Sopravvissuto a Mauthausen: La storia di Renato Salvetti
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Info su questo ebook
Alla vigilia di Natale del 1943 fu arrestato insieme ad altri patrioti e, dopo il carcere a Cuneo e poi presso il sesto braccio dei politici alle Nuove di Torino, il 13 marzo del 1944 iniziò il viaggio di deportazione verso il campo di concentramento tedesco di Mauthausen, ove approdò il 17 dello stesso mese. Dopo più di un anno, liberato il campo e terminata la guerra, il 5 maggio del 1945, Renato Salvetti riuscì a uscire dal lager e a percorrere con grande fatica e incredulità il lungo insperato ritorno.
In questo saggio-intervista, Salvetti, ormai novantatreenne, offre al lettore alcuni lucidi sprazzi del suo calvario, facendolo precipitare in un autentico girone infernale. Renato è un testimone prezioso, forse l’ultimo rimasto a gridare l’orrore. Ai giovani ha dedicato tutta la vita che gli è rimasta, ripercorrendo l’efferatezza di una realtà terrificante, per non dimenticare. Ma anche per cogliere il chiarore della speranza, la possibilità di una rinascita, pur avendo subito l’aberrazione; senza arrendersi mai.
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Anteprima del libro
Sopravvissuto a Mauthausen - Anna Raviglione
Anna Raviglione Franca Di Palma
SOPRAVVISSUTO A MAUTHAUSEN
La storia di Renato Salvetti
L’ultimo testimone della provincia di Cuneo, sopravvissuto al campo di concentramento
di Mauthausen.
Argot edizioni
© Argot edizioni
© Andrea Giannasi editore
Lucca, luglio 2018
ISBN 9788899735562
Indice
Introduzione
Presentazione: le impressioni di Anna
Perché è nato questo libro: Franca racconta …
L’8 settembre e il dubbio di Renato: un excursus storico
Renato e la Resistenza
Solo due note storiche sui CLN
Cos’è Mauthausen
Il bombardamento di Dogliani (31 luglio 1944)
Un lungo emozionante incontro
Chiamata alle armi
L’alba dell’odissea
La deportazione: il lungo viaggio
L’ingresso nel girone
La giornata nel campo
La cava e gli scellerati obblighi del campo: fatica e sopportazione
Gli obblighi e i kapò
Parola d’ordine: sopravvivere
, il difficile rapporto con i compagni di sventura
Il lento ritorno
Risvegliarsi dopo l’inferno
Il dovere della memoria
Le riflessioni di Franca
Le conclusioni di Anna
Bibliografia e sitografia
Introduzione
Negli occhi di Renato Salvetti sono rimasti l’orrore e l’obbrobrio dell’esperienza vissuta nel campo di concentramento di Mauthausen.
Non potrà mai più dimenticare quel kapò polacco che, due, tre volte la settimana, prelevava dalle baracche i detenuti per sfogare su di loro le sue voglie bestiali.
Non potrà mai più dimenticare quelle donne, circa seicento, che furono trasportate nel campo per soddisfare le SS, le quali le usavano per poi disfarsi di loro e dei bambini concepiti. Per alcuni di questi piccoli la disgrazia di nascere fu peggiore di quella di essere annientati prima di vedere la luce.
Non potrà più dimenticare il freddo, la fame, le umiliazioni subite, la disumanizzazione.
Il lager è il trionfo della mostruosità. Ancora oggi Renato, con novantatré anni, soffre di incubi notturni ed è rimasto impresso nella sua memoria, in lingua tedesca, il numero 59138; era il numero al quale doveva rispondere due volte al giorno, quando veniva fatto l’appello. Anche lui, come tutti, non aveva più un nome, un cognome, ma solo un numero.
Il lager, oggi, per Renato è ancora presente nella quotidianità, è un ricordo indelebile, che nemmeno l’amore più grande, come quello di sua moglie Angela, ha potuto cancellare dalla sua memoria.
Presentazione: le impressioni di Anna
Una ripida scala di pietra arranca in un palazzo di Dogliani. E’ un edificio antico con l’ingresso dipinto di rosso.
Renato ci accoglie con gli occhi lucidi, il viso robusto e arrossato, poche rughe a segnare i solchi del tempo, i capelli bianchi e le sopracciglia folte e aggrottate, un sorriso fulmineo.
Franca, la mia cara amica ed ex collega, mi aveva parlato di lui qualche tempo prima. Avevo visionato una video-cassetta con una sua intervista risalente agli anni ’80. Sapere di poterlo incontrare di persona per cogliere nuove impressioni mi aveva incuriosita e, per ragioni che poi spiegherò, quasi inquietata.
Avevamo percorso in auto la verde dolcezza delle Langhe, con i suoi colli trapuntati di viti e i borghi addossati sulla cima di mille curve sinuose. I campanili, le case di mattoncini, le linee morbide di Moncalvo, il castello di Barolo, fino al paese di Dogliani, dove lui ci aspettava.
Era stata la terra della lotta partigiana, quella più generosa del Piemonte nell’offrire le anime dell’antifascismo, pagandone i tributi più alti. Una terra soave, ma anche aspra e fiera, fatta di sudore e di schietta filosofia contadina. La terra di Pavese e di Fenoglio, con i suoi paesi addormentati e indomiti.
Con l’amica Franca avevamo discusso a lungo. Parlare di memoria e perlopiù di uno fra gli ultimissimi testimoni del concentrazionismo è sempre un’impresa rischiosa. Si può incorrere nella ripetitività, nel déjà vu
; ma parlare di un testimone straordinario come Renato Salvetti, facendo rivivere il suo inferno a Mauthausen, non ci è parso così inutile.
Seguendo i paesaggi pavesani, arroventati sotto un sole sahariano, non potevo non pensare al mio Renino, anche lui si chiamava Renato, Renato Salza di Biella, il mio secondo papà, reduce delle campagne di Albania e di Russia.{1} La sua testimonianza avevo potuto raccoglierla poco alla volta, con l’ingenua curiosità della mia infanzia. Lui non mi aveva mai voluto svelare i retroscena più raccapriccianti. La sua levità aveva reso possibile un racconto impastato di tenerezza. L’eroismo autentico, ma umile e dimesso, faceva capolino nella semplicità del suo narrare. Renino non si era mai lasciato sopraffare dalla barbarie e serbava intatta la bontà innata del suo animo mite.
Il vecchio video di Salvetti, invece, era stato come una raffica di kalashnikov piombata in un attacco improvviso. C’era tutto il fragore infernale del suo atroce calvario, in una sequenza serrata che lasciava senza fiato.
Renato, questo nuovo
Renato, nella lunga intervista passata era un uomo lucidissimo, quasi gelido, spietato nel descrivere i turpi scenari della sua odissea. Con sguardo imperturbabile, le sue parole, spesso dialettali, scandivano immagini crudeli; come se, appellandolo, ogni minimo dettaglio si condensasse formando un vitreo ghiaccio di nefandezza. A tal punto che, in qualche micro-sequenza, non riuscivo ad ascoltare fino in fondo. Come nei film più truculenti degli ultimi decenni, dove la violenza viene esaltata quasi a dismisura.
Mi apprestavo dunque a conoscere da vicino quel signore ormai novantatreenne, nella solitudine gremita di oggetti e