La sedia vuota
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Anteprima del libro
La sedia vuota - Giorgio Boccaccio
Giorgio Boccaccio
La sedia vuota
EEE - Edizioni Tripla E
Giorgio Boccaccio, La sedia vuota
© EEE – Edizioni Tripla E, 2023. Terza edizione.
Prima edizione: Nonsolologos, 2012
Seconda edizione: Libera Sorgente, 2019
Collana Crescita personale
, n. 2
ISBN 978-88-5539-3278-7
EEE – Edizioni Tripla E
di Piera Rossotti
www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, fatti e avvenimenti citati sono invenzione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione.
Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
Cover: foto di Giuseppe Guin.
Ringraziamenti
Un sentito grazie va alle persone del mio staff con cui ho il privilegio di lavorare.
Vorrei esprimere inoltre la mia gratitudine a tutti i miei lettori.
Dopo che l’avrete letto non avrete più paura di morire!
PROLOGO
Londra – Facoltà di Fisica
Ore 10.00 A.M.
Il Tempo non esiste.
L’anziano e acciaccato professor Crawford parlava chiaro e con voce ferma nell’Aula Magna appena rifatta di nuovi drappi porpora alle pareti.
Dal megaschermo una voce sosteneva che «Time is what you make out of it», il tempo dipende da ciò che ne fai. Le immagini che accompagnavano tale affermazione erano di una madre che allattava il suo neonato, di un astronauta che fluttuava nello spazio, di un pilota durante una gara automobilistica.
Il professore alzò la voce: «Ogni istante che viviamo crea risonanze e frequenze diverse in relazione sia al tipo di azione che facciamo che allo stato d’animo in cui siamo. La qualità e la velocità del tempo è chiaramente diversa.
Come potete vedere dalle immagini, la madre, l’astronauta, il pilota rappresentano tre mondi di una diversa realtà in cui il ritmo del tempo viene vissuto come rallentato o velocizzato, teso o rilassato, in base al nostro livello di coscienza».
«Il tempo è proprio un fattore strano» pensava il ragazzo seduto in terza fila, futuro dottore in Fisica, che, osservando le facce assorte dei ragazzi della Londra bene e degli altri come lui – non di sangue blu ma comunque beati e intelligenti, smaniava di far parte di quelli che un giorno avrebbero potuto cambiare il mondo.
Il professore continuava la sua lezione: «Due ore passate a guardare un film possono volare se ci divertiamo oppure non finire mai se ci annoiamo. La durata del tempo indicata dall’orologio è uguale per tutti, ma ognuno di noi vivrà il film con il proprio tempo personale, svincolato completamente da quello dell’orologio. Così ci saranno individui che vivranno questo spazio chiamato tempo come denaro, altri lo vivranno come arte, altri ancora come un meraviglioso sogno. Certo, il tempo del sogno, che per ogni civiltà è uno stato di tempo non ordinario, legato al potere della preghiera dove tutto può accadere, come il miracolo del perdono e della guarigione. Il tempo è una frequenza» asserì accalorato il professore. «Nella civiltà occidentale la mente degli uomini è immersa da più di cinque millenni, come asserisce il popolo Maya, nella frequenza di un tempo artificiale, basato sulla proporzione 12:60, i due numeri chiave della nostra misura del tempo. Dodici sono i mesi, dodici sono le ore di ciascuna metà del giorno, sessanta sono i minuti e sessanta sono i secondi. Appare quindi evidente l’assoluta artificialità di questi cicli, che non corrispondono per nessun motivo al mondo ad alcun ciclo naturale a noi noto. I Maya avevano una diversa concezione. La scoperta e lo studio della Legge del Tempo ha messo in risalto un fatto troppo a lungo ignorato da tutti: che la razza umana opera sulla base di un grande errore. Studiando il loro calendario, ci rendiamo conto che il sistema non è lineare, ma è definito da una matrice radiale in cui il punto zero è il sempre-presente nel qui e ora.»
L’argomento era straordinariamente affascinante e complesso, ma in quel momento suonò la campana che segnalava la fine della lezione e tutti si alzarono.
L’Aula Magna si svuotò in pochi istanti.
Il ragazzo rimase per qualche minuto a guardare il professore e la sedia accanto a lui, vuota.
CAPITOLO 1
26 settembre 2010
Erano le nove in punto di un ventoso e caldo mattino, quando un uomo e una donna, freschi di matrimonio, ridevano a crepapelle per una battuta di Woody Allen appena ascoltata alla radio.
La strada li conduceva dritti verso il convegno annuale di Lugano dove il professore avrebbe tenuto una conferenza per parlare del suo ultimo libro ancora senza titolo, ma, lungo il selciato bagnato dalla pioggia, in uno specifico punto proprio tra la sponda del lago e qualche cespuglio di camelie fiorito in ritardo, i due dovettero svoltare, trovandosi per magia davanti a una stradina che scendeva giù.
Imboccata la nuova via, ora la jeep correva lenta, incendiando di rosso i boschi circostanti, e giunta in fondo si fermò.
David scese dall’auto e si incamminò lungo il sentiero sassoso che costeggiava la rupe con la dolce e chiara Isabel, che lo seguiva distratta. Egli sapeva benissimo dove stava andando e quando i suoi occhi neri – tra i fitti rami di incolti cespugli di azalee e rododendri ormai senza fiori – a un tratto si illuminarono, non ebbe più alcun dubbio e la vide.
La casa, che protesa verso il lago, come un’attempata bella donna, continuava a cercare invano allo specchio l’immagine di uno splendore perduto, inconsapevole del fascino sottile che il tempo, con le sue rughe, aveva disegnato per lei. Nulla era cambiato all’apparenza: gli stessi muri di un’indecifrabile verde pallido a cui facevano corona i fitti boschi e i vigneti che salivano fino al Monte Piatto.
Quante volte da bambino, lungo quei pendii, si era perduto restando immobile per ore e ore davanti ai singolari massi erratici, scavati nella roccia forse dai Celti per i loro riti, sperando che improbabili visioni, suscitate per magia dagli antichi e sapienti druidi, svelassero a lui, prescelto, il segreto della vita e del tempo.
E ancora un altro segno dava ai suoi occhi infantili misteriosa importanza al luogo: la singolare sorgente intermittente, che sgorgava dalla roccia in un orrido racchiuso nel cortile di una villa sorta lì per consentire ai suoi frequentatori di stupirsi e riflettere.
Fluiva impetuosa dai sassi acqua cristallina per poi svanire lentamente e inesorabilmente in un silenzio scuro. Le prime volte il piccolo David si rattristava e piangeva quando, al posto della schiuma dell’acqua corrente, trovava secco e cupo un foro che sprofondava nel lago. Ma presto imparò ad attendere la rinascita del gorgoglio leggiadro e gioioso: svanire e apparire era il gioco impertinente di quell’acqua, sempre la stessa, che andava e veniva, andava e veniva, andava e veniva, e lo incantava.
«Questo è il luogo dove ho vissuto da ragazzo» disse assorto.
«Stai bene?» chiese Isabel.
«Bene, bene» rispose.
«Ti vedo strano. Cosa ci facevi qui tanto tempo fa?» replicò incuriosita la giovane donna.
I due giunsero davanti al cancello. Entrarono.
Presa per mano Isabel, David alzò lo sguardo verso l’orizzonte ed esclamò:
«Sediamoci su quei sassi».
E mentre David faceva una lunga serie di calmi respiri per fare contatto con il suo sé più profondo, due farfalle blu, uscendo dalla scia d’argento che la brezza leggera disegna con i raggi del sole sulla superficie dell’acqua, si posarono sulla spalla di Isabel. Lei allora posò gli occhi su quelli di lui, tirò indietro i lunghi capelli e si mise comoda ad ascoltare le parole dell’uomo che aveva scelto per la vita.
«Avevo da poco compiuto diciotto anni. Mia mamma Federica Bianchi, donna effervescente, sempre ansiosa e piena di interessi, in occasione del mio compleanno mi regalò l’iscrizione annuale alla scuola di musica del professor Attilio Gelmini. Voleva da me tre cose: che mi laureassi in medicina, che giocassi a golf e che suonassi bene il pianoforte.
La mamma era una donna sempre allegra ma si portava dentro un profondo senso di solitudine derivante dal rapporto con i suoi genitori. Infatti li aveva persi in un incidente d’auto il giorno in cui aveva compiuto ventidue anni. Rimase sola per un po’, finché non conobbe un uomo di nome Patrick Frost. Quell’uomo diventò mio padre.
Patrick era taciturno e se ne stava sempre volentieri in disparte a farsi gli affari suoi anche perché, sosteneva, la gente lo annoiava mortalmente.
Papà andava molto d’accordo con mamma, anche se l’impatto iniziale non fu dei più idilliaci. Lui era un tipo calmo e lei sempre molto ansiosa, quindi si compensavano. Faceva l’avvocato, sempre molto impegnato a studiare leggi su leggi. Da poco aveva aperto il suo nuovo studio associato con un vecchio amico di Università, Luca Belli: lo studio ovviamente prese il nome Belli – Frost.
Aveva due passioni: fare jogging almeno tre volte a settimana e raccogliere le castagne nel periodo autunnale. Tutte le domeniche di ottobre, da