La fine della guerra
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Nell'oscuro tramonto dell'umanità c'è più di qualche insensato segreto da dover essere ancora svelato e Pedrag e Misha, padre e figlio, affrontano la guerra in modi differenti, ma per ognuno di loro e dei sopravvissuti che ancora popolano la terra, la fine della guerra sarà qualcosa di ben diverso da ciò che avevano sperato.
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Anteprima del libro
La fine della guerra - Carmine Aceto
Carmine Aceto
La fine della guerra
LA FINE DELLA GUERRA
Un racconto di Carmine Aceto
Collana Talk Talk, n. 1
ISBN: 978-88-942544-4-0
Copyright © 2017 Raw Signs studio editoriale
Tutti i diritti riservati
Piazza della Vittoria, 14 - 86100 Campobasso
Italy
email: rawsigns@carmineaceto.com
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Editing a cura di Raw Signs studio editoriale
ISBN: 978-88-942544-4-0
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
Capitolo uno
Misha
Non fu possibile cambiare lo stato delle cose, non quella volta. Arrivammo a bordo di un furgone adattato a mezzo di soccorso e per tutto il tragitto pensammo che i mortai ci avrebbero risucchiati nei loro boati, prim'ancora di capire se quella corsa verso l'ospedale da campo potesse avere un senso.
Il colpo era arrivato dal silenzio. Tutto il mondo stava diventando sera quando il colpo era partito da un fucile di precisione e aveva percorso l'aria per centinaia di metri prima di entrare attraverso una finestra senza vetri e centrare all'addome Pedrag.
Nessuna luce, nessuna scintilla tra proiettile e corpo. Il proiettile era stato accolto, tenuto subito dentro senza permettergli di uscire. Pedrag si era seduto su un comodino e aveva urlato a qualcuno di andare a chiamarmi.
Ero arrivato e c'era sangue da per tutto intorno a lui, ma la vera preoccupazione di Pedrag era il bollitore lasciato acceso da qualche parte, non ricordava dove.
La sua casa era un palazzo disabitato come tanti e lui non si era limitato a abitare in un solo appartamento ma vagava durante il giorno tra le macerie e si spostava da un piano all'altro.
Era il padrone di un numero incommensurabile di pietre e di granelli di polvere. Era un abitante solitario deciso a non pulire nulla del macello che lo circondava perché tutte le energie che aveva le dedicava a viverci.
Gli avevo detto di venire via da quella zona decine di volte, anzi glielo dicevo almeno una volta alla settimana, ma lui non mi ascoltava. Non mi ascoltava mai. Non si affannava a trovare una risposta o a giustificarsi per la sua scelta. Era troppo impegnato a vivere e vivere in una città in guerra è una fatica quasi più insopportabile della morte.
Mettersi in salvo è faticoso e può sempre risultare, comunque tu lo faccia, fatica sprecata.
Ma quella zona era chiusa e invivibile da almeno un anno e lui non era uno stupido, lo sapeva bene. Lo sapeva e aveva deciso di consegnarsi al nemico, questo mi appariva chiaro. Era cosciente di tutto, fino alla fine lo è stato.
Appena il proiettile era penetrato nel suo addome Pedrag aveva lanciato un urlo e dalla porta mezza marcia di un edificio di fronte era sceso in strada un gruppo di persone, gente che lo conosceva, che sapeva di quest'uomo ostinato incapace di dire addio ad un posto solo perché ci aveva vissuto.
La gente che viveva lì era sempre e solo gente di passaggio. Erano persone che sostavano una notte, qualche ora e poi via. La zona non era abitabile cazzo.
Lo sapevano tutti, tutti.
Gli sarebbe bastato spostarsi di un paio di isolati, venire a vivere vicino a dove mi trovavo io da qualche mese, e tutto sarebbe stato diverso, la guerra è ovunque ma si comporta in modo differente con la gente. Non è sempre la stessa, riconosce i deboli e gli indifesi, gli sciocchi e gli immortali e li deride con un colpo all'addome.
Quanto tempo fosse passato tra il colpo e il momento in cui io arrivai nessuno seppe dirmelo.
Il tempo oramai era diventato sempre tanto o poco, non era più fatto di secondi, minuti e ore, ma di attese e speranze, oppure di cose spezzate, non concluse.
Si viveva di fretta e al coperto, lontani dalle traiettorie dei cecchini, e si perdeva ogni giorno il contatto con la strada, con il tempo che ci sarebbe davvero voluto per percorrerla normalmente, per andare a fare la spesa da un posto all'altro o per raggiungere il luogo di lavoro.
Ma erano tutte cose che non c'erano più e con loro stava svanendo anche il tempo.
Pedrag voleva tenerselo stretto quel tempo, per questo non era andato via da lì. Ma stringersi al tempo voleva dire baciare sulla bocca la fine della storia e essere pronti a mostrare il proprio addome a un cecchino che non conosceva il tuo nome, la tua età, il tuo passato, insomma, non conosceva il motivo per il quale eri disposto a farti uccidere da lui senza provare a metterti in salvo.
Sotto gli occhi di una donna dal viso macchiato di grasso da officina e di un giovane che forse la conosceva, così mi parve dal modo in cui le parlava quando chiesi loro di arrivare all'incrocio a cento metri da lì per sparare il razzo di soccorso che potesse farci individuare dai mezzi degli operatori sanitari, cercai di caricarmi sulle spalle Pedrag per portarlo giù in strada e essere pronti all'arrivo del mezzo.
I medici erano gli unici ad avere ancora un lavoro da svolgere, non credo retribuito, ma almeno la mattina si svegliavano sapendo cosa avrebbero dovuto fare per tutta la giornata, il resto di noi, invece, si alzava sperando soltanto di non aver a che fare con i medici almeno per quel giorno.
In guerra diventi invidioso delle disgrazie degli altri, le misuri continuamente con le tue e ti sembra che siano sempre più piccole o più grandi e che nulla sia avvicinabile alla fatica che fai tu ogni ora per restare in vita.
I mezzi di soccorso erano avvolti in una bolla, nessuno gli sparava, nessuno li faceva saltare in aria, a volte ti sembrava quasi che la guerra esistesse solo per renderli intoccabili.
Probabilmente essere un medico ti rendeva immortale, non avevo notizie di medici che fossero stati uccisi o che fossero vittime di un cecchino come era capitato a Pedrag.
La donna e il giovane uomo non furono felici di dovermi aiutare ma lo fecero per semplice calcolo, prima che potessero andar via da quella zona sarebbe passato altro tempo e sarebbe potuto accadere a loro quello che era toccato a Pedrag, per cui raggiungere l'incrocio e sparare il razzo di soccorso era un modo per sperare di salire con me sul mezzo di soccorso e allontanarsi dal quartiere senza ulteriori rischi.
Non era certo che sarebbe andata così ma era una possibilità e non avevano molto altro da giocarsi. Fosse dipeso da me li avrei lasciati a terra a sbrigarsela da soli, mi sembrava da avvoltoi in attesa delle disgrazie degli altri il calcolo che avevo letto nei loro sguardi d'intesa, ma da me dipendeva ben poco in quel momento e in quel mondo.
Il furgone, senza portiere e con il cofano ripiegato su se stesso, comparve non appena la scia del razzo sparato nel cielo si diradò. Mi sembrò un indizio di una straordinaria efficienza, non voglio dire inutile, ma come minimo augurabile per un mondo meno illogico di quello nel quale si stava svolgendo tutto quello.
Caricarono Pedrag su una lettiera sporca e, prim'ancora che lo sistemassero per il viaggio, la donna e il giovane erano già saliti sul furgone e si erano accovacciati in un angolo pronti a sfruttare il colpo di fortuna inaspettato che la sorte gli aveva voluto concedere.
Li avevo guardati con un certo astio fin dall'inizio, del resto era così che ci si guardava tutti, gli uni con gli altri. Eravamo tutti nemici, non aveva senso nascondersi la verità dietro inutili smancerie. Chi aveva voglia di smancerie mentre un mortaio ti sputava addosso?
Non si meritavano quella salvezza costruita sul sangue di Pedrag. Non erano suoi amici, erano capitati lì per caso e il loro unico merito era stato quello di saper sfruttare le coincidenze, ma restava il fatto che il sangue da cui era scaturito tutto era quello di Pedrag.
Il sangue di Pedrag era anche il mio, per me era diverso da loro. Non ero capitato lì per caso. Il sangue che li stava portando in salvo era quello di mio padre.
Non riuscii a interpretare lo sguardo dei medici mentre prestavano a Pedrag i primi soccorsi. Non sembravano preoccupati ma nemmeno provarono a dire qualcosa di vagamente rassicurante. Davano l'impressione di aspettare anche loro di vedere come andava a finire.
Quando la nostra corsa si fermò e arrivammo all'ospedale da campo, i due viaggiatori, il giovane e la donna, sgusciarono fuori senza un saluto e si dileguarono nella confusione. Non cercai di capire in che direzione fossero andati, non ci si rivedeva in genere dopo la prima volta, se capitava era un brutto segno. Significava che qualcosa invece di andare avanti aveva trovato un ostacolo e gli ostacoli che non si potevano saltare andavano eliminati in altro modo.
Forse Pedrag era stato un ostacolo per qualcuno. Pedrag di sicuro non si sarebbe fatto saltare o aggirare, piuttosto si sarebbe fatto uccidere. La morte era un po' più di un'uscita di emergenza per lui. Era un finale di partita, degno e irrinunciabile, ma anche doloroso come ogni cosa della vita sulla quale non hai modo di influire con il tuo volere e con la tua volontà.
Quel dolore gli contraeva la bocca, lo sfiniva e non gli permetteva di illudersi né quel giorno né mai prima d'allora.
A ben vedere la disillusione non era servita a Pedrag per scamparla, quindi non era servita a nulla, perché l'unica cosa che contava e che conta è essere vivi, restare vivi, non morire. Se muori, non serve più altro.
È assurdo che qualcuno continui a vivere in quella zona della città. Sono rimasti solo i cecchini lì a spararsi tra di loro.
disse l'autista del mezzo di soccorso mentre spegneva il motore.
Mi senti? Resta sveglio e guardami. Guardami, mi riconosci?
dissi a Pedrag tenendogli la mano mentre lo adagiavano su una tavolone di marmo freddo, all'interno di una stanza con le pareti crollate per metà.
Si che ti riconosco.
Chi sono?
Ti ho detto che ti riconosco falla finita.
E cosa ti ricordi di quello che è accaduto? Cosa ti ricordi del tempo che è passato prima che io arrivassi al tuo palazzo?
Mi ricordo che ho pensato che saresti arrivato subito, che non potevi essere lontano a quell'ora del giorno, ero certo che, come ti capita al solito per tutte le cose inutili di questo mondo, tu sei sempre a portata di mano.
mi disse provando a ridere, ma il dolore che sentiva era troppo forte e le sue parole erano più vere di quanto non avesse voluto farmi credere.
Gli spari da lì sembravano più lontani. La sera era scesa e le luci che la squarciavano erano fiammate sulle colline o esplosioni che accadevano nel centro della città. Soffiava un vento forte e silenzioso, una girandola di fiato che alzava i drappi delle tende sistemate tutt'intorno al rudere dove avevano lasciato me e Pedrag in attesa.
C'è tanta gente che muore intorno a noi e ce ne accorgiamo solo quando stiamo per morire anche noi e anche allora ce ne accorgiamo unicamente perché ci stanno soffiando il posto in fila.
Saremmo disposti a morire per primi pur di essere i primi della lista. Non c'è salvezza quando le cose iniziano a funzionare così e al mondo oramai tutto funzionava così, soprattutto noi esseri umani.
Ce la facciamo anche questa volta, mi credi?
Conta poco quello in cui credo in questo momento.
mi rispose Pedrag senza accenni di rancore.
Fai quello che ti dico per una volta almeno dammi retta.
Perché tu sei un medico?
Sono quello che hai mandato a chiamare quando ti hanno colpito, ti pare poco?
Mi pare meno di quello che pensavo mi sarebbe toccato in sorte quando alla tua età immaginavo come sarebbe stato l'ultimo istante.
Non è l'ultimo istante.
Non puoi saperlo, perché devi dirlo? Parla delle cose che conosci e che ti capitano, non parlare di me.
Mi hai mandato a chiamare solo per farti accompagnare qui fisicamente allora, non per altro?
Ho fatto il tuo nome e ti hanno trovato, non ti ho mandato a chiamare. Ho fatto il tuo nome e tu eri a portata di mano per chi lo ha sentito. Te l'ho detto, tu sei facile da rintracciare per la gente.
Tu sei stato facile da colpire, invece.
Anche questo non puoi saperlo. Non hai idea di quante volte quel cecchino ha provato a centrarmi. Non sai nulla dei colpi che ha sparato fino a oggi. Colpi sprecati per me. Purtroppo in guerra si vince anche con mille errori e un solo colpo andato a bersaglio. La guerra è incoerente come chi la combatte.
La guerra uccide anche chi non la combatte.
Allora stai ammettendo che sto morendo.
Era sempre stato così tra noi, uno dei due doveva trovare il modo di rendere ridicolo l'altro, qualunque cosa ci fosse in gioco, ne valeva sempre la pena. Ma quello che ci dicevamo non era solo uno scontro dialettico, una schermaglia verbale, era la verità, la parte vera di noi stessi che concedevamo all'altro.
Detta così sembrerebbe anche una cosa onesta, ma il suono che facevano in ognuno di noi le parole che gli riservava l'altro, erano un tonfo sordo, senza eco, e non era piacevole tenerselo dentro.
Quando finalmente arrivarono due dottori a interromperci, i nostri risentimenti reciproci avevano già fatto il loro corso e la speranza che tutto si concludesse nel modo migliore, con la salvezza, apparve un'ambizione spropositata per il tipo di vite che ci ritrovavamo a interpretare.
Mi venne chiesto di allontanarmi e di restare ad aspettare oltre la tenda che penzolava appesa tra due mozziconi di mura. Era quella la linea di separazione istituita tra la conoscenza del futuro e l'incertezza del presente. Non bastava sbirciare di nascosto dall'altra parte per capire cosa sarebbe accaduto, come sarebbe andata avanti la vita, no. Ci voleva uno capace di interpretare, ci voleva un mago oppure un medico e in certi tempi andati erano più o meno la stessa persona, ma non nel tempo in cui eravamo.
Il mondo aveva svoltato secoli addietro per la via della scienza e