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Il socialismo liberale di Bettino Craxi
Il socialismo liberale di Bettino Craxi
Il socialismo liberale di Bettino Craxi
E-book516 pagine9 ore

Il socialismo liberale di Bettino Craxi

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Info su questo ebook

Il libro si compone di tre parti. Nella prima parte l’autore sostiene la tesi della “necessità storica” del socialismo liberale perché una società aperta possa perdurare e prosperare. Nella seconda parte,Mastrolia sostiene, dopo aver passato al vaglio tutti gli atti dei lavori preparatori della Carta costituzionale, che la legge fondamentale della Repubblica italiana è fatta della stessa materia di cui è fatto il socialismo liberale. La terza parte, infine, è dedicata al pensiero politico di Bettino Craxi, che fu il primo - è questa la tesi che l’autore propone - a tentare di costruire una sinistra costituzionale in Italia, vale a dire una sinistra che potesse realmente aspirare alla guida del Paese. In quest’ultima parte un ampio spazio è dedicato anche al pensiero politico di Enrico Berlinguer e ai rapporti tra il PCI e il PSI.
LinguaItaliano
Data di uscita27 apr 2015
ISBN9786050375121
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    Anteprima del libro

    Il socialismo liberale di Bettino Craxi - Nunziante Mastrolia

    Nunziante Mastrolia

    Il socialismo liberale di Bettino Craxi

    UUID: c6f06ad0-f80b-11e4-86e7-1dc02b2eb2f5

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    Introduzione

    La necessità del socialismo liberale

    Il socialismo liberale e la Costituzione repubblicana

    Il socialismo liberale di Bettino Craxi

    Conclusioni

    Note

    In copertina

    Fabio Giocondo Senza titolo

    Olio su tela 48x56

    A mia moglie e mio padre,

    ai medici e agli infermieri

    dell'UTIC dell'Ospedale pubblico S. Luca

    di Vallo della Lucania

    per avermi salvato la vita

    E' socialista quella società che riesce a dare

    a ciascun individuo la massima possibilità di decidere

    la propria esistenza e di costruire la propria vita

    Riccardo Lombardi

    Nel senso più vasto e permanente il socialismo è aspirazione verso

    la giustizia sociale e l'uguaglianza, con la soppressione di privilegi economici e politici

    Bettino Craxi

    Senza uomini liberi non vi è nessuna possibilità di uno Stato libero

    Carlo Rosselli

    Giustizia e libertà sono come le nostre gambe, le quali ci sono

    entrambe necessarie per camminare. Al passo fatto con l'una,

    deve seguir quello fatto con l'altra: altrimenti si cade, o si saltella e non si fa strada

    Guido Calogero

    Se il socialismo liberale era nato per rivendicare

    i diritti di libertà contro un socialismo diventato dispotico,

    il socialismo liberale di oggi deve difendere i diritti sociali,

    come condizione necessaria per la migliore

    protezione dei diritti di libertà, contro il liberismo anarchico.

    Norberto Bobbio

    Prefazione

    Un periodo storico non può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne la grandezza e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità presente.

    Molto probabilmente, Massimo D’Alema aveva presente questa acuta osservazione di Antonio Gramsci quando dichiarò: Dobbiamo cominciare a vedere nella vicenda del cattolicesimo democratico e del Partito socialista qualcosa di più che una lunga preparazione di Tangentopoli; altrimenti consegniamo alle nuove generazioni l’immagine di 50 anni della nostra democrazia come di una storia di ladri e di assassini.

    Commentando, sulle pagine del Corriere della Sera, questa osservazione, Stefano Folli indicò nel progetto riformista per il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni il nucleo centrale dell’eredità politica di Bettino Craxi. Che l’idea della Grande Riforma, lanciata da Craxi nel 1979, è stata una felice intuizione è senz’altro vero; ma è ancora più vero, se è lecito così esprimersi, che in essa non risiede la cosa più importante del ruolo svolto da Craxi nella storia del nostro Paese. La cosa più di gran lunga più importante – come documenta Nunziante Mastrolia in questo libro – è stata la sua battaglia in difesa dei valori del socialismo liberale.

    Per intendere l’importanza storica di tale battaglia, occorre tenere costantemente presente che la stragrande maggioranza della sinistra italiana - abbacinata da quello che Filippo Turati, nel memorabile discorso tenuto al Congresso di Livorno, chiamò il feticcio di Mosca – ha opposto il volto dell’arme alla cultura politica del gradualismo riformista. E’ vero che tal volta ha praticato la politica delle riforme; ma è altresì vero che lo ha fatto con una riserva mentale, ciecamente convinta che la sua missione storica era la distruzione del capitalismo, l’edificazione del socialismo concepito come un ordine centrato sulla statalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione totale. Dominata dal mito della Rivoluzione palingenetica, è riuscita, con un impegno degno di miglior causa, a bloccare ogni tentativo di ripensare criticamente l’idea socialista. Di qui il fatto che il tratto diacritico della sinistra maggioritaria in Italia è stato il massimalismo, vale a dire il rifiuto di qualsiasi ipotesi politica che non contemplasse la trasformazione rivoluzionaria della società: il così detto salto dialettico dall’ordine esistente – stigmatizzato come radicalmente e irrimediabilmente corrotto e corruttore - in un ordine totalmente altro, di cui, peraltro, nessuno fu mai in grado di delineare il profilo istituzionale. Lo ammise, sia pure obtorto collo, Alberto Asor Rosa in un libro apparso nel 1977: Ci manca un’idea di ciò che dovrebbe essere una formazione economico-sociale non fondata sul profitto e un’idea di una istituzione statale , e comunque di una qualsiasi organizzazione della società, che non ripeta i modelli, sia pure corretti e integrati, della democrazia rappresentativa. Cioè ci mancano le due idee fondamentali.

    Ma questa ammissione non portò punto al riconoscimento, da parte del Pci, che l’unica strada aperta davanti alla sinistra era quella indicata da Norberto Bobbio nel famoso saggio sulla inesistenza di una teoria marxiana dello Stato democratico pubblicato, nel 1975, sulle pagine di Mondoperaio: il socialismo riformista così come era stato pensato e praticato dalla Socialdemocrazia europea. Accadde tutto il contrario. Il marxleninismo, grazie all’esplosione della Contestazione studentesca, prese a dilagare in ogni dove e a investire sfere della vita e della condotta per l’innanzi regolate dalla tradizione e lo spirito rivoluzionario sembrò che stesse riportando una vittoria definitiva sul suo nemico di sempre: lo spirito riformista. A partire dal 1968, tutto fu letto, interpretato, valutato, vissuto in nome del Gran Rifiuto della civiltà occidentale, di cui nulla si sottrasse a una condanna senza appello: né la scienza, né la tecnologia, né lo Stato di diritto, né la democrazia parlamentare, né la socialdemocrazia, né, tanto meno, il capitalismo, bollato à jamais come un sistema imperialistico che pretendeva il mondo intero come vittima a lui spettante. E così, nel nostro Paese, si formò un popolo di alieni, composto da milioni di individui che erano nella comunità nazionale ma non della comunità nazionale; milioni di individui che aspettavano, armi al piede, il grande scontro che si sarebbe inevitabilmente concluso – come assicuravano le Sacre Scritture del così detto socialismo scientifico – con l’annientamento del capitalismo. E questo accadeva perché, per i comunisti, la proprietà privata – come dichiarò Enrico Berlinguer durante un colloquio con Ciriaco De Mita – era l’equivalente del peccato originale per i cristiani, cioè l’istituzione responsabile della corruzione morale della natura umana. Come tale, andava rasa al suolo in tutte le sue forme.

    Ne era risultato un clima ideologico nel quale non c’era spazio alcuno per il socialismo riformista. A tal punto che Piero Ottone, allora direttore del Corriere della Sera, durante la campagna elettorale del 1976 scrisse un editoriale nel quale affermò che bisognava riconoscere che il marxismo aveva vinto su tuta la linea. Era, quella di Ottone, una capitolazione della cultura liberale di tali dimensioni da indurre Lucio Lombardo Radice a manifestare, sulle pagine di Rinascita, il suo compiacimento di fronte al fatto che il marxismo era diventato il linguaggio comune della gente pensante e il quadro teorico entro il quale tutti coloro che si dicevano progressisti erano obbligati a muoversi.

    In effetti, la strategia gramsciana della guerra di posizione – la conquista progressiva delle fortezze e della casematte della società civile -, sapientemente calata nella realtà da Palmiro Togliatti, aveva conseguito il suo obbiettivo. Grazie all’infaticabile azione pedagogica degli intellettuali organici, l’ideologia comunista era diventata il nuovo senso comune: una cosa che Umberto Eco non mancò di sottolineare in un articolo apparso nel 1976 sul Corriere della Sera che così recitava: A cento anni e passa dalla sua prima proposta, la visione marxista della società si sta imponendo come un valore acquisito. I suoi valori sono diventati di tutti, come nell’Ottocento erano diventati di tutti gli immortali principi dell’Ottantanove…Quell’insieme di principi filosofici e di strategie politiche che vanno sotto il nome di marxismo oggi viene accettato come valore diffuso e indiscutibile.

    Ebbene: Craxi osò discutere l’indiscutibile. Non solo - appena eletto segretario del Psi - si dichiarò apertamente riformista, ma ebbe anche l’ardire di richiamarsi alla idea di socialismo difesa da Eduard Bernstein: il socialismo come allargamento del perimetro borghese dello Stato liberale e universalizzazione delle libertà e dei diritti dei cittadini.

    Era, quella di Craxi, una posizione ad altissimo rischio, poiché nel suo stesso partito – ritornato ad essere, dopo la fallimentare unificazione socialista, un mal riuscito clone del Pci – il massimalismo la faceva da padrone. Ed esso regnava con l’arma tipica della tradizione terzointernazionalista: il terrorismo ideologico. Su chiunque osava criticare il marxleninismo o l’Unione Sovietica, si abbatteva, puntuale e impalcabile, l’arma della scomunica: veniva accusato di essere un rinnegato o, addirittura, un fascista mascherato. Il terrorismo ideologico negli anni Settanta era così potente che persino i dirigenti del Psdi si dichiaravano marxisti .

    Ma non Craxi. E questo non solo perché le sue convinzioni politiche erano in netto contrasto con l’ideologia all’epoca imperante, ma anche e soprattutto perché era giunto alla ragionata conclusione che la strategia del compromesso storico, elaborata da Berlinguer, avrebbe portato l’Italia al disastro.

    La storia delle rivoluzioni fatte in nome di Marx e Lenin – tutte, senza eccezione alcuna, sfociate nell’instaurazione di regimi totalitari – indicava chiaramente che comunismo e libertà erano termini incompatibili: se c’era il primo, non vi poteva essere la seconda. Ma questa solare evidenza Berlinguer, ermeticamente chiuso nelle sue certezze ideologiche, non era in grado di percepirla. Tant’è che tenne sempre a precisare che la così detta terza via nulla aveva a che fare con la via socialdemocratica poiché la meta del Pci non poteva non essere la fuoriuscita dalla logica del capitalismo, per muoversi nella direzione di uno sviluppo economico, sociale e politico di tipo nuovo, orientato verso il socialismo. E tenne altresì a precisare che la costruzione della società socialista doveva essere compiuta tenendo costantemente presente l’esempio dell’Unione Sovietica e delle democrazie popolari, in cui – affermava con la massima serenità Berlinguer – era universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche erano sempre più colpite da un decadimento di ideali e di valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione. Aggiungeva Berlinguer, a ulteriore conferma della superiorità del marxleninismo, che nel mondo capitalistico c’era la crisi, nel mondo socialista no.

    Mentre Berlinguer proponeva come modello da imitare, sia pure con qualche correzione, quel mostruoso impasto di dispotismo, miseria, corruzione, irrazionalità economica e imperialismo ideologico che proclamava di essere il socialismo realizzato, Craxi teneva a Treviri una relazione su Marxismo e revisionismo nella quale - dopo aver denunciato gli esiti liberticidi del giacobinismo di Lenin e Trockij - tessé l’elogio del compromesso socialdemocratico fra Stato e mercato, così esprimendosi: I partiti socialisti e socialdemocratici hanno seguito la via opposta (a quella del leninismo). Hanno preferito attenersi alle indicazioni del vecchio Engels e alla metodologia operativa abbozzata da Bernstein. Anziché distruggere la democrazia rappresentativa, l’hanno potenziata; anziché accentrare i processi decisionali, hanno cercato di decentrali, in modo da avvicinare la cosa pubblica ai lavoratori. Certo, non sono risusciti a creare un tipo di società conforme ai principi della democrazia socialista, dal momento che ancora oggi le società europee presentano tratti tipicamente classisti. Ma il metodo da essi adottato è risultato essere l’unico capace di accrescere la libertà e l’influenza delle classi lavoratrici. E concludeva: Oggi ci appare chiaro che la statizzazione dei mezzi di produzione fagocita la logica pluralistica e tende a distruggere tutte le precondizioni che hanno reso possibile lo sviluppo delle libertà delle classi lavoratrici.

    Alla luce di queste parole, si capisce perché, quando, nell’estate del 1978, Berlinguer, intervistato dalla Repubblica, esaltò la ricca lezione leninista, Craxi replicò con quello che impropriamente è stato battezzato Saggio su Proudhon, nel quale, testi alla mano, dimostrò che, sin dai primi anni del Novecento, era esistita un antibolscevismo di sinistra, il quale si rifiutava di identificare il socialismo con la dittatura terroristica e che, profeticamente, aveva visto e denunciato il catastrofico paradosso del leninismo: la pretesa di estrarre la società senza classi e senza Stato attraverso la creazione di uno Stato onniproprietario e perciò onnipotente.

    Oggi - dopo la bancarotta planetaria del comunismo – è diventata cosa autoevidente la natura liberticida dell’ideologia marxleninista. Ma non lo era affatto quando Craxi ebbe il coraggio di sfidare i dogmi che accecavano la stragrande maggioranza della sinistra italiana a tal punto che c’erano intellettuali che si autodefinivano progressisti i quali non avevano ritegno alcuno a firmare manifesti all’insegna dello slogan Né con le Brigate rosse, né con lo Stato. Un autentico tradimento dei chierici, triste conferma della costatazione fatta dall’esule Tzvetan Todorov: Mentre da secoli i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, gli intellettuali, che in teoria rappresentano la parte più illuminata della popolazione, hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se il voto fosse riservato in quei Paesi ai soli intellettuali, oggi vivremo sotto regimi totalitari.

    Per tutte queste ragioni, il libro di Mastrolia è particolarmente prezioso. Ricorda agli immemori che non è affatto vero quanto Giorgio Napolitano ha affermato durante il discorso tenuto per la commemorazione della figura di Antonio Giolitti; e cioè che il Psi di Craxi fu da ostacolo alla socialdemocratizzazione del Pci. E’ vero esattamente il contrario: fu Berlinguer, con la sua ostinata difesa del marxleninismo e con la sua apologetica esaltazione dell’Unione Sovietica, che sbarrò la strada alla cancellazione delle disastrose conseguenze della sciagurata scissione di Livorno.

    Luciano Pellicani

    Introduzione

    «In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa.

    «Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra.

    «Poi vengono le guardie del principe.

    «Poi vengono i cani delle guardie del principe.

    «Poi, nulla

    «Poi, ancora nulla.

    «Poi, ancora nulla

    «Poi vengono i cafoni.

    «E poi, si può dire che è finito»

    Ignazio Silone, Fontamara

    Questo scritto, che ha nella ricostruzione del socialismo liberale di Craxi il suo nucleo centrale, non affronta tutti i temi del pensiero politico del segretario del PSI[1]. Restano ai margini, se non esclusi, nodi pur importanti come la riflessione di Craxi sugli effetti (e i risvolti) internazionali sia a livello politico che economico per l'Italia dell'inchiesta di «Mani Pulite»[2]. Non è affrontata, così come avrebbe dovuto essere, la questione cattolica, dalla revisione del Concordato al rapporto di Craxi con la fede, sino alla sua ammirazione, e quasi il suo affetto, per quei religiosi che seppero essere insieme uomini di fede, patrioti, partigiani della libertà e della giustizia sociale. Allo stesso modo è affrontato solo in parte l'amore di Craxi per l'epopea risorgimentale e per i suoi protagonisti, noti o oscuri che fossero[3]. Resta sullo sfondo il rapporto filiale che lo lega a Nenni. Filiale nel senso pieno del termine, vale a dire aspro e tenero allo stesso tempo, pieno di ammirazione ma anche di recriminazioni nei confronti del leader socialista, essenzialmente per ciò che riguardava i rapporti con il PCI[4].

    Molte cose, dunque, restano ai margini di questo scritto, che altro non è che il tentativo di stabilire una connessione tra questioni apparentemente disconnesse e, per quanto riguarda la figura di Craxi, di tracciare un filo rosso tra i suoi scritti e discorsi (a cui si lascia amplissimo spazio) per far emergere il pensatore politico e l'intellettuale. Perché, in fin dei conti, non ci può essere azione politica senza una filosofia politica; e Craxi tentò di elaborare una filosofia politica sulla quale costruire una sinistra che potesse realmente aspirare ad essere forza di governo in Italia.

    La prima parte di questo scritto è il tentativo di abbozzare (per dirla in maniera un po' pomposa e forse anche presuntuosa) una teoria generale della democrazia, o da un altro punto di vista, parafrasando Ralws, è il tentativo di appuntare degli elementi per abbozzare una «prassi della giustizia sociale». E' il tentativo cioè di sostenere che la democrazia è cosa assai fragile, un congegno delicatissimo nel quale se solo uno degli elementi si incrina tutto rischia il collasso. Dei tanti elementi necessari a fare di un sistema politico una democrazia liberale, o una società aperta (una stampa libera, magistratura autonoma ed indipendente, un sistema scolastico in grado di formare non solo il cittadino, ma l'uomo occidentale e cioè l'uomo che dubita di tutto) qui si sono presi in considerazione quelli che possono essere definiti gli elementi sociali.

    Senza voler entrare ora nel dettaglio, la tesi del primo capitolo è la seguente: se una società aperta non si attiene ai principi e al metodo del socialismo liberale (vale a dire la socializzazione delle libertà liberali) rischia il collasso (di qui la prassi della giustizia sociale, cui prima si accennava); il mercato, infatti, lasciato a se stesso genera una questione sociale che se non risolta conduce all'avvento della tirannide, sia essa dei molti, dei pochi o di uno solo. Di qui la necessità per una società aperta che non voglia tramutarsi nel proprio opposto, vale a dire in una società chiusa, di adottare sì quel piano di difesa che è stato elaborato nei secoli dalla tradizione liberale, fatto di separazione dei poteri, nomocrazia, democrazia, autonomia della società civile, secolarizzazione e il rosario delle libertà liberali etc..., ma anche al contempo la necessità di adottare un secondo piano di difesa, che potremmo definire socialista, fatto di quei diritti sociali che sono stati la conquista delle sinistre e dei sindacati siano essi di ispirazione laica o cattolica.

    Dal che ne consegue che solo quella società aperta nella quale alle libertà socialiste (dal bisogno e dalla paura del bisogno) è garantito lo stesso rango nella gerarchia delle fonti delle libertà liberali (civili e politiche) ha meno possibilità di cadere vittima della tirannide.

    Il secondo capitolo nasce dalla constatazione che tale doppio piano di difesa, quello liberale e quello socialista, è presente nella Costituzione della Repubblica italiana, nella quale, addirittura, i diritti sociali si pongono come il fine a cui le libertà liberali devono tendere; il che significa che le libertà liberali sono sì garantite ma il loro esercizio trova un limite nei diritti sociali. Per fare un esempio si prenda l'art. 41 della Carta costituzionale: l'iniziativa economica è sì libera, ma non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; a tal fine è dovere del legislatore determinare i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Così si potrebbe quasi dire che al vertice della gerarchia delle norme, al di sopra dei diritti liberali vi sono nell'ordinamento italiano i diritti sociali.

    Ora se è vero, come si cerca di dimostrare nel secondo capitolo, che nella Costituzione vi è la fusione e l'intrecciarsi di questo doppio piano di difesa, quello socialista e quello liberale, che si basano sulle libertà liberali il primo e sulle libertà sociali (vale a dire i diritti sociali) il secondo, allora ne consegue che il prodotto di questa fusione altro non è che il socialismo liberale. Di qui la conclusione che la Costituzione è fatta della stessa materia di cui sono fatti i principi ed il metodo del socialismo liberale.

    Ciò ha un altro risvolto. Se il socialismo liberale – la definizione è di Leo Valiani – consiste nell'accettazione incondizionata «da parte del movimento operaio, non solo del metodo della democrazia politica, [...] ma altresì dell'economia di mercato, e in generale, dei valori della civiltà liberale»[5], vuol dire che i partiti della sinistra italiana presenti in Assemblea costituente, giurando fedeltà a quella Costituzione, fatta di socialismo liberale, hanno celebrato la loro Bad Godesberg già nel 1948, hanno cioè accettato la civiltà liberale, l'economia di mercato e quindi abbandonato il mito della fuoriuscita dal capitalismo e dell'abolizione della proprietà privata.

    Tutto ciò sulla carta, perché, per quanto riguarda la piena ed incondizionata adesione di tutti gli attori politici al metodo e ai principi (ormai costituzionalizzati) del socialismo liberale, la Costituzione italiana resterà per lungo tempo inattuata. I partiti della sinistra, infatti, al di là delle proprie fedeltà oltrecortina, per il solo fatto di continuare ad indicare come meta della propria azione politica la fuoriuscita dal capitalismo, via riforme strutturali a carattere definitivo, si ponevano automaticamente al di fuori di quel patto costituzionale, nel quale convivono pluralismo economico e pluralismo politico. In breve: continuando ad alimentare il proprio anticapitalismo i partiti della sinistra si ponevano come partiti anti-sistema e quindi incostituzionali. Il che significa che, di fatto, per lungi anni in Italia non è esistita una sinistra costituzionale. Di qui l'anomalia della democrazia bloccata e del bipolarismo imperfetto.

    Un’anomalia a cui Craxi per primo cercherà di porre rimedio facendo ciò che a sinistra era considerato una vera e propria eresia, vale a dire fare pace con il mercato. Di qui il suo principale merito (che per i suoi critici fu al contrario la sua massima colpa) e cioè aver sottoposto il Psi, con la prospettiva di fare lo stesso per tutta la sinistra italiana, ad una vera e propria «mutazione genetica», vale a dire sostituire il socialismo massimalista con quel socialismo liberale, democratico e umanitario, in massima parte italiano, che fu di Garibaldi, di Carlo Rosselli, di Guido Calogero, di Ignazio Silone, di Edmondo De Amicis per citare solo alcune di quelle figure che, poste ai margini dai massimalisti, Craxi recupera dall'oblio.

    Qual è la caratteristica essenziale del socialismo liberale di Craxi? Per dirla in poche parole l'equidistanza tra Stato e mercato, la convinzione cioè che non tutto può il mercato, così come non tutto può lo Stato e che là dove il mercato fallisce, o la sua azione è insufficiente, là deve intervenire lo Stato. Peraltro allo Stato spettano compiti che il mercato e le imprese non possono assolvere ed è compito dello Stato (anche attraverso le imprese pubbliche) produrre una serie di prodotti necessari perché il sistema delle imprese private possa innovare e reggere la concorrenza. Anche per questo non pare corretto fare di Craxi l'ispiratore e l'antesignano del New Labour di Blair, il quale non farà altro che dare qualche sfumatura di rosso alle politiche liberiste della Thatcher. Blair è di destra, Craxi no, resta uomo di sinistra.

    L'operazione avviata da Craxi di mutare l'anima della sinistra italiana resterà incompiuta, con conseguenze serissime. Senza più un punto di equilibrio tra Stato e mercato, senza più la serenità di Craxi nel rivendicare il primato e l'autonomia della politica e la sua equidistanza tra Stato e mercato, la sinistra italiana con il crollo dell'URSS inizia a sbandare paurosamente tra una maggioranza, che riuscirà a risolvere le proprie pene esistenziali votandosi ad una nuova rivoluzione, quella liberale, senza ammettere, neppure con se stessi, che quella era (ed è) una reazione liberista ed una minoranza massimalista nostalgica, che continuerà, incurante di tutto, a sventolare vecchie bandiere e ad abbaiare contro il capitalismo. Le conseguenze? Così facendo si è importato quel neoliberismo che in Italia, stando alla lettera e allo spirito della Carta fondamentale, avrebbe dovuto essere dichiarato anticostituzionale, e, così facendo, aver creato le condizioni perché una nuova questione sociale si producesse e con essa la crisi economica.

    C'è di più, gettato alle ortiche il vecchio paradigma massimalista e abbracciato il vessillo, di quella che Craxi definì la «nuova destra» e cioè quello della rivoluzione liberista, di fatto la sinistra italiana è rimasta senza identità, continuando ad oscillare tra pulsioni anticapitaliste e la sudditanza, scambiata per modernità, all'impresa, al mercato e a capitani più o meno coraggiosi; scambiando per riformismo ciò che invece è restaurazione di antichi privilegi ed antiche ingiustizie, di un mondo antico nel quale la normalità era quella pena di vivere che fu della maggioranza dei cittadini italiani solo pochi decenni fa; quella pena di vivere che fu dei cafoni di quell'Ignazio Silone che Craxi amava.

    La necessità del socialismo liberale

    Il successo planetario che ha avuto il libro di Acemoglu e Robinson, Why Nations Fail sta, probabilmente, ad indicare che nella secolare ricerca delle cause della ricchezza e povertà delle nazioni si è giunti ad un punto fermo[6]. I due autori hanno il merito di aver fornito una «dimostrazione geografica», mostrando come il confine tra una società aperta ed una società chiusa coincide con il confine che separa il benessere economico dal sottosviluppo, ad una antica, blasonata ed in parte dimenticata teoria, la quale sostiene che, per usare la terminologia marxiana, è la sovrastruttura che spiega il dato economico.

    Questa teoria è già presente in Polibio e nella sua ricerca delle cause della repentina ascesa della Repubblica romana[7]; è presente nel Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, quando, riflettendo per l'appunto sulle sorti dell'antica Roma, scrive: « tutto viene dal vivere libero allora, e ora dal vivere servo. Perché le terre e le province che vivono libere, in ogni parte [...] fanno profitti grandissimi. Perché quivi si vede maggior popoli, per essere e connubii più liberi, più desiderabili dagli uomini, perché ciascuno procrea volentieri quei figliuoli che crede poter nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto, e ch’ei conosce non solamente ch’ei’ nascono liberi e non schiavi, ma ch’ei possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggionsi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura e quelle che vengono dalle arti; perché ciascun volentieri multiplica quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini fanno a gara, pensono à privati e pubblici commodi, e l’uno e l’altro viene meravigliosamente a crescere»[8]

    Questa tesi è presente in Adam Smith, che scrive: «quando [le persone] sono sicure di poter godere i frutti della propria attività, esse cercano naturalmente di praticarla allo scopo di migliorare la loro condizione e di ottenere non soltanto le cose necessarie ma anche quelle che fanno agio e la raffinatezza della vita.»[9]. Lo sviluppo economico, continua Adam Smith «è ovunque promosso dall’inclinazione naturale dell’uomo. Se le istituzioni umane non avessero mai ostacolato queste inclinazioni umane, in nessun luogo le città avrebbero potuto svilupparsi oltre a quanto poteva consentire il progresso e la coltivazione del territorio in cui esse erano situate»[10].

    Dello stesso avviso è Karl Marx, quando scrive: «senz’altro molti piccoli maestri artigiani e un numero ancor più grande di piccoli artigiani indipendenti o anche di operai salariati si sono trasformati in piccoli capitalisti [...] [e poi] in capitalisti «sans phrase»[11].

    E' una tesi che, inoltre, viene abbozzata da Ortega y Gasset: «La storia intera appare come un gigantesco laboratorio dove si sono tentati tutti gli esperimenti concepibili per ottenere una formula di vita pubblica che favorisse la pianta uomo. E, mettendo da parte ogni possibile sofisticazione, noi ci imbattiamo nell'esperienza che sottoponendo il seme umano al trattamento di questi due principi, la democrazia liberale e la tecnica, nel corso di un solo secolo si è triplicata la specie europea»[12]. Per tecnica, è bene precisare, Ortega intende «l'accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale»[13].

    Questa tesi, infine, è stata sistematizzata da Luciano Pellicani in La genesi del capitalismo e le origini della modernità[14], il cui merito è quello di averle fornito una dimostrazione storica, cui si affianca quella geografica di Acemoglu e Robinson.

    Pertanto ciò che spiega perché alcune nazioni sono ricche ed altre povere va individuato, capovolgendo la tesi marxiana, in una particolare conformazione istituzionale, che, per semplicità, può essere indicata con il nome di società aperta. In breve: è il dato politico-istituzionale-legale che spiega il dato economico e non viceversa.

    Sgombrato il campo dal tentativo di svelare l’arcano (inesistente) dell’accumulazione originaria caro a Marx, si resta pertanto di fronte ad un dato evidente, vale a dire che la chiave per spiegare l’origine della ricchezza delle nazioni risiede nel modo in cui il potere politico si conforma: «senza alcuna limitazione del potere politico assoluto, né il mercato, né la proprietà privata possono acquistare rilevanza e autonomia. La sottomissione al Potere dispotico creò sempre ostacoli impossibili da superare per la classe dei mercanti: o questi si convertivano in proprietari terrieri, quando ciò era possibile, oppure il potere politico confiscava le loro ricchezze, apertamente o surrettiziamente: con il che si eliminavano le condizioni indispensabili all’accumulazione di capitali capaci di potenziare le capacità del sistema economico»[15].

    Dunque, la fonte della ricchezza e del progresso è la libertà tutelata dal diritto, vale a dire la società aperta. La stasi e la stagnazione sono il prodotto del dispotismo del potere, vale a dire la società chiusa. Pertanto, lo sviluppo economico è una variabile dipendente dell'assetto istituzionale. Il che vuol dire che se una particolare conformazione istituzionale garantisce le libertà dei moderni, la crescita economica si realizza spontaneamente[16]. In questo modo si spiega perché le nazioni ricche siano diventate ricche e le nazioni povere siano rimaste povere.

    Là dove il diritto ha la forza di garantire ai più i più ampi margini di libertà e là dove le istituzioni politiche garantiscono ai più la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, là lo sviluppo economico sgorga naturalmente. Al contrario là dove il potere politico non trova di fronte a sé alcun limite e là dove l'arbitrio del potere può impunemente privare un qualsiasi uomo dei frutti del proprio lavoro là prospera il sottosviluppo e la stagnazione.

    È, dunque, nella forza di quei diritti, che tutelano le libertà elaborate e conquistate nei secoli dalla tradizione liberale, che va individuata la spiegazione di quella che è la miracolosa crescita dell'Europa e dell’Occidente. Ed infatti non è un caso se per Max Weber a fare l'Occidente moderno siano state cinque grandi rivoluzioni e cioè «quelle italiane delle XII e XIII secolo, quella inglese del XVII secolo, quella americana e quella francese delle XVIII secolo»[17]. C'è un elemento che accomuna questi passaggi della storia occidentale: tutte e cinque furono rivoluzioni politiche con le quali si costituzionalizzarono, in documenti scritti, le libertà liberali. La rivoluzione comunale italiana produce gli Statuti comunali[18]; la gloriosa rivoluzione il Bill of Rights del 1689[19]; la rivoluzione americana la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, la Costituzione e il Bill of Rights del 1789[20]; quella francese la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 e la Costituzione liberale del 1791[21].

    Alla base, dunque, del miracolo occidentale vi è una serie di rivoluzioni giuridiche con le quali si forgia quella struttura istituzionale fatta di nomocrazia, separazione dei poteri, diritti dell'uomo e del cittadino, secolarizzazione e democrazia, che è la vera fonte dello sviluppo occidentale, dalla quale sgorga quel tumultuoso sviluppo economico che è il capitalismo o, per dirla con Karl Polanyi, quella «grande trasformazione» che ha strappato l'Europa dalla trappola malthusiana[22]. Infatti, senza i diritti civili e senza una conformazione istituzionale che sia in grado di impedire l'assolutismo politico e garantire tali diritti non vi sarebbe stato capitalismo: «i diritti civili – scrive T.H. Marshall – erano indispensabili ad una economica di mercato concorrenziale»[23].

    Tuttavia questa è solo una parte della storia. Se è vero che il capitalismo ha prodotto ricchezze sconosciute ai secoli passati, è altrettanto vero che la lotta per la ricchezza e la sopravvivenza produce vinti e vincitori: «il capitalismo è, infatti, un sistema di disuguaglianza e non di uguaglianza»[24].

    Così, lavorata dal mercato e dalle logiche del capitalismo una società subisce un processo di polarizzazione economica e sociale, che ne lacera profondamente la struttura; il ceto medio si sfalda; i più scivolano verso il basso mentre una piccola frazione della popolazione riesce ad accrescere le proprie ricchezze, ad ascendere economicamente e socialmente.

    E' questo un fenomeno che si produce naturalmente e che può essere osservato ovunque le logiche del libero mercato siano state dominanti, anche nella Roma repubblicana del I secolo a.C., dove la piccola proprietà viene fagocitata dal latifondo, e il piccolo proprietario si trasforma in bracciante; o nella Firenze medievale e rinascimentale, dove il piccolo artigiano, perso il proprio telaio, si trasforma in salariato. Nel complesso il risultato, già osservato da Marx, è il formarsi di «più capitalisti o più grossi capitalisti a questo polo, più salariati a quell'altro»[25]. Il che poi equivale a dire che si ha una «accumulazione di miseria adeguata all'accumulazione di capitale»[26], o per usare le parole di Keynes, il paradosso «della povertà in mezzo all'abbondanza»[27].

    Si tratta di un fenomeno complesso, al cui sorgere contribuiscono più fattori. Ma a voler mettere l'accento su uno solo di questi fattori, si può scegliere, come fa Polanyi, quello che viene definito la mercificazione del lavoro, l'idea cioè che il lavoro sia da considerarsi un fattore della produzione come tutti gli altri, al quale il libero gioco della domanda e dell'offerta fornisce un prezzo che è il salario.

    Solo così, sostengono i liberisti, si può garantire una perfetta allocazione dei fattori della produzione, scarsi per definizione, il che implica che il prezzo che il mercato fornisce al lavoro è sempre quello giusto. E solo così, potrebbe continuare un liberista, solo attraverso la concorrenza, che è lotta per la vita e per la felicità, si spronerà ciascuno a dare il meglio di sé.

    Sono affermazioni comuni a tutti i liberisti che meritano qualche precisazione. Il giusto prezzo: ammettiamo pure che le leggi della concorrenza ed il libero gioco della domanda e dell'offerta siano in grado di dare il giusto prezzo alla «merce lavoro». E' chiaro che tale prezzo è giusto in rapporto alle esigenze del processo produttivo e in relazione agli imperativi della concorrenza. Eppure il lavoro non è una merce come le altre, in quanto esso è, per dirla con Polanyi, la vita stessa dell'uomo: «Il lavoro è soltanto un altro nome per un'attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita»[28].

    Dal che ne consegue che quel salario, giusto per il processo produttivo, potrebbe non essere anche sufficiente a soddisfare le esigenze della vita dell'uomo e questo perché, per dirla con Röpke, «la produzione ha i suoi fini che non coincidono coi fini umani»[29].

    Riassumendo: una particolare conformazione istituzionale, che per semplicità si può dire quella di una società aperta, dà avvio al processo della grande trasformazione, che implica la mercificazione (insieme a tutto il resto) del fattore lavoro; il lavoro è considerato, in altre parole, una merce come tutte le altre; è compito del libero gioco della domanda e dell'offerta dare un prezzo a quel fattore lavoro; tale prezzo è il salario; tuttavia non vi è alcuna garanzia che il prezzo che il mercato dà al lavoro sia sufficiente al lavoratore perché possa vivere una esistenza libera e dignitosa.

    A ciò si aggiunga un altro elemento: come scrive Marx, «la libera concorrenza impone al singolo capitalista le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne»[30]. E la prima legge immanente della produzione che si impone al capitalista non può che essere la massimizzazione del profitto.

    Se ora si immagina un mercato nel quale non vi è alcun intervento da parte di attori ad esso esterno e che improntano la propria azione a logiche e principi non economici, sembra possibile affermare che il modo più agevole, immediato, sicuro per massimizzare i profitti possa essere quello di ridurre il costo dei fattori della produzione ed in particolare di quel fattore della produzione il cui costo dipende dalla volontà dell'imprenditore, vale a dire il lavoro. Se ciò è vero si può allora dire che «i fini della produzione», per usare l'espressione di Röpke, e le «leggi immanenti della produzione», per usare l'espressione di Marx, vale a dire la massimizzazione del profitto, sono in rapporto direttamente proporzionato con la riduzione del salario. E se maggiore è la riduzione dei salari e maggiore è il profitto, se la massimizzazione del profitto si impone al singolo capitalista come una legge coercitiva esterna, allora ne consegue che il costo del fattore lavoro può scendere all'infinito, anche al di sotto di quella soglia necessaria a tenere in vita il lavoratore stesso. Del resto è questo il principio che permette l'esistenza di quello strano fenomeno che sono i working poors, quei lavoratori cioè che, pur lavorando, non hanno introiti tali da poter superare la soglia di povertà. Per dirla in altre parole, se le esigenze del mercato corrispondessero in pieno alle esigenze economiche e sociali di ciascuno cittadino, se i fini della produzione coincidessero con i fini umani il fenomeno dei working poors non dovrebbe aversi.

    Alla luce di ciò non pare eccessivo sostenere che il lavoratore ideale,

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