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Rivoluzionaria professionale: Autobiografia di una partigiana comunista
Rivoluzionaria professionale: Autobiografia di una partigiana comunista
Rivoluzionaria professionale: Autobiografia di una partigiana comunista
E-book740 pagine11 ore

Rivoluzionaria professionale: Autobiografia di una partigiana comunista

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Info su questo ebook

Ci sono vite che con il loro stesso dispiegarsi bastano da sole a incarnare il senso di un'epoca e a illuminare il significato di un'esperienza come quella della militanza nelle organizzazioni di classe all'interno del movimento partigiano europeo. La vita di Teresa Noce è una di queste: stiratrice, sarta, tornitrice e, già nel 1921, fondatrice del Partito comunista. Costretta all'illegalità dal fascismo, dirige la "Voce della Gioventù" prima di espatriare in Urss e, tornata in Italia, di essere alla testa degli scioperi organizzati nelle fabbriche torinesi. Quando scoppia la guerra civile in Spagna, Teresa Noce è tra i membri delle Brigate Internazionali, poi è tra i Francstireurs-et-partisans nella resistenza francese. Arrestata, viene rinchiusa in un lager bavarese, dove viene liberata dall'avanzata sovietica, in tempo per essere una delle 21 donne elette all'Assemblea Costituente. Una biografia eccezionale, che Teresa Noce in "Rivoluzionaria professionale" restituisce alla normalità della vita quotidiana di una donna forte e generosa, capace sempre e comunque di trovarsi dalla parte giusta della barricata (in collaborazione con Edizioni Rapporti Sociali).
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2017
ISBN9788867181865
Rivoluzionaria professionale: Autobiografia di una partigiana comunista

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    Anteprima del libro

    Rivoluzionaria professionale - Teresa Noce

    TUTTELESTRADE

    21

    Rivoluzionaria professionale

    di Teresa Noce

    Prima edizione in «Tutte le strade»: aprile 2016

    Design Dario Morgante

    Red Star Press

    Società cooperativa

    Via Lorenzo Bonincontri, 41 – 00147 Roma

    www.facebook.com/EdizioniRapportiSociali

    edizionirapportisociali@gmail.com | www.carc.it

    Red Star Press

    Società cooperativa

    Via Lorenzo Bonincontri, 41 – 00147 Roma

    www.facebook.com/libriredstar

    redstarpress@email.com | www.redstarpress.it

    La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.

    Red Star Press ed Edizioni Rapporti Sociali ringraziano l’Editrice Aurora per aver contribuito a dare vita a questo prezioso libro ed Estella, Gigi e Giuseppe Longo per la preziosa collaborazione che ha reso possibile le ristampe dello stesso

    Teresa Noce

    RIVOLUZIONARIA

    PROFESSIONALE

    AUTOBIOGRAFIA DI UNA

    PARTIGIANA COMUNISTA

    Edizioni Rapporti Sociali

    REDSTARPRESS

    PREFAZIONE

    Rivoluzionaria professionale. Un’espressione che evoca, oggi, l’immagine di grigi funzionariati di Partito, burocrazie ingessate, apparati che usano «obbedir tacendo». È l’immagine diffusa ampiamente da una sinistra borghese che ieri spacciò per «socialismo reale» il revisionismo moderno che prese il sopravvento nel movimento comunista internazionale con la «svolta krusceviana» e oggi, per farsi accettare nei salotti della cultura della classe dominante, rimuove la storia stessa della lotta emancipatrice delle classi oppresse che, con la direzione del partito comunista, proprio nella costruzione dei primi paesi socialisti ebbe la sua prima, determinante, vittoria.

    È proprio a quella storia che appartiene questa storia, la storia di Teresa Noce. La storia di chi fu rivoluzionaria di professione, proletaria, partigiana, dirigente comunista che, con abnegazione e coraggio, dedicò l’intero corso della sua vita alla lotta per instaurare il socialismo. Non un semplice racconto autobiografico, né semplicemente una commemorazione, fosse anche dell’eroismo della classe operaia in lotta per la conquista del potere politico che fece tremare i padroni, costruì Stati di tipo nuovo, sconfisse la barbarie nazifascista; messa nero su bianco la storia di Teresa Noce, la sua stessa vita, resta ancora oggi un racconto ricco di spunti di riflessione e di insegnamenti preziosi. Quegli insegnamenti che furono già di Lenin, nel Che fare?, dove è esposta la teoria sulla natura del partito comunista e la sua composizione, ruoli e compiti dei rivoluzionari di professione: compagni che si dedicano a tempo pieno al lavoro rivoluzionario in un’organizzazione del Partito e imparano professionalmente la scienza e l’arte della rivoluzione socialista; compagni che hanno messo la rivoluzione socialista come centro attorno a cui costruiscono il resto della loro vita; compagni che, oggi come ieri, sono la massima espressione dell’individuo sociale del futuro, dell’individuo che si realizza costruendo la società, membro a parti eguali della nuova umanità che farà consapevolmente la sua storia.

    Questa è l’esperienza di Teresa Noce. Un’esperienza che in pochi conoscono, nonostante il suo nome oggi titoli piazze e strade, si ritrovi in resoconti parlamentari e contratti sindacali, pubblicazioni politiche e tesi di laurea. L’esperienza di una donna che scelse di vivere in piedi e si organizzò per farlo, trovando nel Partito comunista l’opportunità e lo strumento della sua emancipazione. Una donna che ebbe sempre presente e sempre fece presente ai suoi compagni che «anche una cuoca deve imparare a dirigere lo Stato», ma, scrive tanto ai giovani comunisti degli anni 1920-1921 (a suo avviso eccessivamente moralisti) che ad altre compagne di certo prestigio nel Partito, «come avrebbe potuto una casalinga imparare a dîrigere lo Stato se la si teneva appartata, se non partecipava alla lotta e alla vita politica?».

    Quella della dialettica tra personale e politico orientata da un’unica concezione, la concezione comunista del mondo, è convinzione che Teresa Noce, fin da giovanissima, non abbandonerà mai e che caratterizzerà tutta la sua vita. È così che costruisce il suo rapporto con Luigi Longo, esponente di primo piano del PCdI e unico amore della sua vita, di cui fu compagna di Partito e moglie, senza, però, adeguarsi al ruolo di madre e moglie a tempo pieno, confinata «alla cucina e alla camera dei bambini», nonostante all’epoca fosse un costume diffuso finanche tra le fila del Partito. È così che da un’infanzia di miseria nei quartieri degradati della Torino di inizio Novecento, abbandonata dal padre e rincorsa, con la madre, da penuria, sfratti e debiti, Teresa Noce dà gli strumenti della sua lotta: dalla partecipazione agli scioperi operai del biennio rosso al rifiuto della messa domenicale, dall’imparare a leggere da autodidatta alla costante ricerca di libri e giornali, un lusso riservato solo ai lorsignori della Chiesa e della monarchia che, insieme alla nuova borghesia industriale, rappresentavano il potere cui i proletari, fino ad allora, potevano solo sottomettersi. È così che Teresa Noce comincia a frequentare la Camera del Lavoro. Studia e lavora. Legge molto. Impara cose anche più difficili che lavorare al telaio o fare pezzi al tornio della FIAT Brevetti: parlare in pubblico, scrivere un volantino, dirigere un giornale per la gioventù comunista, finendo perfino per litigare con Leonetti, direttore de «L’Ordine Nuovo», «persuaso che solo i giornalisti sapessero fare un giornale». Diventa operaia cosciente, Teresa Noce. Operaia comunista. Poi combattente in Spagna, partigiana antinazista in Francia, prigioniera in Germania, dirigente politica e sindacale. È la compagna Estella, nome di battaglia nel lavoro clandestino che per il Partito svolse. Una vita vissuta, momento dopo momento, da protagonista del proprio futuro, nel privato come nel pubblico.

    È la storia del movimento operaio del Novecento che vive nelle pagine della vita della Noce. Dal biennio rosso alla fondazione del PCdI, dalla guerra rivoluzionaria in Spagna alle missioni clandestine nella Francia occupata dai nazisti e nell’Italia fascista, dalla prigionia politica agli entusiasmi della Liberazione, dalla Costituente al Parlamento dell’Italia repubblicana. Una vita sofferta – la morte del fratello durante la Grande Guerra e di un figlio piccolissimo, la rottura con Longo e la separazione dai figli lasciati a Mosca ogni qualvolta Estella doveva partire in missione per il Centro Estero del Partito... – ed esaltante al tempo stesso, per l’alternativa di sistema e società – il socialismo – che ha contribuito a costruire. Una vita dove i sacrifici sono vissuti come opportunità. L’opportunità di costruire la rivoluzione, di partecipare e dirigere il processo di liberazione sociale delle classi oppresse, di vivere il percorso di trasformazione, anche individuale, che le permise il movimento comunista, ovvero quello di diventare artefice del proprio destino e del destino di un’intera classe che, per la prima volta nella Storia, assaltava il cielo.

    Ecco perché l’autobiografia di Teresa Noce, la compagna Estella, è molto più di una semplice autobiografia. Perché nelle sue pagine, dallo stile semplice e incisivo, si ritrova il racconto del travagliato percorso dell’intero movimento operaio del Novecento, vissuto da una donna che, fuori da ogni intento sterilmente descrittivo, non omette paure e debolezze, perplessità e momenti di difficoltà. Una compagna che non fu né volle essere o presentarsi come dirigente di ferro, ma, senza scadere nella propaganda stereotipata di Partito, dice di sé a tutto tondo, per quello che è stata fino alla fine, quando, ormai ottantenne, si spense: Teresa Noce, un’operaia rivoluzionaria, una rivoluzionaria professionale.

    Igor Papaleo

    Edizioni Rapporti Sociali

    Red Star Press

    PARTE PRIMA

    BRUTTA, POVERA E COMUNISTA

    1. Torino, città proletaria

    Già nei primi anni del Novecento Torino era una città proletaria. L’industria manifatturiera si stava trasformando in grande industria. Accanto alle vecchie fabbriche dolciarie di caramelle e di cioccolato, accanto ai cotonifici, ai nastrifici, alle filature e alle concerie sorgevano le prime officine metallurgiche e meccaniche.

    Mi rivedo bambinetta di appena tre anni, andare all’asilo nelle fredde e nebbiose mattinate torinesi. La mano nella mano di mio fratello che maggiore di me di tre anni andava già a scuola; partivamo da casa al mattino presto mentre era ancora quasi buio. Abitavamo in uno dei peggiori rioni periferici della città, le «ca’ neire» così chiamato perché le sue case erano proprio tutte nere.

    Nel rione attraversato da rogge puzzolenti, c’erano numerose concerie e fabbriche di colla che appestavano l’aria e annerivano le case. Ma gli affitti costavano lì un po’ meno che negli altri rioni anche periferici, perciò le «ca’ neire» erano gremite dalla parte più povera della popolazione.

    Al mattino per andare io all’asilo delle suore e mio fratello alla scuola comunale, avevamo un lungo tragitto da percorrere. O almeno a me sembrava tale. Viuzze, poi prati e ponticelli sulle rogge e ancora viuzze e prati. I prati erano bagnati e i nostri zoccoletti facevano ciac ciac. Ci tenevamo stretti per mano, per non cadere e per non perderci nella nebbia. Poi verso la città, la nebbia si diradava e magari spuntava il sole. Tiravamo un sospiro di sollievo: mio fratello mi lasciava vicino all’asilo e correva a scuola, mentre io attraversavo la strada ed ero arrivata.

    Dai tre ai sei anni ho cambiato molti asili, tutti tenuti dalle suore. Qualcuno non era tanto male, altri addirittura infami. Nei migliori si pagava una retta per la minestra a mezzogiorno. Mia madre pagava la prima settimana, poi non pagava più. Le suore mi tenevano a credito due o tre mesi, poi mi mandavano via. E mia madre cercava un altro asilo per non lasciarmi sola in mezzo alla strada, mentre lei doveva guadagnare qualche soldo facendo servizi qua e là. Mio padre ci aveva lasciati. Non aveva nessuna voglia di lavorare e ancor meno di mantenere moglie e bambini.

    Come cambiavo asilo, così cambiavamo spesso di abitazione. E sempre per la stessa ragione: mancavano i soldi per pagare l’affitto e il padrone ci dava lo sfratto.

    Quando ebbi sei anni, mi preparai ad andare a scuola. Avevamo appena traslocato da uno dei rioni più malfamati, pieno di prostitute, dove perfino l’asilo sembrava una casa di malaffare. Mio fratello diventava grande e mia madre aveva trovato due piccole soffitte in via San Quintino, un quartiere decente. Ma all’asilo dove ero stata mi ero presa una malattia infettiva ormai quasi scomparsa in Italia, la tigna. Non era pericolosa ma orribilmente disgustosa. Tutta la testa mi si era coperta di croste in suppurazione. All’ospedale mi medicavano con una pomata puzzolente e quando cambiavano la medicazione, venivano via capelli, croste e pus.

    Naturalmente la scuola alla quale ero stata iscritta non mi accettò. Prima dovevo guarire e quindi portare il certificato medico di completa guarigione perché la malattia era infettiva.

    Così persi i primi tre mesi di scuola.

    Quando finalmente guarita ottenni il certificato medico, la mia testolina sembrava una palla da bigliardo. Avevo una grande paura che i capelli non ricrescessero più, malgrado le assicurazioni del dottore che mi aveva curata. E quando la prima mattina mi presentai a scuola, il cuore mi batteva forte di ansia e di vergogna.

    Come avevo temuto i primi giorni furono terribili. In quei tre mesi le altre bambine avevano imparato a fare le aste, a conoscere le vocali e le prime lettere dell’alfabeto. Io non sapevo neanche tenere la penna in mano. La maestra alle prese con quarantadue alunne, aveva diviso le più ritardate dalle altre. C’erano tre file di banchi nella classe e l’ultima, la migliore perché vicina alle finestre, venne riservata alle «povere infelici» che non riuscivano a imparare. Naturalmente dovetti prendere posto tra le «povere infelici» perché ero quella che ne sapeva meno di tutte.

    Durante la ricreazione, «infelici» e non, erano tutte contro di me a causa della mia testa pelata. Mi schernivano e mi chiamavano «maschiaccio». Ma se ero impotente a far ricrescere più in fretta i capelli, potevo cercare di imparare presto per mettermi al passo con le altre. Perché la fila delle «povere infelici» proprio non la digerivo. Aveva un bel dire la maestra che era per assisterci meglio! Perciò appena rientravo a casa, mi mettevo a fare aste, poi a cercare di ricopiare le vocali e le altre lettere dell’alfabeto dal sillabario. Scrivevo seduta per terra e con il quaderno sulla sedia, dato che il tavolo era riservato ai compiti di mio fratello e poi alla cena. Ma scrivevo, scrivevo e presto riuscii a compitare il sillabario meglio delle altre «infelici».

    Un bel mattino la maestra decise che era ora di cominciare a scrivere sotto dettatura, non parole isolate ma frasi intere. Ci dettò così tre o quattro righe, poi passò tra i banchi per raccogliere i quaderni. Mentre li leggeva alla scrivania, noi seguivamo tutti i suoi movimenti. Nel correggere, scuoteva sovente la testa con aria sconsolata. A un certo momento mi sembrò che fissasse proprio me e mi sentii arrossire. Chissà che pasticcio avevo combinato!

    «Noce, vieni qui».

    Mi avvicinai alla cattedra trepidante ma pronta a rivoltarmi all’eventuale rimprovero.

    «Bambine, il solo dettato senza neanche un errore è quello della vostra compagna Noce. Ha cominciato dopo di voi, ma vi ha raggiunte e sorpassate. Perciò lascia la fila delle povere infelici. Fatele posto nel primo banco e applauditela perché lo merita».

    Fu il primo applauso della mia vita e la prima battaglia vinta.

    Dopo fu tutto più facile. Quando conobbi il sillabario quasi a memoria per averlo letto e riletto, cercai altri libri e prima di tutto quelli di mio fratello. Lui ripeteva la terza classe, perché non aveva proprio nessuna voglia di studiare. Voleva andare a lavorare e mia madre gli ripeteva che prima doveva terminare almeno le elementari. Ma i libri di mio fratello potevo averli solo dopo che lui aveva terminato i compiti, cosa che gli richiedeva tutta la sera.

    Mia madre quando le avanzava qualche soldo dopo aver pagato il pane e la minestra, mi mandava a comprare – nostro unico lusso – la «Gazzetta di Torino» oppure la «Stampa», conosciuta come la bùsiarda (la bugiarda). Mi accorsi che anche il giornale era da leggere e dopo averlo comprato invece di tornare subito a casa, mi sedevo su una panchina del corso Vinzaglio e me lo leggevo. Cominciai dai titoli e poi aumentando la difficoltà passai ai pezzi brevi, soprattutto di cronaca cittadina.

    Scoprii così in una volta, Torino e la lettura. Fino a quel momento della mia città conoscevo solo gli asili delle suore, le abitazioni dove avevo vissuto e la scuola. Leggendo il giornale e in seguito tutti i pezzi di carta stampata, tutti i giornali e i libri che riuscii a procurarmi, scoprii che Torino era una grande città e che vi succedevano tante cose, sia belle sia brutte. Capii che il mondo non si limitava a me, alla mia famiglia, alle compagne e alla scuola.

    Scoprii che c’erano operai e padroni, mentre fino a quel momento attraverso mia madre avevo conosciuto solo i «poveri» e i «ricchi». Scoprii che non c’erano soltanto il re e la patria come mi insegnavano a scuola ma anche altre cose che si chiamavano leghe, cooperative, sindacati, Camera del lavoro e scioperi.

    Così riuscii almeno in parte a comprendere gli scioperi del 1906 e del 1907, quando vidi le lunghe file delle operaie tessili di Rivoli e della borgata Leumann, in grembiule nero e con gli zoccoletti ai piedi scendere per via Garibaldi. Così conobbi il primo sciopero generale che privò la città del pane e obbligò il governo a mobilitare i soldati per cuocerlo e distribuirlo alla popolazione. Così ebbi sentore del grande e lungo sciopero dei braccianti dell’Emilia e cominciai a conoscere, sia pure per via indiretta, quella magnifica cosa che è la solidarietà della classe operaia. Solidarietà che permise ai braccianti emiliani di resistere per tanti mesi, grazie al fatto che i loro bambini erano stati accolti e sfamati nelle case degli operai torinesi.

    Durante le vacanze tra la prima e la seconda classe elementare, cioè tra i sei e i sette anni, trovai un lavoro. Il fornaio sotto casa nostra al quale mia madre doveva parecchie lire per il pane comprato a credito, trovò il modo di recuperare il suo denaro mandandomi – d’accordo con mia madre – a portare il pane ai clienti. Mi avrebbe pagato due soldi al giorno e in più mi avrebbe dato i ritagli del pane avanzato.

    Il lavoro non era pesante. Andavo in negozio al mattino verso le dieci dopo aver riordinato le due soffitte che formavano la nostra abitazione. Una cesta dopo l’altra, portavo il pane alle famiglie e ai ristoranti del quartiere. Quando nel preparare i fagotti di pane, vedevo che cresceva un ritaglio me lo facevo dare subito e me lo mangiavo caldo e croccante per la strada. A mezzogiorno o alla mezza rientravo a casa. Verso le cinque del pomeriggio tornavo in bottega per portare altre ceste piene di pane.

    A volte il sabato qualche cliente mi regalava un soldino. Era un soldino tutto per me e quasi sempre mia madre mi permetteva di tenerlo. All’edicola avevo scoperto i giornali per ragazzi, come il «Novellino», il «Novellino rosa» e altri ancora, ma io mi fermavo ai primi due che costavano solo un soldo. Trovavo scritte fiabe e novelle che mi sembravano meravigliose. Così mi compravo un soldino di felicità incantata.

    Lavorando scoprii che la carta stampata era tanta. Dappertutto si potevano trovare fogli di carta stampata, adoperata per fare pacchi e per molti altri usi. Era carta che si poteva prendere, leggere e poi anche riportare senza che nessuno mi sgridasse.

    Così il mio mondo si allargò. Mentre correvo allegra con la mia cesta del pane, pensavo a quello che avevo letto. Non tutto mi piaceva perché cominciavo a discernere, ma tutto mi interessava e tutto mi faceva pensare. L’aver imparato a leggere mi sembrava una cosa meravigliosa. Non mi sentivo più sola e non mi pesava neanche più la costrizione della miseria e della fame. Mi sembrava di essere libera: libera di conoscere, di immedesimarmi nei fatti e nelle vicende altrui, di sognare cose meravigliose, di viaggiare con la fantasia in paesi lontani e sconosciuti. Libera di sapere.

    Decisi che da grande avrei fatto la maestra, per insegnare a leggere a tutti i bambini.

    Quando in ottobre tornai a scuola, mi misi d’accordo con il fornaio: nei giorni di scuola il pane lo avrei portato solo tra le quattro e le sei del pomeriggio. Per questo lavoro dimezzato avrei avuto la paga dimezzata: un soldino invece di due ma sempre i ritagli del pane fresco.

    Mia madre decise di lasciarmi il soldino affinché potessi comprarmi un frutto o una listarella di cioccolato come companatico per la colazione del mattino e per il pranzo di mezzogiorno, dato che il pranzo adesso lo facevo a scuola. In realtà ci davano solo la minestra e una pagnottella, ma la minestra era calda, densa e la pagnottella fresca di forno.

    La refezione era gratuita e riservata ai bambini bisognosi. L’inserviente che ci serviva la minestra passava quasi sempre a darmi la «giunta», cioè un altro mezzo mestolo. Aveva capito dalla celerità con la quale facevo scomparire la prima scodella di minestra, che avevo sempre fame arretrata. Inoltre mi mancava il cestino che molte delle mie compagne si portavano da casa, perché tanto non avrei avuto niente da metterci dentro. Infatti il soldino della mia paga quotidiana lo spendevo subito al mattino per accompagnare il pane solo (il latte era un lusso riservato per la cena) o lo conservavo per affittare qualche libro.

    Sul viale vicino alla scuola avevo scoperto una bancarella di libri vecchi da vendere o da dare in prestito. Dopo essermi fermata diverse volte per sfogliare i libri in mostra, preso il coraggio a due mani una sera avevo chiesto al vecchietto padrone dei libri, quanto sarebbe costato prenderne in prestito uno: due soldi alla settimana per i più piccoli, tre o quattro soldi per quelli grandi.

    Io avevo un solo soldino e glielo avevo mostrato. Ma il vecchio aveva scosso il capo e mi aveva detto: «Torna quando ne avrai due».

    Per due giorni mi accontentai solo di pane anche al mattino e tornai. Presi le Fiabe di Perrault e corsi felice a casa. Adesso leggevo correntemente e più veloce di tutte le mie coetanee. Anche se non sapevo fare l’analisi grammaticale, capivo quasi tutto quello che leggevo. Così malgrado il lavoro dal fornaio, quello di casa (prima di andare a scuola, al mattino, dovevo rifare i letti e spazzare), la scuola e i compiti, mi lessi il libro in due giorni.

    II terzo giorno tornai dal libraio per rendere il libro. Gli dissi che io i libri non li prendevo in prestito per una settimana, perciò non era giusto che pagassi la tariffa intera. Il vecchietto si mise a ridere e rispose che sapevo condurre i miei affari. Ci mettemmo d’accordo: due libri alla settimana per due soldi, uno per volta.

    Mia madre non era contenta che io leggessi molto poiché quando lei spegneva il lume a petrolio, io uscivo sul pianerottolo a leggere alla luce del lume sulla scala e diceva che mi rovinavo la vista.

    Dalla seconda classe passai facilmente in terza, poi in quarta. Non andavo più a portare il pane. Avevamo avuto l’ennesimo sfratto e dovemmo cambiare casa. Dopo molte traversie, dopo aver dormito sotto i portici della città e nei fienili della campagna circostante, trovammo finalmente una cameretta in via Gioberti.

    Eravamo lontani dalla mia scuola, ma io non volli cambiare maestra. In quanto a mio fratello non era riuscito a finire la quarta e aveva cominciato a lavorare come tappezziere. Mia madre protestava ma le tre lire alla settimana che mio fratello portava a casa le facevano comodo. Pierino non era un ragazzo docile, non sopportava soprusi, rispondeva male e doveva sovente cambiare lavoro.

    In uno degli ultimi posti di lavoro aveva addirittura rotto la testa al padrone, un falegname. Costui noto nel quartiere per la sua brutalità, aveva allungato al ragazzo un manrovescio solo perché si era sbagliato nel porgergli il martello. Mio fratello non ci aveva visto più: preso un altro martello, l’aveva lanciato contro la testa del padrone. Poi era uscito di bottega senza neanche voltarsi indietro.

    Invece io avevo terminato le elementari molto bene. Finita la quarta avevo dato l’esame di maturità ed ero stata promossa alle superiori, come si diceva allora, con la media dell’otto. Ciò mi avrebbe dispensato dal pagare la tassa di ammissione. Ma durante l’estate avevo trovato un vero lavoro in un laboratorio da stiratrice. Tra mance e salario portavo a casa quasi cinque lire per settimana.

    Era un apporto notevole al misero bilancio della famiglia. Perciò a settembre, quando mi sarei dovuta iscrivere alla scuola superiore, cominciai a riflettere seriamente sulla strada da prendere. Sì, avrei voluto continuare a studiare per diventare insegnante, ma mi accorsi che il problema era più complesso di quanto non mi fosse sembrato.

    Alle medie mi sarei trovata con ragazze di un’altra condizione. Con le calze sempre rotte, le scarpe scalcagnate e persino d’inverno con gli zoccoli, avrei certo dovuto sopportare gli sberleffi delle altre. Se mio fratello aveva tirato il martello in testa al padrone, io a scuola non avrei avuto martelli da tirare in testa alle compagne, semmai i libri. Poi la scuola costava: anche se fossi riuscita a ottenere sempre l’esonero dalle tasse, i libri bisognava comprarli. Perciò avrei pesato sulla mia famiglia senza dare niente in cambio.

    Con un po’ d’amarezza e molti rimpianti per i primi sogni sfumati, scelsi la via del lavoro.

    2. Sciopero con il fiocco rosso

    La padrona del laboratorio dove avevo lavorato l’estate fu ben contenta che decidessi di rimanere con lei anche d’inverno, per quanto non fossi molto docile o quel che si dice una brava bambina. Avevo la lingua tagliente, la risposta pronta e non tolleravo soprusi da nessuno. In cambio avevo molta voglia di imparare, ero svelta e sempre pronta a rendere servizio.

    Oltre a me apprendista fissa, nel laboratorio c’erano tre lavoranti grandi e tre apprendiste che venivano solo dopo la scuola. Lavoravamo al terzo piano di una vecchia casa e le clienti non se la sentivano di fare tante scale con i pacchi di biancheria da portare e poi da riprendere. Perciò tante apprendiste sempre su e giù per le scale, sempre a camminare sul selciato di Torino con le ceste colme. Con il sole o con la pioggia, con la neve o con la nebbia le gambe trottavano, le mani si gonfiavano e si screpolavano. Le ceste di biancheria erano pesanti e talvolta bisognava essere in due a portarle.

    Di tanto in tanto però potevo fermarmi in laboratorio e cominciare a lavorare veramente, cioè a stirare anch’io qualche piccolo capo. Ce la mettevo tutta e in genere ci riuscivo. Sicché malgrado il mio caratteraccio, o forse proprio per questo, la padrona mi trattava abbastanza bene. Un giorno in cui mi vide mentre mi leccavo le mani screpolate dal gelo (avevo scoperto che la saliva ha un potere cicatrizzante), mi regalò un paio di guanti. Ne fui contenta, ma chiesi subito i guanti anche per le altre apprendiste. È vero che lavoravano meno ore di me, però erano più piccole e quindi avevano ancora più bisogno dei guanti. La spuntai e avemmo tutte i guanti, più o meno caldi, più o meno rotti.

    Non solo le mani soffrivano per il lavoro, ma anche i piedi. D’inverno portavo sempre gli zoccoli, più caldi, più solidi e più a buon mercato delle scarpe. Ma le corse sui ciottoli delle strade torinesi ebbero ben presto ragione anche dei miei zoccoli. Una mattina tornata da una delle solite corse, mi ero seduta vicino alla stufa per togliermene uno rotto e sentii un vocione dirmi: «Oggi vieni con un paio di ciabatte, così ti togli gli zoccoletti e te li aggiusto io».

    Era il marito della padrona. Noi non lo vedevamo quasi mai, ma sapevamo che era un ferroviere in pensione e se ne stava tutto il giorno rinchiuso nella sua camera, forse a leggere. Le ragazze dicevano che era un «socialista», un miscredente. Qualche volta sentivamo la sua voce soverchiare quella in falsetto della padrona, donna tutta di chiesa, che la domenica mattina ci permetteva di venire un po’ più tardi solo perché potessimo andare a messa.

    L’uomo mi intimidiva ma se mi aggiustava gli zoccoli di sua iniziativa, non doveva poi essere così cattivo come temevamo. Il pomeriggio giunsi in laboratorio con un paio di vecchie scarpe rotte di mia madre, con gli zoccoli in mano e timidamente bussai alla porta della sua camera. Con il suo vocione mi fece entrare e prese gli zoccoli. Tirò fuori da un cassetto due bei pezzi di legno nuovi e: «Stasera riavrai i tuoi zoccoli», mi disse. Poi mi spinse fuori.

    II socialista fu di parola. Non solo rimise a nuovo gli zoccoli, ma li orlò con una bella striscia di cuoio tutt’attorno perché fossero più resistenti e facessero meno rumore. Doveva avere indovinato che quell’antipatico rumore mi mortificava da quando mi ero accorta che dava noia alle clienti. Da quel giorno fra me e l’ex-ferroviere si stabilì una sorta di legame. Lui mi mandava sovente a comprare un giornale che io ancora non conoscevo, ma che spaventava mia madre: si chiamava «Avanti!».

    Un giorno l’omone che continuava a incutermi un po’ di paura, mi chiamò di nuovo in camera sua e mi chiese di fargli una commissione di fiducia. Dovevo chiedere il permesso alla padrona e andare alla Camera del lavoro per pagare le quote del sindacato. Siccome lo guardavo imbambolata, lui capì che non sapevo che cosa erano le quote e me lo spiegò con un sorriso che mi parve ironico. Preso il coraggio, gli dissi che però sapevo che cosa erano la Camera del lavoro e il sindacato: era dove si fabbricavano gli scioperi. La sua risata a questa mia espressione arrivò fin nel laboratorio.

    La padrona mi lasciò andare facendomi mille raccomandazioni: non dovevo fermarmi a parlare con nessuno né rispondere a domande. In realtà, nella sede sindacale di corso Siccardi nessuno ebbe qualcosa da chiedermi. Allo sportello che mi era stato indicato un vecchietto sorridente, incassati i soldi, prese la tessera sindacale, vi mise un timbro e me la restituì con un bel ciau. Tutto qui. Ne fui quasi delusa.

    Ma un giorno abbandonai quel posto di lavoro fisso e passai da un laboratorio all’altro. Generalmente me ne venivo via perché mi offendevano. La fatica non mi faceva paura, imparavo presto e bene, lavoravo più di quanto non dovessi; ma bastava una frase o anche soltanto una parola per farmi uscire dai gangheri. Mia madre non mi capiva. Mi giudicava troppo orgogliosa e diceva che chi non ha niente non può permettersi di avere orgoglio. Io rispondevo che proprio chi non ha altro deve conservare almeno la fierezza.

    Non avevo ancora 12 anni che cambiai mestiere. Provai a fare la sarta in un piccolo ma elegante atelier. Era una nuova esperienza. Trovai l’ambiente molto diverso da quello dei laboratori di stireria. Anche qui c’erano tre lavoranti e due apprendiste: oltre a me, una quattordicenne che già sedeva, cioè non faceva solo le corse e la pulizia, ma stava anche qualche ora seduta a cucire. Poi c’erano le «signorine», ossia le titolari dell’atelier, di solo qualche anno più anziane delle ragazze.

    Malgrado non sapessi affatto cucire, il lavoro mi piacque subito. Mi pareva nuovo e appassionante. Non era semplice come stirare, perché qui si trattava di creare cose belle, eleganti, vaporose. Tutte le lavoranti amavano il mestiere. Pensavano di sposarsi, ma non di lasciare il lavoro dopo sposate. Il loro sogno era di continuare a fare la sarta per conto proprio. Attraverso i discorsi di queste «sartine» scoprii per la prima volta l’amore. Tutte avevano l’innamorato e mentre lavoravano, ne parlavano molto liberamente.

    L’altra apprendista Marcella si incaricò della mia educazione sessuale. Io sapevo ben poco. Lei mi svelò molti misteri e mi chiarì cose che fino ad allora non avevo capito. Innanzi tutto il mistero della donna: lei aveva già le mestruazioni ed era perciò atta alla procreazione, mentre io ero ancora bambina. Grazie all’educazione impartitami da Marcella, quando poco più tardi divenni donna anch’io, non subii un trauma come accadeva a molte altre ragazze.

    Un mattino mentre mi recavo al lavoro, vidi nella centralissima via Roma molti capannelli di ragazze. Erano certamente sartine ed ebbi l’impressione che stesse succedendo qualcosa. Appena entrai nel laboratorio mi accorsi che le ragazze sussurravano misteriosamente tra di loro e lanciavano occhiate alle signorine. Il lavoro era cominciato svogliatamente quando sentimmo salire dalla strada un grande vocio. Malgrado la proibizione delle signorine, ci affacciammo tutte alle finestre e vedemmo centinaia di sartine infilare la viuzza portante a piazza Carignano, dove avevano sede oltre al nostro molti altri laboratori.

    «Sciopero, sciopero!». Suonò il campanello della nostra porta: era una delegazione di ragazze che ci invitava a uscire. Anche se quello era il primo sciopero di sartine mai fatto, le ragazze sapevano che nei piccoli atelier bisognava intervenire per far cessare il lavoro alle poche lavoranti. Contentissime, le nostre si alzarono tutte e si tolsero il grembiule. Mi preparavo anch’io a uscire, quando una delle signorine chiese alla delegazione: «Anche l’apprendista deve cessare il lavoro?».

    Mi diedero un’occhiata. Cercai di farmi grande, ma si vedeva bene che ero solo una cita (bambina). Dissero che potevo restare. Vidi con rabbia uscire anche Marcella con le altre e mi sentii chiudere la porta sul viso. Le signorine mi tennero in laboratorio a pulire e a mettere ordine: non si fidavano dissero a farmi uscire per le solite commissioni. Mi riproposi una rivincita per il pomeriggio.

    Dopo aver mangiato la minestra a casa, uscii senza dire niente a mia madre dello sciopero. Per la strada lo dissi invece a mio fratello e lui subito mi consigliò: «Non rientrare, non fare la crumira anche se te ne hanno dato il permesso. Perché le apprendiste non dovrebbero scioperare? Lo so che voi chiedete le dieci ore di lavoro al giorno e solo due mesi di morta (la stagione morta, durante la quale non si lavorava e non si prendeva paga e durava a volte perfino quattro mesi). Le apprendiste fanno anche undici e più ore di lavoro al giorno. Perciò tu devi scioperare!».

    Così invece di rientrare in laboratorio, mi accodai al primo gruppo di scioperanti incontrato nelle vie del centro e mi misi a gridare più forte di tutte: «Sciopero, sciopero!».

    Qualcuna delle ragazze mi guardò sorpresa: «Ma tu con quel fiocchetto rosso, quanti anni hai?».

    «Tredici», mentii «e già mi siedo. Il fiocco rosso me lo mettono le signorine proprio per farmi passare per un’apprendista». E cercai di togliermi il fiocco rosso dai capelli.

    «No, non togliertelo. Evviva il fiocco rosso!». E le ragazze mi presero sottobraccio, proprio come una grande. Mi sentii felice, anche se con una puntarella al cuore per la bugia detta.

    In realtà ero ancora lontana dai 13 anni, anche se ero alta per i miei undici. E sedevo molto raramente, solo per fare qualche orlo o per togliere le imbastiture. Quanto al fiocco rosso la storia era vera solo in parte. Sì, le signorine volevano che lo mettessi ma solo per tenermi in ordine i capelli che non erano ben cresciuti dopo la malattia avuta da piccola.

    Scorrazzai felice per le strade della città, sorvegliando che nessun laboratorio lavorasse ma lasciai le scioperanti prima dell’ora di chiusura, per poter raccontare a mia madre che non ero riuscita a entrare nell’atelier in quanto le ragazze me lo avevano impedito. La stessa cosa dissi alle signorine quando venne ripreso il lavoro. Una delle lavoranti che era stata molto attiva durante lo sciopero e mi aveva sentito gridare con lei, nascose la testa per non farsi vedere a ridere.

    Ottenemmo le dieci ore di lavoro al giorno e la promessa che si sarebbe cercato di contenere il periodo di stagione morta. Per le apprendiste naturalmente niente. Ma l’importante, secondo me e mio fratello, non era il risultato immediato ottenuto ma il fatto che per la prima volta le sartine avessero scioperato.

    Questa categoria veniva infatti considerata un po’ a parte nel mondo operaio. Erano specialiste (occorrevano fino a quattro o cinque anni di apprendistato per diventare una lavorante), sempre eleganti e comunque vestite meglio delle altre lavoratrici e se ne andavano a spasso con gli studenti. Che ora fossero scese in piazza anche loro, che avessero scioperato compatte e fossero andate alla Camera del lavoro era una grande cosa. Mio fratello e io ne eravamo contentissimi, anche se mia madre quando venne a sapere la verità sulla mia partecipazione allo sciopero, mi diede un sacco di botte.

    Qualche mese dopo fu la volta di mio fratello a scioperare. Aveva 14 anni e lavorava in fabbrica. A Torino gli stabilimenti metallurgici si moltiplicavano. L’industria automobilistica si sviluppava. Oltre alla Fiat Brevetti, la Fiat San Giorgio e alla Fiat Centro erano già sorte la Spa, la Lancia, l’Itala, la Diatto e altre ditte. Torino stava diventando la città della grande industria nella quale affluivano operai da tutte le parti d’Italia. A Torino si formavano i quadri più specializzati.

    La concentrazione di grandi masse operaie permise la fusione e la coesione di elementi di disparata provenienza giunti a trovarsi insieme nelle officine. Il bracciante pugliese si confondeva oramai con l’ex-artigiano piemontese, il piccolo contadino veneto con il manovale lombardo. E questa fusione del proletariato favorì il rapido sviluppo della coscienza di classe. Anche se provenienti da strati diversi e da differenti regioni, nella fabbrica gli operai sentivano che i loro interessi erano gli stessi. Chi invece aveva interessi opposti ai loro erano i padroni, i direttori e gli azionisti delle grandi fabbriche.

    Gli operai si organizzarono in un forte sindacato. La sezione torinese della Fiom (Federazione italiana operai metallurgici) divenne la più importante su scala nazionale.

    Naturalmente mio fratello di nascosto da nostra madre si era iscritto al sindacato. E quando deciso a strappare alcuni miglioramenti il sindacato si scontrò con l’opposizione dei padroni, dichiarò lo sciopero. Questo riuscì compatto ma gli operai avevano di fronte un avversario agguerrito, l’Amma (Associazione padronale) che vedendo la compattezza dei lavoratori, spalleggiata da tutti gli industriali metallurgici torinesi aveva deciso di non cedere.

    Mio fratello era assiduo alle riunioni sindacali. Poi quando non era presente mia madre, discutevamo tra noi. Lui mi spiegava perché gli operai dovevano vincere a ogni costo: la vittoria non sarebbe stata solo dei metallurgici, ma di tutti i lavoratori che avrebbero finito per seguirne l’esempio. Perciò come i padroni erano uniti contro gli operai, questi dovevano essere tutti d’accordo e resistere fino alla vittoria.

    È vero che mentre gli altri scioperavano, alla Spa c’erano crumiri che lavoravano. Gli scioperanti avevano parlato con questi e avevano saputo che per la maggior parte si trattava di manovali e poveri artigiani del Piemonte, appositamente ingaggiati nei loro paesi e portati a Torino dagli agenti dei padroni. Miseri lavoratori che facevano i crumiri per salvare le loro famiglie dalla fame.

    Io sentivo un po’ di pietà per questa gente, ma mio fratello no. Lui diceva: «Tutti vogliono salvare la famiglia dalla fame ed è proprio per questo, per avere un pezzo di pane in più, che noi scioperiamo. Se tutti per sfamare i figli facessero i crumiri, sarebbe inutile scioperare e non si otterrebbe mai niente. Il crumiro non pensa che per dar da mangiare ai suoi bambini, fa patire la fame agli altri, ai figli degli scioperanti che da parecchie settimane non prendono un soldo e sono carichi di debiti».

    Lo sciopero infatti non accennava a finire. Le casse del sindacato erano vuote e si era dovuto sospendere anche il piccolo sussidio riservato agli operai carichi di famiglia. Gli esercenti che avevano aperto inizialmente il credito, ora reclamavano i loro soldi perché non potevano più tirare avanti neanche loro. Un appello fu lanciato ai lavoratori di tutte le altre categorie perché aiutassero gli scioperanti.

    Mia madre era furibonda per lo sciopero. Da settimane mio fratello non portava a casa un soldo. Lui non aveva avuto diritto neanche al piccolo sussidio del sindacato, non essendo capofamiglia. Se grazie anche al mio misero salario un tozzo di pane lo rimediavamo sempre, eravamo carichi di debiti e mia madre avrebbe voluto che mio fratello andasse a fare il crumiro alla Spa.

    Così un giorno mio fratello non ne poté più di subire rimproveri e se ne andò di casa. Assieme a un suo coetaneo partì a piedi per raggiungere Genova e imbarcarsi. Probabilmente i libri di Salgari che leggevamo insieme gli avevano montato la testa. Il suo compagno di avventure non era affatto uno scioperante, ma il figlio del carbonaio che d’inverno ci vendeva la legna per la stufa. Insomma un benestante, ma anche lui un ribelle che non voleva saperne di stare a bottega con il padre: voleva imparare un mestiere vero, come diceva lui.

    Mia madre si disperò quando seppe della fuga. Timorosa che succedesse qualche disgrazia al ragazzo, si rimproverava di averlo assillato perché facesse il crumiro. Il carbonaio invece era furibondo solo perché gli mancava l’aiuto in bottega. Da bravo commerciante, più del figlio gli importava il mancato guadagno.

    I ragazzi tornarono tre giorni dopo stanchi, laceri e affamati. Avevano fatto molti chilometri a piedi senza trovare mai nessuno disposto a farli lavorare e a dare loro un po’ di pane. Ma il risultato fu che per un po’, mia madre la smise di assillare mio fratello. Perfino il carbonaio promise al figlio che finita la stagione gli avrebbe permesso di andare a lavorare in fabbrica.

    Non potei fare a meno di punzecchiare mio fratello per la sua romantica fuga. Gli eroi dei libri d’avventure Il Corsaro Nero e Le Tigri di Mompracem, erano esistiti solo nella fantasia di Salgari e comunque non era più il loro tempo. Dovevamo perciò accontentarci di sognare i nostri eroi, senza pretendere di riviverne le avventure. Nel nostro secolo le avventure dovevano essere altre: quali ancora non sapevo, ma certamente altre.

    Con lo sciopero gli operai ottennero qualche miglioramento salariale e la riduzione dell’orario, ma non il sabato inglese che era stata la rivendicazione principale. Mio fratello non trovò più lavoro in fabbrica. Per non rimanere disoccupato tornò a bottega da un artigiano, un lattoniere idraulico. Ottenne la stessa paga e mia madre fu più contenta, pensando che dal lattoniere avrebbe imparato un mestiere completo.

    Intanto anch’io avevo perso il mio lavoro da sarta. Me ne ero andata di brusco come sempre, sia per solidarietà con una lavorante ingiustamente licenziata, sia per protesta contro un assurdo divieto impostomi di leggere per strada. Nel portare la cassetta dei vestiti alle clienti, se avevo un libro me lo leggevo camminando per le strade più tranquille. Le clienti dell’atelier abitavano quasi tutte nei quartieri più signorili, dove non passava traffico. E io nel preparare la cassetta vi facevo scivolare dentro il libro, che poi tiravo fuori e leggevo camminando tranquillamente. Se facevo tardi mi mettevo poi a correre per recuperare il tempo perduto.

    Ma un giorno appena rientrata e prima che avessi modo di togliere il libro dalla cassetta, le signorine dissero che dovevo fare subito un’altra corsa. Aprirono la cassetta e trovarono il libro. Capirono malgrado i miei dinieghi che lo leggevo per strada e me lo proibirono assolutamente, minacciando di dirlo a mia madre. Trovai questo sopruso talmente ingiusto (non avevano nessun diritto di proibirmi di leggere) che quando vi fu il licenziamento arbitrario di una delle lavoranti, decisi di andarmene via anch’io. E me ne andai.

    Altri strilli di mia madre e altre botte. Trovai di nuovo lavoro come stiratrice e tornai in laboratorio, ma non più come apprendista: avevo deciso di auto-nominarmi aiutante. E siccome avevano bisogno proprio di un’aiutante, mi andò bene. Qualche cosa sapevo fare e quello che non sapevo cercai di impararlo alla svelta guardando le altre. In poco tempo seppi quanto c’era da imparare; avrei potuto anche dire di essere lavorante finita ma a 12 anni nessuno mi avrebbe accettata per tale. Mia madre questa volta fu contenta, perché portavo a casa qualche lira in più.

    3. Contro la guerra

    Non ricordo di aver mai sentito parlare di elezioni politiche prima del 1913. Sapevo più o meno cos’erano le elezioni, ma a Torino non ne avevo mai viste. Quelle del 1913 furono le prime a suffragio universale. Ne parlavo con mio fratello e se ne discuteva in laboratorio. Fino ad allora si era votato per censo, ossia votavano solo i possidenti. Adesso il diritto di votare veniva esteso agli operai e ai contadini poveri. Era un grande passo in avanti e i socialisti contavano molto sulle elezioni.

    I muri di Torino si coprirono di grandi manifesti multicolori che davano alla città un’aria festosa. Su tutte le piazze si tenevano comizi e contraddittori. Io avrei voluto andare a sentirne qualcuno, ma mia madre me lo proibiva. Anche a casa nostra ferveva la lotta elettorale: da una parte mia madre con Dio, la patria e il re; dall’altra mio fratello e io che volevamo la vittoria dei socialisti. Naturalmente mio fratello andava a sentire i comizi e poi me ne parlava, facendo arrabbiare mia madre.

    Dietro la nostra casa in borgata Crocetta c’era un grande spiazzo dove il sabato sera si tenevano comizi. Mia madre scendeva quasi sempre a udirli, qualunque fosse l’oratore e mi rinchiudeva in casa per essere sicura che non uscissi. Ma io scoprii che dal cucinino dove dormiva mio fratello, si poteva sentire ciò che si diceva fuori. Allora avvicinando un tavolo al finestrino che dava sulla piazza, vi montai sopra e ascoltai il primo oratore. Il finestrino era alto, piccolo e con l’inferriata. Ma io mi ci aggrappai e infilai il viso tra le sbarre. Quando l’oratore, un monarchico liberale, terminò il suo discorso con tutta la mia voce gridai: «Abbasso!». Vidi qualche faccia interdetta volgersi verso l’alto, come chiedendosi da dove venisse quel grido.

    Temendo che mia madre avesse riconosciuto la mia voce, svelta discesi dal tavolo, lo rimisi a posto e mi infilai sotto le coperte. Appena in tempo. Mia madre rientrò come una furia e dopo avere ispezionato la cucina si avvicinò sospettosa al letto. Dovette aver rimorso dei suoi sospetti, perché si chinò su di me e mi accarezzò dolcemente la fronte.

    Con mio fratello ci facemmo grandi risate, ma lui mi raccomandò di essere prudente: guai se mia madre mi avesse scoperto! Mi consigliò anche di mettere il fazzoletto sull’inferriata e di gridare attraverso quello per cambiare il tono della voce. Ma poiché il fazzoletto bianco si sarebbe potuto vedere dalla piazza, cercammo uno straccetto scuro e io continuai a lanciare le mie grida provocatorie senza essere scoperta.

    Nonostante tutti gli sforzi degli operai e dei socialisti, nella nostra borgata il candidato operaio venne battuto per poche decine di voti da quello conservatore.

    Mio fratello era contento che prendessi parte alla vita politica ma si rifiutava di condurmi al suo circolo giovanile socialista. Cosa ci sarei andata a fare io che frequentavo ancora la chiesa?

    Era vero. Sebbene non credessi a quello che dicevano i preti e lo facessi soltanto perché mia madre me lo imponeva, seguivo ancora le pratiche religiose. Forse anche perché credevo sempre in Dio e non nella chiesa. Decisi comunque che credente o meno, in chiesa non ci sarei più andata.

    Era più facile pensarlo che farlo. Ogni domenica mia madre mi assillava perché andassi a messa. Io uscivo ma poi andavo a visitare un museo, senza mai confessare che alla messa non c’ero stata. Infine mi rivoltai contro la mia mezza ipocrisia e dissi chiaro e tondo a mia madre che non volevo più andare a messa né confessarmi e fare la comunione.

    Presi molte botte. Il lunedì mattina mi ritrovai in laboratorio con il viso e le braccia coperti di lividi. Le compagne vollero sapere che diavolo avessi combinato per prenderne tante e quando dissi la causa, mi guardarono trasecolate. Che importanza poteva avere andare o non andare a messa? Tanto ci si va solo perché ci vanno tutti. Mi accorsi così che le mie compagne di lavoro erano ancora meno credenti di me, ma non comprendevano come si potesse prendere tante botte per non voler andare a messa.

    Intanto si parlava di guerra. Sapevo che c’erano state altre guerre e ricordavo l’ultima, quella per Tripoli «bel suol d’amore». Ma a quel tempo ero ancora troppo piccola per capire che cosa fosse.

    Adesso capivo di più. Mio fratello portava a casa l’«Avanti!» e io lo leggevo di nascosto. Così seguii la battaglia tra le opposte tendenze, tra chi voleva la nostra entrata in guerra a fianco della Germania e dell’Austria e chi sosteneva che dovevamo rimanere neutrali. Tra questi ultimi c’era anche chi voleva sì la guerra, ma a fianco della Francia e dell’Inghilterra.

    I socialisti dicevano di non volere la guerra ma in realtà erano disorientati, anche perché nei paesi che già combattevano (Germania e Austria contro Francia, Inghilterra e Russia), i partiti socialisti avevano in maggioranza votato per la guerra. Perfino in Germania, nel paese di Karl Marx come diceva scandalizzato mio fratello. Il socialista francese Jean Jaurès era stato assassinato per essersi opposto alla guerra e così la Francia della grande rivoluzione era scesa in campo a fianco della Russia zarista, oltre che dell’Inghilterra. Soltanto piccole minoranze socialiste si erano opposte alla guerra. Come capirne qualche cosa?

    Ma nonostante tutto si sentiva che i lavoratori torinesi erano contrari all’intervento dell’Italia. Se ne discuteva dovunque, persino nel nostro laboratorio, per non parlare di casa mia dove gli scontri tra mia madre e mio fratello erano quotidiani.

    Poi ci fu il tradimento di Mussolini, direttore dell’«Avanti!». Costui passò ai guerrafondai e da questi ebbe un nuovo giornale che si chiamò «Il popolo d’Italia». Mussolini sosteneva l’intervento contro l’Austria e la Germania, con il pretesto che l’Italia aveva diritto a Trento e a Trieste. Molti cominciarono a tentennare e il disorientamento tra i lavoratori aumentò.

    Si sentiva la guerra vicina.

    Quando su l’«Avanti!» comparve la famosa parola d’ordine: «Né aderire né sabotare la guerra», vidi mio fratello furibondo. Diceva che anche i nostri socialisti stavano ormai prendendo la strada dei riformisti alla Bissolati. Costui e i suoi amici che avevano votato per la guerra di Libia erano stati espulsi dal Partito socialista, ma questi del «non aderire e non sabotare», chi li avrebbe espulsi? E in fondo erano la stessa cosa.

    Verso la metà di maggio del 1915 mio fratello mi passò di nascosto un manifestino stampato in modo primitivo e firmato «Gli operai rivoluzionari di Torino». Il foglietto tra l’altro diceva: «Questa guerra che incendia l’Europa è un’infamia. Nessuna delle nazioni in guerra lotta per i diritti dei popoli. L’Austria non libererà la Serbia e la Russia zarista non darà la libertà alla Polonia. Bisogna impedire che l’Italia sia trascinata al macello. Il popolo italiano non ha nessun interesse a entrare in guerra, da nessuna parte. Non è vero che questa sia una guerra rivoluzionaria, una guerra per la libertà. I socialisti che dicono questo hanno tradito il proletariato per gli interessi della borghesia del proprio paese. La II Internazionale ha tradito. Ma vi sono dei socialisti che non tradiscono: in Germania Karl Liebknecht è stato incarcerato perché si è levato contro la guerra [...] Lavoratori torinesi, manifestate contro la guerra. L’Italia non deve entrare in guerra. Impedite al governo di dichiarare la guerra. Organizziamo lo sciopero generale contro la guerra».

    Mi parve che il foglietto dicesse proprio quello che bisognava dire e che sentivo anch’io. Mio fratello disse che però non erano stati i vecchi socialisti a scriverlo, ma i giovani. Anzi il Partito non ne sapeva niente. Per questo era così mal stampato. I giovani l’avevano fatto di nascosto e non era stato possibile neppure stamparne molti.

    Malgrado tutte le difficoltà a Torino si cominciò a preparare uno sciopero generale contro l’entrata in guerra. «Se le altre città ci seguiranno», dicevano i giovani «forse riusciremo a impedire che l’Italia intervenga». Qualche giorno dopo, il 19 maggio, senza preavviso scoppiò lo sciopero generale. Ma la polizia dovette averne avuto sentore perché davanti alla Camera del lavoro dove avevano cominciato a confluire gruppi di operai, comparvero subito squadre di poliziotti e al di là del giardino adiacente già si intravedeva la cavalleria.

    Verso le dieci si fermarono i tram. Squadre di lavoratori cominciarono a uscire dalle fabbriche e a scendere verso il centro della città. La cavalleria si mosse e apparvero le prime barricate.

    La padrona del nostro laboratorio fece subito sprangare la porta. Noi senza lavorare seguivamo dall’interno l’andamento dello sciopero, chiedendo notizie ai passanti e ai clienti. Dopo l’assalto condotto contro la prima barricata gli operai si erano ritirati verso il giardino della Cittadella, dove si teneva l’annuale Fiera dei fiori. I dimostranti avevano divelto parte dei cancelli per erigere nuove barricate e avevano incendiato i teloni che coprivano gli stand dei fiori. Resistettero a lungo. La cavalleria non poteva entrare nel giardino perché i cavalli non ce la facevano a saltare i cancelli e l’entrata era ben difesa dalle barricate.

    A un certo punto poliziotti e carabinieri cominciarono a sparare, prendendo d’assalto le barricate. Riuscirono così a invadere il giardino e i dimostranti furono costretti a fuggire saltando dai cancelli. Nelle fabbriche però lo sciopero continuava. Gli operai torinesi speravano che nelle altre città, soprattutto a Milano, si seguisse il loro esempio ma nessuno si mosse. Abbandonati a se stessi dal Partito socialista che aveva ignorato il loro sciopero, gli operai torinesi dovettero così rientrare in fabbrica. Era il 20 maggio. Quattro giorni dopo l’Italia entrava in guerra a fianco della Francia, dell’Inghilterra e della Russia zarista.

    Tutti avevamo sperato che la guerra durasse poco ma il tempo passava, il numero dei morti e dei feriti aumentava, le privazioni del popolo si facevano sentire sempre di più e il conflitto non accennava a finire.

    Mia madre aveva inneggiato alla guerra, forse pensando che mio fratello non avrebbe fatto in tempo a parteciparvi. Invece i giovani della sua classe furono chiamati in anticipo, sicché anche mio fratello partì. Come lui partirono i fratelli della padrona del mio laboratorio. Uno di questi fu fatto prigioniero quasi subito.

    Invece mio fratello dopo essere stato qualche tempo in fanteria, chiese di frequentare la scuola di aviazione. Infatti avevano cominciato ad apparire in guerra i primi aeroplani e anche l’Italia voleva la sua aviazione. Ma in un primo momento mio fratello si vide respingere la domanda, perché non possedeva la licenza della scuola elementare.

    A casa le cose andavano di male in peggio. Il mio salario era sempre più insufficiente. I prezzi aumentavano ogni giorno e mia madre era malata. Nessuno sapeva che cosa avesse ma le privazioni e il patema d’animo per la vita di mio fratello al fronte la facevano deperire sempre più. Finalmente la convinsi a farsi visitare all’ospedale. Non rientrò a casa e fu trattenuta in osservazione.

    Dovetti dividermi tra il lavoro e l’ospedale. Mia madre stava proprio male, tanto che il medico mi dette il permesso di vederla a qualsiasi ora anche di sera tardi quando tornavo dal lavoro. Capii che quello era un bruttissimo segno ma a ogni mia domanda di spiegazione sulla malattia di mia madre, il medico si stringeva nelle spalle. Poi un giorno mi disse che si trattava di una malattia infettiva e fece isolare l’ammalata dietro un paravento.

    Mia madre aveva sempre la febbre e non poteva mangiare niente. Ero disperata: chissà quale malattia aveva. Solo parecchio tempo dopo quando la «spagnola» cominciò a infierire e a decimare la popolazione civile, capii che mia madre era stata una delle prime vittime di quella epidemia.

    Non avevo informato mio fratello della malattia della mamma. La situazione al fronte era pessima. Nonostante cosa scrivessero i giornali, tra la popolazione torinese circolavano le voci più tragiche: si parlava di interi battaglioni distrutti e di montagne di cadaveri ammucchiati nel fango delle trincee. Nomi come Monte Nero e Carso incutevano terrore. Perché avrei dovuto inquietare mio fratello dandogli la notizia della malattia di nostra madre?

    Ma una sera improvvisamente, mentre stavo mangiando una scodella di minestra fredda del giorno prima arrivò mio fratello. Non era in licenza, perché le licenze venivano date in quei giorni solo per cause gravissime ma gli era arrivata la risposta favorevole alla sua seconda domanda di passare in aviazione. Seguendo il corso avrebbe dato l’esame per la licenza elementare. Per andare a Pontedera a fare il corso doveva passare per Torino e aveva ottenuto due giorni di permesso.

    Così prima di morire mia madre poté rivedere il figlio. Pareva quasi che avesse resistito fino a quel momento solo per rivederlo, perché subito dopo entrò in coma e qualche giorno dopo morì. Dovetti farmi prestare il denaro per il funerale e per la messa: il prete voleva essere pagato. E anche se io non ero più credente, mia madre lo era sempre stata.

    Mio fratello partì per la scuola di aviazione. Eravamo nel 1917. La situazione in Italia e a Torino, peggiorava. Mancavano i viveri. Tutti i generi erano razionati ma, con o senza tessera, nelle botteghe ormai non si trovava più niente. Il pane era scarso e di tutti i colori: un giorno era nero, un altro grigio e l’altro ancora giallo. Però era sempre l’alimento più necessario, soprattutto per gli operai.

    Oltre che per la scarsità dei viveri, nelle fabbriche vi era fermento contro i ritmi di lavoro, gli orari, la disciplina e i salari insufficienti. E soprattutto vi era il malcontento per la guerra che continuava e non accennava a finire. Si sapeva che all’estero c’erano state due conferenze contro la guerra, una a Zimmerwald e l’altra a Kienthal. Vi avevano partecipato i socialisti contrari a quel terribile massacro e per la prima volta era così arrivato anche a Torino il nome di Lenin. Ma nonostante le due conferenze la guerra non accennava a finire.

    Continuavo a lavorare in laboratorio, ma volevo cambiare e andare in fabbrica. Però in tutte le fabbriche si lavorava per la guerra e questo mi ripugnava. Dalla scuola di aviazione mio fratello scriveva che tanto oramai tutti lavoravano per la guerra direttamente o indirettamente. Con il salario del laboratorio facevo la fame e mio fratello temeva che mi ammalassi anch’io com’era successo alla mamma.

    Dovetti fare un altro trasloco. Mia madre morendo mi aveva lasciato mesi e mesi di affitto arretrato da pagare. Andai dalle padrone di casa e dissi che non potendo pagare, ero disposta ad andarmene subito se mi avessero rilasciato una ricevuta di saldo: senza quella non avrei potuto affittare le due soffitte trovate nei pressi del laboratorio. Purché me ne andassi senza storie, le padrone mi dettero la ricevuta e io traslocai.

    Mi ritrovai sola in due piccolissime soffitte sui tetti della mia Torino. Sola, affamata e ribelle.

    A luglio decisi di entrare in fabbrica. E subito nei primi giorni del mio nuovo lavoro, partecipai a una manifestazione. Erano arrivati a Torino due russi, due menscevichi secondo l’«Avanti!». Ma pochissimi allora sapevano che cosa volesse dire questa parola, probabilmente neanche gli stessi giornalisti del quotidiano socialista. O se questi lo sapevano comunque non riuscivano a spiegarlo ai loro lettori. Si sapeva solo una cosa: che i menscevichi erano per la continuazione della guerra, mentre i bolscevichi erano per la pace subito.

    Noi a Torino la guerra

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