gotteshausbund, mi chiamano Plasch Zonder, le altre leghe mi hanno dato nome Blasius Alexander e qualcuno su a Zurigo mi chiama Blech. Giunsi in Valtellina da pastore d'anime e preferii farmi chiamare Biagio o Alessandro, secondo i gusti.»

    «Ho sentito parlare di voi, allora.» dissi, quasi senza accorgermene «eravate uno di quei predicatori mandati dalle Leghe a conquistare le Valli del Mera e dell'Adda, con le spade e le campane.»

    «Posso immaginare i toni ed i discorsi» sorrise il pastore, «e voi che nome avete?»

    «Nomi, anche io porto più di un nome, Giovanni, come l'apostolo visionario e Pietro come l'apostolo papa.»

    «Sentii parlare di uno scrittore, al servizio di Carlo, un medico che si fece prete: lo chiamavano filosofo.»

    «Quel filosofo sono io, per quanto di filosofia mi intenda ben poco.»

    «E per quale motivo un filosofo prete abbandona il Cardinale di Milano?»

    «Fui con Carlo fino alla sua morte ed abbastanza al servizio di Federico per scegliere il convento.»

    «Il cugino non vi aggrada?» dal basso in alto intravidi uno sguardo interessato.

    «Il giovane non vale il dito mignolo del vecchio. Ma viviamo tempi nei quali bisogna fornire l'esercito di nuovi santi, meglio ancora se viventi.»

    «Se non mi fossi fermato, oggi il vostro Cardinale potrebbe ambire alla santità chiedendo udienza direttamente al Signore nostro Dio» biascicò Blasius sperando che comprendessi bene la sua frustrazione per non aver compiuto fino in fondo la sua missione da assassino.

    «Questo lo so bene,» risposi.

    «Perché tentaste di uccidere Federico?»

    «Mi chiedo perché non l'abbiate fatto voi» fu la risposta.

    «I preti non uccidono i cardinali.»

    «Forse sono troppo impegnati a bruciare eretici.»

    Non mossi un muscolo. Sapevo molto bene che se mi fossi addentrato in una difesa di Santa Madre Chiesa ne sarei uscito con le ossa rotte e certe battaglie sono buone per chi ha vent'anni e crede ancora alla ragione ed al torto. Con il doppio degli anni addosso l'uomo non crede più nemmeno alla giustizia e a settant'anni, quanti ne avevo io allora, rimaneva solo la speranza che dall'altra parte Qualcuno avrebbe rimediato consegnandoci l'eterna salvezza.

    «Tutti questi parenti nelle alte sfere aureolate potrebbero far pensare ad una santità trasmessa per sangue, o meglio, per sperma» proseguì il pastore «fra un po' la Chiesa dovrà ridiscutere la parentela di Caino e Abele. Non è una buona cosa che siano fratelli.»

    «Traitez des saints aux protestants...» lo interruppi sperando che continuasse.

    E senza farsi pregare, continuò «...Est vin à boire aux enfants»

    «Non si fa in tempo a parlar di santi con voi, che bestemmiate come demoni.»

    «Non avete l'aria di uno che si trovi di fronte al diavolo» mi sentii dire.

    «Hat Gott einen Teufel geschaffen?» usai il tedesco, in mia difesa, come per far intendere che avevo visto ben più delle mura di Milano per tremare di fronte ad un pastore riformato.

    «Domande pericolose, prete. Il tedesco non sempre aiuta ad evitare gli autodafé. Se ci sentisse il guardiano ora penserebbe che siamo fuggiti dalla torre di Babele prima del crollo. Non ho letto il vostro libro sul Borromeo: immagino che abbiate lisciato per bene il pelo di quel gattone. Spero non abbiate dovuto sputare troppe setole.»

    Non mi sentii offeso, al posto di quell'uomo avrei morso allo stesso modo.

    Ciò che scrissi di Carlo era una cronaca, non poco pomposa, della sua vita. Si trattava di una persona di grande cultura e di forti decisioni, senza alcun dubbio, ma qualcosa tralasciai per non dover riportare le debolezze, e qualcosa aggiunsi perché le virtù meglio risaltassero sulla pagina.

    Quando presentai il lavoro al cugino Federico, quello disse che non vi era segno alcuno di santità in quei fogli; io risposi che se era la santità che si andava cercando avrei potuto meglio scrivere di un San Gaudenzio che si portava in giro il testone staccatogli da una spada o di una Sant'Agata torturata come nel dipinto del Piombo.

    Voglio vedere i miracoli, disse Federico, non c'è traccia di miracoli in questa storia. Ho scritto quello che ho visto o che mi hanno raccontato persone molto vicine al Cardinale, risposi senza pensare. Questo è il tuo problema, Giovanni Pietro, tu vuoi vedere quando invece dovresti ascoltare; fatti un giro per il ducato, vai a Novara, a Vercelli, segui il Ticino fino a Pavia e troverai le storie di cui abbiamo bisogno.

    E di storie certo ne trovai, da scriverci cento libri. Non c'è povero, malato, storpio, appestato, cieco, mutilato che non abbia chiesto l'intercessione di quel Borromeo.

    Mi avevano parlato di un conte, Emanuele Filiberto Rotaro Severino di Torino e stabilimmo di incontrarci sul Lago Maggiore. Questi mi raccontò di come non riuscisse più ad orinare e quali dolori dovesse sopportare per questo motivo; nessun chirurgo sapeva porre rimedio a quella afflizione. Allora prese a pregare il Santo e fece voto di andare a visitarne il sepolcro, in quanto all'epoca il Cardinale era già morto da un pezzo e subito si riprese. Questo presi del racconto e lo scrissi: anche ad occidente del Ducato di Milano poteva arrivare la benedizione del Borromeo.

    Uno dei giardinieri mi raccontò la faccenda con più dovizia di particolari: il suo padrone se ne stava in casa a bestemmiare come un dolciniano, fatto non certo inusuale per il Conte, per i dolori lancinanti al bassoventre. Non sapendo più come resistere, si lanciò fuori di casa, completamente nudo, con la verga in mano, la quale, per effetto del male che lo affliggeva, tendeva ad esser sempre dura e gagliarda, ed innaffiò gli astanti ed i viandanti con gran vigoria ed allegrezza. Durò così fino ad esaurimento del liquido e sgonfiamento delle sacche viscerali. Una pisciata sontuosa, da rinvigorire le piante del giardino, dalle orchidee alla lattuga, che quell'uomo a servizio avrebbe portato al cuoco quella sera.

    Fu a quel punto che il conte si ricordò dell'ultima bestemmia proferita prima del fontanone, rivolta direttamente al Cardinale Borromeo e volle così omaggiarlo con una visita al santo sepolcro dove ripeté per filo e per segno il rosario di insulti che lo portarono alla guarigione, pensando così di far contente le spoglie del santo.

    Con il tempo, continuò quel servitore, il racconto prese a modificarsi, venne riadattato per esser raccontato alle dame della corte savoiarda e quella versione, molto più zuccherosa, giunse a me e, per mio tramite, giungerà a coloro che verranno.

    «A maggior gloria del Signore» commentò Blasius.

    Federico censurò anche il titolo di quell'episodio, La santa pisciata. Speravo non si accorgesse dell'audacia ma mi riportò il manoscritto con un bel La guarigione del conte.

    «Senz'altro meno impegnativo» approvò il prigioniero.

    La rilettura di quell'episodio, di cui anche lui aveva sentito parlare, divertì molto Blasius, che cominciò a trovare in me un buon compagno da cui accomiatarsi quando l'avrebbero portato di fronte al Tribunale: poiché non ci poteva essere rogo senza confessione, né confessione senza tortura né tortura senza giudici e Tribunale.

    Intuendo che quel racconto aveva disperso un poco di diffidenza, continuai.

    Un altro, un ragazzotto, Giovanni Battista se ricordo bene, i nomi a volte sono affreschi di santi su muri di stalla, cadde in un pozzo a testa in giù per cercare di recuperare una secchia d'acqua. Dal fondo del pozzo invocò la Vergine e San Carlo, forse per non sbagliare, e in pochi istanti si ritrovò fuori, con ancora la secchia in mano. Miracolo di difficile attribuzione. Tirò con più veemenza la Vergine o il Cardinale, o si poteva forse dire frutto di un lavoro di squadra?

    Fatto sta che il padre di questo bamboccio mi disse che quel canchero si era scolato mezza bottiglia del vino nuovo e mezzo ubriaco si era infilato in quella grana.

    A tirarlo su erano stati lui ed il fratello e per meglio far comprendere a quello stupido che i santi perdonano ma i parenti no, gliene diedero tante da fargli vomitare pure il vino che si era trincato.

    Forse fu proprio quella bastonata a fargli vedere Santi, Vergini e presepi tutti intorno al pozzo.

    «Ma anche di questo, immagino, sia passata la parte meno violenta» mise lì Blasius.

    «Forse di un tenero buffetto appena mi fu concesso di scrivere.» E proseguii «ma questi sono solo i miracoli avvenuti dopo la sua morte, ve ne sono anche di più vecchi, ai quali io stesso ebbi modo di assistere.»

    Grande scalpore fece il rifiuto del Cardinale a somministrare l'Eucaristia ad un contadino, soprannominato Buschino, che si era avvicinato per riceverla. Disse il Santo, ritirando l'ostia ed il braccio, che non poteva comunicare un uomo che non aveva praticato il digiuno nelle ore precedenti la Messa.

    Il Prevosto si alzò dallo scranno e chiese al Buschino se la notizia rispondeva a verità e al cenno del capo di quello seguì un'inginocchiata generale di tutti fedeli presenti nella chiesa di fronte a quel Cardinale che sapeva leggere anche negli stomaci dei suoi fedeli. Temetti il cedimento di qualche inginocchiatoio.

    Non aggiunsi certo a questa bella fiaba la cronaca della sontuosa mangiata che io ed il Cardinale avemmo nella casa del Prevosto. Per una sua pesantezza di stomaco il Santo prese un buon pezzo di galletto arrosto, aprì l'uscio di casa e buttò fuori lui stesso, in mezzo alla polvere, quel boccone lasciato a mezzo. Mosso dalla gran fame, il Buschino, che passava col suo mulo davanti alla porta, si avventò sul polletto e lo mangiò, ossa comprese, senza nemmeno volgersi ad osservare chi fosse il lanciatore e da dove venisse quella fortuna inattesa.

    San Carlo richiuse la porta, ma non dimenticò quella faccia.

    «Una tale furberia vale un intero arcivescovado» concluse Blasius divertito.

    Feci quello che mi era stato chiesto, come sempre del resto, e portai questo cumulo di fiabette a Sua Eccellenza, che le trovò molto più vicine ai suoi intendimenti e anzi, mi propose qualche cambiamento al fine di aggiungere un po' di sale e di pepe a quella lattuga fresca fresca. A dire il vero ci mise anche l'olio e la ricotta, ma la ricetta gli diede ciò che voleva: di lì a poco sarebbe stato il cugino di un santo e un po' di grani di santità sarebbero caduti sulla sua capoccia grattugiando a dovere il formaggio del propinquo.

    «È una bella storia, GiovanPietro» mi confortò Blasius.

    «Ora mi piacerebbe sapere qualcosa di voi.»

    «Che vi interessa? Una confessione? Senza tortura? Non è molto cristiano...»

    Ridemmo. Da due vie diverse convergevamo stabilmente sulla bestemmia.

    Poi Blasius chiese: «Perché quel sant'uomo di Federico manda un vecchio monaco non più al suo servizio a parlare col suo attentatore?»

    «Perché non è un saggio» risposi «né un santo, né un uomo di cuore incline al perdono. È estremamente furbo. E la scaltrezza non si addice ai martiri e ai puri di cuore.» Già, non si può certo dire che Nostro Signore fosse scaltro.

    Fu un pensiero del tutto nuovo e curioso, a cui non avevo mai dato voce, come chi d'abitudine non si sofferma sulla blasfemia. Ma il pastore aveva ragione. Diventare martiri non rientra fra i piani degli uomini scaltri ma la Chiesa pullulava di uomini scaltri che veneravano i martiri.

    «Federico sa il vostro nome» gli annunciai «ma vuole sapere chi siete e quali mani vi hanno condotto fino a Milano. Non avete l'aria di un sicario o di uno sprovveduto, questo mi disse. Da buon burattinaio di uomini, il Cardinale sa quali sono le virtù e le debolezze che fanno parte di noi. Gli dispiacerebbe vedervi morire senza avere delle risposte, qualche briciolo di informazione che possa guidare le sue prossime mosse. La guerra che avete scatenato su al nord aguzza ancor più l'ingegnosa mente di quell'uomo e non intende mettervi a morte senza provare a sapere qualcosa di più su quello che si sta preparando dalle vostre parti.»

    «Un giorno le nostre terre faranno a meno di questi rossi guardiani delle nostre anime.»

    Non gli diedi spago.

    «A Federico piacerebbe molto che io tornassi con una conversione; se davvero siete ciò che pensano, vogliono essere sicuri di non avere fra le mani un Cellario, un testardo che non si convertirebbe nemmeno dopo un anno di torture in tutte le prigioni d'Italia.»

    «Non valgo l'alluce destro di quell'uomo, potete stare tranquillo.»

    «Ma a me la vostra conversione non interessa» lo rassicurai.

    «Volete informazioni? Posso regalarvi la mia storia, non vi è nulla che possa interessare al Borromeo, ma forse la vostra abilità potrà trarne qualche buono spunto, a mitigazione delle malefatte ormai stampate sulla vita di San Carlo.»

    «Sarei onorato di poter sentire di quello che sta avvenendo nelle Valli.»

    «Allora, sedetevi, sarà una lunga notte.»

    «Mi aspettavo un paucis accipet» dissi io ricordando l'Apuleio.

    «Gli asini non mancheranno comunque.»

    Sorridemmo complici, poi il pastore prese a raccontare delle sue vicende, a partire dall'anno in cui le Tre Leghe decisero di affidargli il ruolo di predicatore nelle zone di confine della Valtellina.

    I Predicatori

    Blasius, così lo chiameremo anche noi, nome che non gli venne dagli eventi, ma da coloro che ancora non potevano sapere chi fosse o cosa sarebbe diventato; perché il nome che noi tutti portiamo non dipende dalle nostre azioni, né dal nostro essere, ma piuttosto da un piacere effimero del suono, o dalle ripercussioni periodiche degli alberi famigliari, o da qualche santo che per puro caso passava nei dintorni nel giorno della venuta al mondo; Blasius sedeva, la mente e lo sguardo rapiti dai colori che il lago rifletteva nella sera. In Valtellina, quando cambiava la stagione, gli sbalzi di temperatura portavano con sé nuovi tumulti. Questa volta fu l'Archinti, vescovo di Como, a portare l'aria cattiva: quattro anni prima, nel 1614, si fece il suo bel giro della valle, in spregio alle vive proteste che nascevano da parte dei riformati. Si fermò un po' dappertutto, elogiò le strutture delle chiese della zona e prese nota dei lavori che andavano effettuati per rimetterle in sesto, e intanto, sotto sotto, persuase tutti i preti che incontrò lungo la via ad opporsi alla pace che le Tre Leghe volevano imporre fra le due Chiese. Una presenza intollerabile, tanto che se il vescovo non si fosse affrettato a tornarsene nel Ducato qualcuno gli avrebbe fatto la pelle. Come poteva pretendere di andarsene a zonzo in territorio non suo ad aizzare i propri soldati contro i governatori! L’Archinti se la prese tanto per quel ritorno affrettato all'arcivescovado comasco che, passati quattro anni, decise di indire un bel Sinodo. Blasius e gli altri pastori lo lessero come una provocazione ed il nostro riuscì a convincere Michele Monti, allora podestà di Traona, a dissuadere con pene severissime chiunque volesse parteciparvi. Questi papisti avrebbero dovuto imparare a richiedere le concessioni prima di fare i loro comodi nelle terre delle Leghe. Non voleva con quel gesto aprire un conflitto, ma far capire a quella gente che i tempi durante i quali potevano tiranneggiare senza tener conto di confini e governatori erano finiti. Dovevano imparare a stare al loro posto: si era concluso il tempo della Chiesa Unica e se non lo capivano con le buone, i giorni sereni, per quelle terre, sarebbero stati un ricordo; il diluvio avrebbe sommerso tutti, preti cattolici e pastori evangelici, contadini riformati e conti spagnoli, senza pietà, inesorabilmente. E quando la tempesta si avvicinava, il pastore di Traona prendeva moglie e carabattole e si faceva due giorni a dorso di cavallo per giungere sulle rive di questo lago, nell'attesa che i venti si calmassero e si potesse riprendere la predicazione.

    Le acque placide della Val Poschiavo, così diverse dal fiume bizzoso con cui si doveva convivere giù in Valtellina, dove un anno sì e un anno no la gente del paese doveva far fronte alle alluvioni che le piogge estive portavano con sé, calmavano anche il suo spirito e forse anche per questo, lui, Blasius, aveva consigliato agli altri di ritrovarsi in questi luoghi. L'occhio del ciclone, il centro immobile del turbinio, la valle di Poschiavo se ne stava fra i territori della Lega Caddea e i Terzieri italiani di Valtellina, Bormio e Chiavenna. Terra di lingua italiana e di credo riformato, dove si incontravano i due culti senza sussulti, benché a poche ore di cammino, il vescovo di Chur venisse gravemente mutilato dei suoi poteri ed i cattolici di Sondrio e Morbegno facessero sentire il loro malcontento ad ogni cambio di stagione o di arciprete. Là, l'erba sulla riva nemmeno si piegava al debole vento e l'acqua non emetteva suono.

    In quel silenzio, Blasius pensava al Dio dei cristiani e dei cattolici, a Calvino, Zwingli e al Commander, alle pieghe

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