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Economie e società preindustriali: (Vol. I)
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Economie e società preindustriali: (Vol. I)
E-book306 pagine4 ore

Economie e società preindustriali: (Vol. I)

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In questo volume, l’autore non si propone di analizzare la storia economica nel suo complesso, né descrivere l’evoluzione delle tecniche, e tantomeno le teorie economiche e i loro sviluppi, quanto piuttosto di cercare di comprendere i meccanismi del funzionamento reale dell’economia delle società preindustriali, limitatamente all’area del bacino del Mediterraneo. Si tratta di un lunghissimo periodo storico – e anzi prima ancora preistorico e protostorico -, che solo in parte coincide cronologicamente con l’età feudale, ponendosi a cavallo, secondo la definizione marxiana, tra il «modo di produzione schiavistico» e quello «feudale», intendendo in senso lato per «modo di produzione» la sintesi della dialettica tra forze produttive, mezzi di produzione, lavoro e tecniche. Lungi dall’addentrarci in questo vastissimo e quanto mai complesso dibattito, non solo storiografico ma anche ideologico, ci si propone invece, assai più semplicemente, di cercare di seguire, secondo grandissime linee interpretative, gli svolgimenti e gli sviluppi delle attività produttive elaborate dall’umanità dalle sue primissime fasi sino al Mille o poco oltre, cioè alla vigilia della grande crisi del XIV secolo.
L’Autore:
Francesco Barra (Avellino, 13.XI.1947) è professore ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Salerno. Laureato in Lettere moderne presso l’Università di Napoli – dove è stato allievo di Pasquale Villani e Giuseppe Galasso – e specializzato in Bibliografia e Archivistica presso la Scuola di perfezionamento dello stesso ateneo, dopo essere stato borsista dell’Istituto Sturzo di Roma sotto la guida di Gabriele De Rosa, è stato dal 1974 al 1978 assistente ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Salerno, la cui cattedra era all’epoca tenuta da Augusto Placanica; dal 1978 al 1996 è stato professore associato di Storia del Mezzogiorno presso la stessa facoltà; dal 1996 al 2000 è stato titolare, come professore associato, della cattedra di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia; con la qualifica di professore ordinario ricopre attualmente la cattedra di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. Autore di numerosi saggi e volumi. Fin dagli inizi dei suoi studi ha rivolto i propri prevalenti interessi di ricerca al Mediterraneo e al Mezzogiorno d’Italia nella cruciale fase di transizione tra il declino dell’ancien régime, la crisi rivoluzionaria ed il periodo napoleonico. E’ autore di numerosi saggi e volumi. Tra le sue opere principali ricordiamo: Chiesa e società in Irpinia dall’unità al fascismo, Roma 1978; Cronache del brigantaggio meridionale 1806-1815, Salerno-Catanzaro 1981; l’edizione critica della Descrizione del Molise di Giuseppe M. Galanti, Napoli 1986; Il Mezzogiorno e le potenze europee nell’età moderna, Milano 1993; Il Mezzogiorno dei notabili. Carteggi politici e familiari dei Molinari di Morra De Sanctis, Avellino 1997; Michele Pezza detto Fra’ Diavolo, Cava de’ Tirreni 2000; Chiesa e società nel Mezzogiorno d’Italia, Avellino 2002; Il brigantaggio del Decennio francese (1806-1815). Studi e ricerche, vol. I, Salerno 2003; Il Mediterraneo tra ancien régime ed età napoleonica, vol. I, Avellino 2005; Il Decennio francese nel regno di Napoli. Studi e ricerche, vol. I, Salerno 2007, e vol, II, Salerno 2009; Pietro Paolo Parzanese. Una biografia politica, Avellino 2011; Capri “inglese” e napoleonica 1806-1815, Avellino 2011.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2017
ISBN9788826493602
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    Economie e società preindustriali - Francesco Barra

    ilterebintoedizioni@libero.it

    Premessa

    È innanzitutto opportuno precisare che non ci si propone, con questo corso, di analizzare la storia economica nel suo complesso, né descrivere l’evoluzione delle tecniche, e tantomeno le teorie economiche e i loro sviluppi, quanto piuttosto di cercare di comprendere i meccanismi del funzionamento reale dell’economia delle società preindustriali, limitatamente all’area del bacino del Mediterraneo. Si tratta di un lunghissimo periodo storico – e anzi prima ancora preistorico e protostorico -, che solo in parte coincide cronologicamente con l’età feudale, ponendosi a cavallo, secondo la definizione marxiana, tra il «modo di produzione schiavistico» e quello «feudale», intendendo in senso lato per «modo di produzione» la sintesi della dialettica tra forze produttive, mezzi di produzione, lavoro e tecniche.

    Le specificità del modo di produzione feudale rispetto agli altri modi di produzione consisterebbero in un contesto economico eminentemente rurale e di economia naturale, in cui né il lavoro né i prodotti del lavoro costituivano merce, mentre i coltivatori erano uniti ai fattori produttivi - la terra - da uno speciale legame di natura giuridico-sociale. La classe dei signori feudali si appropriava infatti di parte del lavoro contadino mediante obblighi di natura istituzionale, e il surplus assumeva la forma di rendita fondiaria, sia in natura che in prestazioni lavorative obbligatorie, le corvée.

    Da questo punto di vista, spalmato sul lungo periodo e sul piano universale, il «modo di produzione feudale» perde molto delle sue specificità, per intrecciarsi con le problematiche del «modo di produzione asiatico». Inoltre, le difficoltà concettuali insite nell’es­pressione «modo di produzione feudale» sono state già da tempo fortemente sottolineate dai medievisti, a partire da Marc Bloch, che hanno ribadito la complessità dei significati dei rapporti gerarchici di vassallaggio e di quelli dei rapporti di classe tra proprietari e contadini, che qualificavano piuttosto l’organizzazione della signoria come azienda feudale. L’esigenza di approfondire lo schema marxiano, che prevedeva – come concausa – la prospettiva dell’ampliamento del mercato come fattore dissolutore del modo di produzione feudale, si coniugava poi alla questione, assai dibattuta, sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo[1].

    Lungi dall’addentrarci in questo vastissimo e quanto mai complesso dibattito, non solo storiografico ma anche ideologico, ci proponiamo invece, assai più semplicemente, di cercare di seguire, secondo grandissime linee interpretative, gli svolgimenti e gli sviluppi delle attività produttive elaborate dall’umanità dalle sue primissime fasi sino al Mille o poco oltre, cioè alla vigilia della grande crisi del XIV secolo. Contiamo, infatti, di riprendere successivamente l’argomento, per poi condurlo sino alla Rivoluzione industriale.

    È infine pressoché superfluo avvertire che quelle che qui presentiamo sono considerazioni che rivestono un carattere essenzialmente didattico e divulgativo, anche se si cercherà il più possibile di evitare schematizzazioni e generalizzazioni dei fenomeni o, peggio, la loro riduzione ad astratti modelli.

    Le citazioni sono ridotte all’essenziale e riservate per quelle testuali, mentre per la bibliografia si rimanda ai riferimenti corrispondenti a ciascun capitolo; ma anche questi non vogliono né possono ovviamente esaurire l’argo­men­to, ma soltanto indicare quelle opere che maggiormente sono risultate utili al mio personale percorso di ricerca.

    Nella seconda parte del testo, invece, sono presentate due ricerche monografiche originali su due grandi Stati feudali del regno di Napoli: quelli dei Caracciolo di Avellino e degli Imperiale di S. Angelo dei Lombardi. Due diverse forme che assunse la feudalità nella piena età moderna. Un sintetico ed essenziale glossario dei termini feudali e demaniali conclude il volume che, anche per la sua struttura lineare e narrativa, spero risulterà utile agli studenti.


    [1] Il tema dei caratteri e dell'evoluzione dei modi di produzione, e specie quello sul modo di produzione asiatico (sul quale, oltre naturalmente K. Marx, Forme di produzione precapitalistiche, a cura di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2009, cfr. K.A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, Vallecchi, Firenze 1968, e la puntualizzazione storiografica di G. Sofri, Il modo di produzione asiatico. Storia di una controversia marxista, Einaudi, Torino 1969), è stato al centro di animati dibattiti storiografici. Ad esempio, per lo storico marxista inglese M. Dobb (Problemi di storia del capitalismo, la cui prima edizione risale al 1946), la questione della transizione dal feudalesimo al capitalismo non dipende tanto dalle forme giuridiche quanto dalla sua sostanza come sistema economico-sociale, basato sullo sfruttamento del lavoro contadino. Successivamente, lo storico polacco Witold Kula (Teoria economica del sistema feudale, 1962, ed. italiana Einaudi 1972) ha costruito uno schema dell'economia feudale, intesa in un'accezione molto lata, ma sulla base del solo caso particolare rappresentato dalla Polonia nel periodo 1550-1750; merito dell'opera è lo stretto rapporto tra la storia economica e l'indagine storica, contro l'empirismo esasperato e le generalizzazioni astratte.

    Parte I - Il sistema economico

    Va preliminarmente detto che ogni sistema economico va esaminato dal punto di vista della domanda e dell’offerta. I due aspetti, benché distinti, sono in realtà intimamente legati tra loro, e s’influenzano a vicenda. In effetti, domanda e offerta costituiscono due aspetti della stessa realtà.

    La demografia

    Il primo elemento che determina la domanda è la demografia, cioè il numero e la struttura della popolazione. Senza uomini, non esistono esigenze, richieste e bisogni, che a loro volta si traducono in domanda di beni e servizi. La demografia è dunque il fattore che domina tutti gli altri. Il problema centrale della storia dell’umanità è infatti quello del duplice equilibrio, o piuttosto della duplice regolazione, della produzione di beni e della riproduzione della specie. A ogni società, inoltre, corrisponde una determinata demografia, e anche la società preindustriale presenta una sua peculiare struttura demografica.

    L’antico sistema demografico dell’insieme di relazioni tra la fecondità e la mortalità, che si è stabilito nell’Alto Medioevo in Europa e ha funzionato sino al XVIII secolo, era caratterizzato da una società che non conosceva quasi nessun tipo di limitazione delle nascite, se non quello dello spostamento in avanti dell’accesso al matrimonio da parte degli sposi; la sovrabbondanza di fecondità era però compensata dalla morte e limitata dalla virtù. Carestie, epidemie e sottoalimentazione cronica costituivano fenomeni ricorrenti, che amputavano la società dei suoi elementi più deboli e più poveri, spazzando via l’eccedenza demografica di una generazione, ristabilendo così l’equilibrio, momentaneamente compromesso, tra popolazione e risorse. Fanno pertanto parte integrante del sistema[1].

    Lo studio della demografia storica è quindi essenziale per la conoscenza della vita della società. Ma i censimenti di cui si dispone risalgono ad epoche relativamente recenti, e i criteri statistici con cui sono stati elaborati risultano, almeno per i più antichi di essi, lacunosi e carenti. Basti pensare che il primo censimento nazionale italiano risale al 1861, e non è certo perfetto.

    La difficoltà presentate dalla storia demografica del Mezzogiorno d’Italia è essenzialmente costituita dalla perdita della maggiore fonte archivistica relativa, quella della Numerazione dei fuochi, andata distrutta nel settembre del 1943 dall’incendio appiccato dai tedeschi all’Archivio di Stato di Napoli. Tale sistema di rilevazione demografica era stato avviato, a fini essenzialmente fiscali, da Alfonso d’Ara­gona nel 1443. Esso consisteva in una rilevazione generale - comunità per comunità, casa per casa – delle famiglie o fuochi per stabilire il corrispettivo peso fiscale. Queste numerazioni venivano effettuate piuttosto di rado e discontinuamente; furono infatti abbastanza numerose nel XVI secolo (1505, 1518, 1532, 1545, 1561, 1595), mentre solo due ne furono effettuate nel XVII (1648, 1669), e nessuna nel ‘700 (tranne un abbozzo nel 1731-32). Il complesso dei volumi superstiti di tali rilevazioni ascendeva nel 1943 a ben 1417, costituendo così una fonte importantissima per la storia demografica e sociale del regno di Napoli.

    Di tale incommensurabile patrimonio storico-documentario restano oggi solo pochi frammenti, e soprattutto i dati complessivi, comune per comune. Questi dati, inoltre, erano il frutto di una vera e propria trattativa tra Stato e Comuni, poiché l’imponibile veniva alla fine transatto sulla base non solo dei dati demografici, ma anche delle condizioni finanziarie delle comunità. Rimane poi ancora aperto il problema di quante persone fossero convenzionalmente attribuite a ciascun fuoco: 4, 5, o addirittura 6. Le Numerazioni dei fuochi, pur con questi limiti strutturali, consentono tuttavia un’indispen­sa­bile visione d’in­sie­me della demografia meridionale nell’età moderna, sia pure a livello tendenziale dei fenomeni. Il suo approfondimento va invece demandato allo studio dei registri parrocchiali (Battesimo, matrimonio, cresima, morte, stati delle anime). Istituiti nel 1564 dal Concilio di Trento, questi censimenti parrocchiali non sempre e dappertutto – specie nel Mezzogiorno - sono stati redatti in modo soddisfacente e soprattutto conservati adeguatamente, per cui spesso le serie sono lacunose.

    Dai dati disponibili, sia pur sommari, emerge con chiarezza che il grande balzo demografico dell’Europa occidentale si è verificato tra il Mille e il XIV secolo; successivamente, specie per l’Italia, è seguita una lunga fase di ristagno e depressione, che è durata sino alla prima metà del XVIII secolo, quando anche nella Penisola hanno cominciato a farsi sentire i primi effetti della nuova congiuntura economi­ca mondiale.

    Risulta pure evidente la sostanziale scarsità di popolazione che contraddistinse l’Europa sino al ‘700, come anche la debolezza del tasso d’incre­mento demografico. È comprensibile, quindi, come ben poche città europee superassero nell’età moderna i centomila abitanti. A determinare questo stato di cose fu, più che una bassa fertilità, un’alta mortalità, soprattutto infantile. La durata della vita media umana si ag­gi­rava, infatti, sui 35 anni.

    Ma è opportuno distinguere tra mortalità ordinaria e mortalità catastrofica, pur tenendo presente che spesso il confine tra i due fenomeni è labile e opina­bile. In linea generale, si può definire come mortalità ordinaria quella che prevale negli anni normali, non caratterizzati cioè da particolari eventi catastrofici, come carestie, epidemie, guerre, terremoti. Per mortalità catastrofica s’inten­de invece la mortalità degli anni più calamitosi, e che di re­gola faceva superare il livello dei morti su quello dei nati. Ma è pure da rilevare come la componente maggiore della mortalità ordinaria fosse data da un’a­l­tissima mortalità infantile (cioè il rapporto tra bambini morti nel primo anno di vita e il numero complessivo dei nati) e da un’elevata mortalit­à degli adolescenti (numero dei fanciulli morti tra il primo e il decimo anno di vita rapportato a quello dei fanciulli viventi per quello stesso gruppo di età). Approssimativamente, si può dire che su mille nati, da 150 a 350 morivano nel primo anno, e altri 100-200 entro il decimo anno. Si registrava quindi una media complessiva di mortalità infantile-ado­le­scenziale che andava dal 250 al 550 per mille.

    Queste medie spaventose sono indice soprattutto della povertà e dell’ar­retratezza della maggior parte della popolazione nell’età preindustriale, caratterizzata da un’estrema debolezza e vulnerabilità di front­e alle calamità e alle malattie, che facilmente degeneravano in disastri. Uno stretto nesso sussisteva ad esempio tra la guerra (con devastazioni e distruzioni di risorse e di riserve alimentari) e le conseguenti carestie, che provocavano spesso epidemie per la debilitazione fisica delle popo­lazioni. Per la mancanza quasi as­soluta di scorte e riserve adeguate, anche le avversità climatiche e metereologiche, tutt’altro che infrequen­ti, potevano portare a carestie, innescando a loro volta quello stes­so meccanismo di crisi.

    I casi più clamorosi di mortalità catastrofica furono costituiti dalle epi­de­mie di peste del 541-546, del 1348 e del 1630, e infine da quella del 1656, che colpì catastroficamente l’Italia meridionale e la Sardegna[2].

    Quali le cause di queste pestilenze catastrofiche? La scienza ha accertato che i maggiori focolai epidemici di peste erano localizzati in Africa, nell’a­rea tra l’Etiopia e la regione dei Grandi Laghi, e nell’Asia cen­­trale, tra il Tibet e il Turkestan. Queste vastissime aree geografiche erano popolate da tutto un mondo di roditori: ratti d’Africa e d’Asia, marmotte giganti del Baikal e altre specie del genere. Tutti ospitavano nel loro pelo innumerevoli colonie di pulci; queste, contaminate dal bacillo della peste, trasmettevano il morbo agli animali che infestavano come parassiti; la peste, che era ben tollerata da questi roditori, una volta trasmessa agli uomini aveva invece effetti devastanti. Per due volte almeno i limiti geografici della peste sono stati superati, quando nuovi contatti commerciali e umani hanno provocato dei corto-circuiti microbici, determinando cataclismi d’importanza mondiale.

    Il primo urto catastrofico si produsse nel VI secolo, quando la peste discese dall’Etiopia, lungo il Nilo e il Mar Rosso, raggiungendo il porto egiziano di Pelusio e di lì diffondendosi, nell’estate del 541, in modo catastrofico in tutto il Vicino Oriente e nel bacino del Mediterraneo occidentale. La peste bub­bonica era infatti un agente patogeno del tutto nuovo, e quindi eccezionalmente virulento. Si calcola, sia pur con notevole approssimazione, che a Costantinopoli, dove imperversò tra il 542 e il 544, la pestilenza abbia sterminato circa la metà della popolazione della capitale dell’impero, al ritmo di diecimila morti al giorno. Nel complesso, sembra che il mondo bizantino abbia perso oltre il 25% della popolazione, anche se è possibile che, in alcune aree più colpite, siano stati raggiunti tassi di mortalità fino al 40%, per cui si valuta che tra il 541 ed il 700 d.C. la popolazione dell’impero, Italia compresa, si sia ridotta del 50-60%. Molto minor danno la pestilenza fece invece in Occidente, e specie nelle aree interne, poiché il morbo si diffuse soprattutto per via marittima. Fece parziale eccezione la Gallia, dove il morbo da Marsiglia risalì il Rodano e raggiunse le regioni interne. Focolai più localizzati di peste, in venti ondate successive colpirono il Vicino Oriente e l’Italia sino al 767, quando, il morbo, misteriosamente, abbandonò l’Europa, permettendone la ricostituzione demografica e politica[3].

    Ma, intanto, le conseguenze erano state enormi. La pandemia si era infatti re­sa responsabile di un grave declino demografico, anzi di un vero e proprio collasso; questo rese il continente vulnerabile a tutte le invasioni, a cominciare da quella araba. Nel Vicino Oriente la desertificazione umana indebolì irrimediabilmente l’im­pero persiano dei Sassanidi, già logorato dal conflitto con Bisanzio, che infatti crollò di fronte all’invasione araba del 639-640. L’im­pero bizantino, a sua volta, perdette rapidamente la Siria, l’Egitto e la Palestina, riuscendo solo faticosamente a resistere attestandosi ai margini montuosi della penisola anatolica, dal Tauro al Mar Nero. Nella Penisola Balcanica, a causa dello spopolamento dell’Illirico e della Grecia, l’impero non poté impedire agli Slavi d’insediarsi in quelle regioni. L’Italia, gravemente colpita prima dalla guerra goto-bizantina e poi dalla peste, si presentò nel 568 quasi vuota di fronte all’invasione dei Longobardi. Il tentativo di Giu­stiniano di ricostituire l’unità del Mediterraneo, con la riconquista dell’A­frica, dell’Italia e di parte della Spagna, era fallito per sempre.

    A favorire la diffusione della pandemia concorsero anche elementi, se non climatici, almeno metereologici? È questa la tesi di recente avanzata dalla geologa americana Dallas Abbott che, in seguito al carotaggio dei ghiacci polari della Groenlandia, ha collegato «la peste di Giustiniano» alla caduta sul pianeta di un asteroide o della coda della Cometa di Halley; il corpo celeste, impattando sulla terra, avrebbe sollevato una fitta nebbia di detriti rimasti per mesi in sospensione nell’atmo­sfera, tanto da provocare l’atte­nua­zione della luce solare e il conseguen­te abbassamento delle temperature medie globali di 3 gradi centigradi, causando carestie, calo delle difese im­­mu­nitarie, epidemie e peste. Ma non va neppure escluso l’effetto di tre grandi eruzioni vulcaniche verificatesi nell’arcipelago della Sonda nel 536, 540 e 547, che anch’esse poterono determinare un abbassamento delle temperature, con la consistente emissione nell’a­t­mosfera di particelle vulcaniche che impediscono alla luce solare di filtrare, come è avvenuto con le esplosione, sempre nella Sonda, dei vulcani Tambora nel 1815 e Krakatoa nel 1883.

    Recenti studi, effettuati comparando la misurazione degli anelli dei tronchi degli alberi sui monti dell’Altai in Asia centrale e sulle Alpi, hanno consentito di rilevare un significativo abbassamento delle temperature tra il 536 e il 660. In effetti, lo storico bizantino Procopio, contemporaneo agli eventi, ha registrato gli eventi metereologici che interessarono a quell’epoca l’Italia centro-meridionale: precipitazioni di neve e grandine nel cuore dell'estate, alluvioni e inondazioni del Tevere, calo delle temperature e diminuzione della luce e del calore del sole. Né si può non notare che la periodicità media di 12 anni osservata nei cicli della peste è la stessa delle macchie solari, il cui influsso sul clima è ben noto.

    Se è comunque certo che il clima giocò il suo ruolo, poiché il clima secco arrestava la peste (il calore ferma la riproduzione della pulce), ancor maggiore fu il legame con sottoalimentazione, pauperismo e guer­ra, che contribuirono grandemente a diffondere la pandemia. Non è infatti la carestia che provocava la peste, quanto piuttosto la peste che, riducendo la manodopera al tempo del raccolto e interrompendo la circolazione delle derrate alimentari, trascinava la carestia. Quanto mai significativamente, gli stessi fenomeni, compresa la peste, si verificarono anche in Cina.

    Lo stesso scenario si ripeté nel 1348, quando sull’Europa si abbattette la seconda grande ondata della malattia, facendola ripiombare nel disastro. Questa volta, però, la malattia veniva da est, dai grandi deserti freddi dell’Asia centrale. Da pochi decenni i Mongoli avevano unificato il mondo eurasiatico, dalla Cina a Bagdad; le grandi vie commerciali, a cominciare da quella della seta, infine pacificate, presero a essere trafficate assai attivamen­te, attraversando però i focolai naturali della peste, che i mercanti italiani delle colonie genovesi del Mar Nero diffusero in tutta Europa.

    In conclusione, non possiamo non rilevare che le due grandi pandemie di peste che causarono il collasso demografico dell’Europa si collocano cronologicamente, e quanto mai significativamente, alla fine del mondo antico e alla fine del Medioevo. Quest’ultimo risulta quindi scandito, nel suo intero spazio temporale, da questi due eventi di mortalità catastrofica. Allo stesso tempo, emerge con chiarezza la debolezza biologica dell’Europa rispetto ai morbi di origine africana e asiatica. Questa va senz’altro attribuita al sostanziale isolamento, anche microbico, nel quale vissero le grandi masse umane (Asia, Europa, Africa) sino all’età delle grandi scoperte geografiche, e quindi all’im­pos­sibilità di quell’autoimmunizzazione primordiale che avviene grazie ai frequenti contatti umani.

    Domanda e offerta

    A determinare la domanda, oltre l’elemento-base del fattore demografico, concorrono i bisogni espressi dagli uomini, sia individualmente che collettivamente. I bisogni variano per quantità e qualità in relazione all’età, alla condizione sociale, al clima, al livello intellettuale ecc. Anche i desideri, specie nelle società prospere e progredite, influiscono direttamente sulla domanda. In effetti, la linea di demarcazione tra bisogni primari ed essenziali e desideri superflui è difficilmente definibile. Mentre i desideri, inoltre, sono potenzialmente illimitati, le risorse sono ben definite e limitate. Si crea quindi una gerarchia tra i desideri da soddisfare, a seconda delle preferenze, dei gusti, della cultura, dei generi di vita di ognuno.

    Occorre però distinguere fra domanda effettiva e desideri. Non tutti i desideri, infatti, si traducono in domanda, perché essi, per divenire reali e concretizzarsi, debbono essere sostenuti da un potere di acquisto adeguato, e quindi dal livello del reddito e dalla sua distribuzione tra gli individui e le categorie sociali. Nelle società preindustriali, il reddito di gran parte della popolazione era costituito dal salario, il cui livello era assai basso, per cui si poteva accedere solo a una quantità assai limitata di prodotti. Né va dimenticato che altra caratteristica tipica delle società preindustriali era quella del pauperismo, cioè dall’esistenza di una gran massa di sradicati, mendicanti e vagabondi, che non percepiva reddito alcuno, ma veniva mantenuta dalla be­ne­ficenza pubblica e privata.

    La domanda globale effettiva costituisce a sua volta una realtà assai complessa e variegata, che può essere distinta in domanda interna privata, domanda interna pubblica, domanda estera, che poi così si suddivide: a) doman­da di beni di consumo; b) domanda di servizi; c) domanda di beni capitali.

    Cominciando dalla domanda interna di beni di consumo e di servizi, va rilevato che questa, più basso è il reddito, più alta è la percentuale as­sorbita dai consumi di prima necessità, e quindi essenzialmente dal cibo. Il carattere fon­damentale che distingueva il ricco dal povero erano infatti il cibo e le vesti. La massa restava in una condizione permanente di fame endemica e sotto l’incubo ricorrente della carestia.

    La forte concentrazione della ricchezza e il basso livello dei salari favorivano la domanda di servizi: domestici, legali, medici. Il livello dell’inve­sti­mento nella produzione di beni fu invece sempre assai basso e modesto, anche a causa della scarsità cronica di moneta circolante e del conseguente fenomeno della tesaurizzazione.

    I fattori produttivi

    I fattori produttivi costituiscono un insieme di elementi eterogenei, che gli economisti classici catalogavano in tre grandi categorie: a) terra; b) capitale; c) lavoro. In corrispondenza a queste tre categorie, il flusso del reddito veniva ripartito in: a) rendita; b) interesse e profitto; c) salario. Per una società preindustriale era inevitabile che col termine terra si esprimesse il concetto, assai più vasto, di risorse naturali. Il termine lavoro è poi quanto mai generale e generico. Anche il ca­pitale costituisce una categoria quanto mai ambigua e sfuggente. Sarà quindi più opportuno, secondo la proposta del Cipolla, distinguere i fattori della produzione in: a) lavoro; b) capitale; c) risorse naturali[4].

    Nelle società preindustriali, il rapporto tra popolazione attiva, che produce reddito, e quella dipendente, costituita da consumatori non pro­duttori di beni, era assai basso, data la scarsa produttività. Inoltre, larghissima parte della popolazione attiva era impiegata nel settore pri­mario, cioè l’agricoltura.

    Il capitale è a sua volta rappresentato da quei beni economici che l’uo­mo utilizza nell’esercizio dell’attività lavorativa ed economica, e quindi non è esclusivamente costituito da capitali liquidi. Il capitale fisso, rappresentato da macchine e impianti, ha naturalmente rivestito un’importanza crescente con la rivoluzione industriale. Ma esso aveva la sua importanza anche nell’agricoltura e nell’allevamento, oltre che nelle manifatture e nei trasporti, perché la scarsità di quel particolare capitale costituito dal bestiame determinava un circolo vizioso che comprimeva la produttività agricola. Poco bestiame, specie bovino, significava infatti quantità insufficiente di concime per i campi, il che comportava inadeguata produzione di alimenti. È stato ad esempio rilevato, a proposito dell’agricoltura medievale, che la ragione dei limi­tati investimenti produttivi non era dovuta tanto a una inadeguata potenzialità di risparmio, quanto piuttosto al fatto che le opportunità dell’inve­sti­mento erano quanto mai limitate. Nella società agricola preindustriale, infatti, i livelli della produzione e della produttività furono sempre assai bassi.

    Clima e ambiente

    Senza voler stabilire alcun tipo di determinismo naturale, e nemmeno climatico, è indubbio che tutte le civiltà umane da sempre hanno dovuto fare i conti con l’ambiente e con il clima, e quindi il racconto della loro evoluzione deve tenerne conto, riconoscendo alle variazioni climatiche almeno un ruolo di concausa dei fenomeni storici.

    Del resto, gli uomini sono figli dell'Era glaciale, o meglio della sua fine; solo quando il freddo intenso dell'ultima glaciazione cominciò a stemperarsi, oltre 10.000 anni fa, fu possibile l'inizio della storia. Nel corso di tutta la storia umana, d'altra parte, il clima non è certo rimasto stabile e i suoi effetti sulle coltivazioni sono stati enormi. Non si può dunque prescindere dalle condizioni climatiche nello studio delle civiltà, dei popoli, delle guerre, delle migrazioni, delle carestie, dei generi di

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