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E-book426 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Autrice bestseller pluripremiata

Noah Ryan e Jules Doucette stanno insieme da sempre, prima come migliori amici di infanzia, poi come giovani amanti. Hanno programmato tutto il loro futuro, ma un’incredibile decisione finisce per separarli. 
Ventisei anni dopo, Jules sta vivendo la vita che qualcun altro ha pensato per lei. Gestisce il negozio di sua madre, vive in casa sua, segue le sue regole e tiene i segreti che lei le ha fatto seppellire. 
Poi Noah torna a casa, e porta il caos. Il suo ritorno fa molto di più che risvegliare vecchi ricordi: costringe anche Jules a guardare la sua vita con occhi nuovi e scoprire segreti di cui non sospettava l’esistenza. Ma il potere del vero amore può trionfare su anni di dolore e bugie?
Sharla Lovelace
è autrice bestseller pluripremiata di cinque romanzi e dell’eccitante serie Heart of the Storm, in cui racconta storie sexy e romantiche con calore e umorismo. Vive in Texas con il marito e due cani.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854196926
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    Anteprima del libro

    Non andare via - Sharla Lovelace

    Capitolo 1

    Adoro il rosso. È il mio colore preferito in assoluto.

    Ho una macchina rossa, una caffettiera rossa; qualche volta ho persino indossato una borsetta rossa, e in salotto ho una parete decorativa rosso scuro. L’ho dipinta così in parte per farmi un regalo quando io e mia figlia ci siamo trasferite nella vecchia casa di mia madre, e in parte per farle un grosso dispetto, perché mia madre odiava il rosso, e così ho preso due piccioni con una fava.

    In certi periodi dell’anno, tuttavia, questo colore mi mette a disagio.

    A fine gennaio, per esempio.

    Gennaio, in effetti, è un mese morto. Sempre la solita tiritera: la fine delle vacanze natalizie, la gente che torna al lavoro, costretta a fare i doppi turni per estinguere i debiti accumulati con le carte di credito. I buoni propositi per l’anno nuovo che di solito falliscono dopo poche settimane. C’è solo freddo. E umidità.

    In Texas, è raro che il freddo umido si tinga di bianco. Il cielo è sempre grigio. Infatti, ho visto la neve soltanto quattro volte nella mia vita. Una quando mia figlia era in prima media e chiusero tutte le scuole a causa di quel filo di bianco che si era posato. I bambini si lanciavano le palle di neve nel parco giochi e gli studenti più grandi avevano organizzato una vera e propria battaglia nel campo di calcio. Ne parlarono persino i notiziari locali, e non erano nemmeno dieci centimetri di neve.

    La maggior parte dei miei inverni sono stati una desolante alternanza di pioggia, gelo e nebbia, con qualche ingannevole bella giornata in cui la gente decideva di festeggiare il carnevale, ritenendola un’idea grandiosa.

    Il carnevale a Copper Falls è un putiferio: tutto viene tinto di rosso in onore della gara culinaria di chili con carne, e di bianco per l’assurda parata con i costumi da fiocco di neve. Non c’è altro da dire.

    Tutti perdono la testa per questa baraonda. Costruiscono i carri allegorici per la parata, seguita dai giri sulla giostra nella pioggia gelata che trasformerà in poltiglia le creazioni di cartapesta e sapone. Ogni anno la stessa storia.

    Tutti, eccetto me e la mia nonnina, Mae: entrambe pensiamo che questa festa con la sfilata dei fiocchi di neve in una città a due passi dal Golfo del Messico sia proprio una stupidaggine. Tranne la gara di chili con carne. Quella è proprio una bella iniziativa, e Georgette Pruitt, la fiorista, di solito prepara il piatto migliore, se si ignora lo sfavillante cappello a forma di fiocco di neve che si ostina a indossare.

    Ma non si tratta neppure di questo. Non sono soltanto il freddo, il nevischio appiccicoso e la gente che impazzisce per una stupida festa che, di fatto, non significa nulla. Non è nemmeno perché tutti gli anni devo assistere ai miei vicini diversamente intelligenti che discutono se il chili con la carne di cervo sia più gustoso di quello con il manzo, o che cercano di superarsi l’un l’altro con mille modi diversi di creare un fiocco di neve per i loro carri. No, per me questo è solo un altro modo di sentire freddo.

    Ho un motivo molto personale per starmene in disparte quando si festeggia il carnevale. Gli eventi pacchiani, le luci, la musica, i volantini rossi appesi a ogni palo; l’odore del chili, dei biscotti e delle candele artigianali; e le settimane precedenti in cui non si parla d’altro. Questi sono semplicemente segnali. Grandi e fastidiosi cartelli appesi davanti alla mia faccia per ricordarmi proprio quel motivo.

    E poi, quest’anno, non è solo la preparazione del carnevale a sembrarmi diversa. Sono io che mi sento strana.

    Avrei dovuto prendermi un po’ di ferie dal lavoro in libreria per leggere o mettere in ordine o svuotare gli armadi per la grande vendita comunitaria in garage, uno degli eventi del carnevale. Fare qualcosa di stupido che non richiedesse attenzione o coordinazione tra mani e occhi. Avrei dovuto ma, come al solito, non l’ho fatto. E i miei nervi hanno ceduto.

    Quella mattina era cominciata male. Come quando ti svegliano di soprassalto da un bel riposino pomeridiano. È una cosa che ti scombussola un po’, anche quando non è causata da vicini troppo zelanti. Feci schioccare le dita e ruotai il collo, cercando di schiarirmi la testa annebbiata.

    Bam… bam… bam-bam…

    Strinsi i denti mentre il muro alle mie spalle vibrava, e risposi con una forte gomitata. Seguì un altro colpo, un rumore che mi ricordava quello di un bastone battuto sulle pareti sottili che separavano la libreria dalla tavola calda della porta accanto. Un bastone di cedro, per la precisione. Con l’impugnatura a testa d’anatra. Sentii i battiti nelle orecchie e feci un respiro profondo per calmarmi.

    La mia saggia nonna cajun diceva sempre: «Nascondi la tua pazzia, ragazza mia. A nessuno piace vedere certe cose».

    La nonna morì di infarto a sessantadue anni. L’altra mia nonna, Mae, che non è di etnia cajun né particolarmente saggia, campa ancora ed è bella arzilla all’età di ottantacinque anni: perché ha sfogato la sua pazzia, così sostiene.

    Mentre facevo ruotare la testa avanti e indietro, sentendola schioccare per la tensione accumulata, cominciai a pensare che la scelta più intelligente fosse quella di nonna Mae. Trattenere la mia linguaccia da ragazza del Sud e continuare a sorridere di fronte ai drammi di un’adolescente lunatica e alle bizze quotidiane del vecchio della porta accanto, un vero e proprio Scrooge dickensiano, non sembrava affatto una buona ricetta per la longevità. Per non parlare della gente che dava un’importanza esagerata alla logistica dei carri di cartapesta. Forse mi conveniva dar sfogo a un po’ di pazzia.

    Bam… bam…

    «Basta!», urlai tra i denti, verso il muro.

    Un’anziana signora con un tailleur rosa che ricordava un flacone di ammorbidente mi squadrò con disapprovazione dalla poltrona su cui era seduta a leggere un romanzetto d’amore.

    Incredibile. Non le dava fastidio tutto quel frastuono?

    «Mi scusi, signora Chatalain», mormorai in tono sommesso, tornando a sorridere e ricacciando indietro la pazzia.

    Il mio stomaco gorgogliò, ricordandomi che era giunta l’ora di pranzo ma avevo dimenticato a casa gli avanzi. Mi massaggiai le tempie, che mi pulsavano sin da quando mi ero svegliata. C’era qualcosa che mi rendeva nervosa. Per me è sempre stato il periodo peggiore dell’anno, perciò me lo aspettavo. Non ero sorpresa. Eppure, c’era qualcosa di diverso.

    «Che ti prende oggi?», chiese una voce alla mia sinistra. Ruthie, la mia collega, arrivò dal retro del negozio con il suo basco nero e le mani infilate nelle tasche di un lungo maglione nero e aderente che le conferiva un’aria molto bohémien. Essendo di corporatura minuta, sembrava nuotarci dentro.

    Scossi la testa. Non se lo ricorda, pensai. L’ha dimenticato, ma va bene così. La gente ha bisogno di essere normale, ogni tanto.

    «Johnny Mack e il suo stupido bastone», dissi sottovoce, indicando il muro. «Non abbiamo acceso lo stereo nemmeno per un minuto oggi».

    Ruthie ridacchiò. «Si diverte così, Jules», spiegò facendomi l’occhiolino, poi qualcos’altro attirò la sua attenzione. «Oh, guarda un po’ chi c’è».

    Seguii il suo sguardo verso la vetrina, decorata con la neve spray, di fianco all’ingresso della libreria: s’intravedeva una ragazza con un taglio di capelli molto asimmetrico.

    «Dannazione», borbottai.

    Il campanello suonò quando l’adolescente aprì la porta. Mi accorsi che la signora Chatalain scrutava con un’espressione severa gli occhi imbrattati di eyeliner della ragazza, i capelli neri e lucidi più lunghi da una parte che dall’altra, e la maglietta blu con la scritta: Tu ridi perché sono diversa. Io rido perché sei come gli altri.

    «Ehi», disse entrando, con le labbra piegate in un sorriso accattivante che le illuminava il viso e spazzava via la maschera di indifferenza che si impegnava tanto a mantenere.

    «Che è successo?», chiesi, alzandomi.

    Lei aggrottò la fronte e scrollò le spalle; lo zainetto nero e logoro seguì il movimento. «Niente. Perché?».

    «Come mai non sei a scuola?», domandai.

    Lei indicò l’enorme orologio dall’altra parte della strada, che stava facendo tremare i vetri con i suoi rintocchi delle undici.

    «È ora di pranzo», rispose.

    Chiusi gli occhi e contai i motivi per cui le volevo bene, mentre la penna mi sfuggiva di mano, cadeva sul bancone della cassa e poi, con un balzo, finiva per terra.

    «E la scuola, Bec?».

    Fece una smorfia di disgusto. «Oggi in mensa c’era il gumbo»¹, spiegò. «Non lo sanno cucinare. Non è mica buono come quello che fa nonna Mae».

    «Scusa, e quello che preparo io?», s’intromise Ruthie, inclinando la testa e fingendosi offesa.

    Becca sorrise. «Te la cavi, zia Ruthie». Inclinò la testa allo stesso modo. «Anche se mi piace molto quando ci aggiungi l’insalata di patate».

    «Grazie», disse Ruthie con un piccolo inchino.

    Allargai le dita sul piano di granito, lasciando che assorbissero il freddo del marmo. Probabilmente mi avrebbe fatto bene premervi sopra il petto. O andare a infilare la testa nel congelatore della sala ristoro. «Devi smetterla di uscire quando ti pare, Bec. Non è una scuola a frequenza libera. Sono stanca di chiamare…».

    «Va bene, va bene, ho capito», si arrese lei, alzando le mani. Notai che aveva un nuovo disegno, fatto con il pennarello nero, all’interno del polso sinistro. Tipico. «Comunque non stavamo facendo niente di interessante».

    «Questo è irrilevante per la legge, ragazzina».

    Lei spalancò gli occhi verso Ruthie, commentando con lo sguardo l’assurdità delle mie pretese. «Ho capito. Ma io sono qui adesso, quindi che ne dite di accompagnarmi alla porta accanto?».

    Fece un sorriso sdolcinato, talmente finto da farmi saltare i nervi.

    Ruthie sghignazzò, mentre io scuotevo la testa. «Ragazzina, potresti essere figlia mia. Sei stata con me troppo a lungo», commentò, aggirando il bancone per mettere un braccio intorno al collo di Becca.

    Era vero. Ruthie le aveva fatto da zia sin da quando Becca era nata, ed era la mia migliore amica dai tempi dell’asilo. Avevamo condiviso tutto. Tutto. E già da piccole davamo una mano in libreria quando era mia madre a gestire l’attività.

    «Devo ammettere che mi piace molto il tuo nuovo taglio», osservò Ruthie, passandole le dita tra i capelli, che erano tagliati all’altezza del mento da un lato e scendevano oltre le spalle dall’altro. «Non ne ero così convinta quando tua madre me ne ha parlato, ma ti sta davvero bene».

    Becca rispose con un sorriso smagliante e mi guardò sbattendo le ciglia. «Grazie!».

    Sorrisi, assecondandole. «Siete pronte?»

    «Devo andare in bagno prima», replicò Becca, lasciando cadere a terra lo zaino. «Quello della tavola calda fa un po’ schifo».

    Sospirai chinandomi a raccogliere il suo zaino. «Perché non andate voi due, e mi portate qualcosa?», chiesi a Ruthie, indicando la nostra unica cliente.

    «No, rimango io», si offrì lei, sedendosi sullo sgabello e guardandomi con un ampio sorriso. «Mi sono portata l’insalata di pollo». Scoppiando a ridere per la mia espressione sconsolata, continuò: «Va’ a cantargliene quattro».

    Come se quel vecchio antipatico l’avesse sentita, tre brevi colpi risuonarono attraverso il muro. Sogghignai e le rivolsi uno sguardo d’intesa. «Non mi sembra un buon momento».

    Lei aggrottò la fronte. «Perché… ah». La sua espressione cambiò e il suo sguardo si fece distante mentre si univa a me nel viaggio tra i ricordi. «Hai ragione. Ecco perché sei strana da un po’ di giorni». Lanciò un’occhiataccia verso il muro. «Probabilmente non se ne ricorda nemmeno».

    Mi leccai le labbra. «Se ne ricorda. Subito dopo Capodanno, diventa più idiota del solito». Distolsi lo sguardo e andai dietro la cassa a cercare la mia borsetta, non quella rossa. «Forse gli rovescerò il mio piatto in testa».

    «Be’, se senti l’urgenza di farlo, mandami prima un messaggio», rispose lei. «Verrò di corsa ad assistere alla scena».

    Risi e, allo stesso tempo, tremai per un brivido involontario. Ruthie mi guardò con gli occhi socchiusi.

    «Hai altro da dirmi?»

    «Non credo». Ruthie mi leggeva nella mente come una dannata sensitiva. Mi conosceva fin troppo bene e sapevo cosa voleva insinuare.

    «C’è sotto dell’altro», insistette, socchiudendo gli occhi scuri: erano due fessure nel volto pallido. «Mi sembri molto nervosa».

    Sbuffai. «Non sono nervosa».

    «Sei nervosa».

    «È per i fiocchi di neve», mormorai.

    Scosse la testa. «Non è per i fiocchi di neve. Riconosco il nervosismo da fiocchi di neve».

    Sbuffai di nuovo e le lanciai un’occhiataccia, ma ovviamente fu inutile. Ruthie era impermeabile ai miei tentativi di fare la dura.

    «Se lo dici tu», mormorai, distogliendo lo sguardo. «Ho solo passato una nottataccia».

    «Hai mangiato di nuovo sushi?», chiese Ruthie.

    Sogghignai mentre mi passavo una mano tra i capelli, tirandoli indietro. «No», risposi, guardando verso il bagno, per controllare che non arrivasse Becca. «È solo che… ci ho messo molto ad addormentarmi, e quando infine ci sono riuscita… ho sognato Noah». La mia amica spalancò un po’ gli occhi, poi incrociò le braccia e fece un sorrisetto allusivo che mi divertì intimamente. «Bel tentativo, Ruthie. Non bleffare».

    Lei ignorò il mio commento sarcastico. «Fammi capire, era una cosa del tipo: Ehi, guardami, sono Noah, uno stronzo che si trova a passare da questo sogno per caso, oppure, ehm… un sogno?», chiese.

    Presi la penna, la feci cadere di nuovo, e mi chinai a raccoglierla con entrambe le mani. «Non quel tipo di sogno», replicai, imitando il suo tono enfatico. «Era solo uno di quei…». Sentii un improvviso prurito alla faccia e mi grattai. «Forse è solo perché sta arrivando quel periodo. Il mio cervello lo rende più difficile di quanto sia realmente».

    Mi sforzai di sorridere quando vidi arrivare Becca con un’andatura da regina.

    «Che c’è?», chiese.

    Scossi la testa. «Sei pronta?»

    «Sì, sto morendo di fame, andiamo», rispose Bec.

    Sospirai. «Oh, sì, andiamo».

    «Non strapazzare troppo Johnny Mack!», gridò Ruthie, sorridendo alla signora Chatalain e afferrando alcune buste che avrei dovuto affrancare e spedire.

    Il nuovo taglio di Bec mi ondeggiava davanti mentre uscivamo nel freddo della strada: le stava proprio bene, dovevo ammetterlo. Peccato per lei che avessi visto il furgone di suo padre parcheggiato di fronte alla tavola calda: probabilmente sarebbe scoppiata una lite, proprio a causa di quei capelli bizzarri.

    Era molto strano che Hayden fosse lì, dato che Johnny Mack Ryan non era nemmeno nella sua lista dei preferiti e, conoscendolo, non sarebbe mai andato alla tavola calda di proposito. Johnny Mack Ryan nutriva un odio sconfinato nei miei confronti, e siccome avevo sposato Hayden tre anni dopo che suo figlio Noah si era arruolato in Marina giurando di non tornare mai più, quell’astio feroce – per associazione – era ricaduto anche su quello che era stato mio marito.

    Mia figlia non era esclusa, ma per motivi differenti.

    Sentii l’odore delizioso ancora prima di aprire la massiccia porta di legno e mi venne subito l’acquolina in bocca non appena varcai la soglia. Peccato che quel profumino non oltrepassasse mai il muro per giungere da noi in libreria, a differenza della musica fantasma che il vecchio sosteneva di sentire, e spesso.

    Dall’altra parte della strada, l’orologio della torre all’interno del vecchio tribunale scoccò l’ora, facendo vibrare il pavimento con i suoi rintocchi. La tavola calda non era molto piena, ma erano appena le undici. L’ondata degli impiegati del tribunale non sarebbe arrivata prima di mezzogiorno, e gli operai invece, impegnati perennemente con i lavori di costruzione giù al fiume, si sarebbero fatti vivi verso l’una meno un quarto. Poi il traffico dei clienti sarebbe ripreso alle cinque, per la cena. Johnny Mack faceva affari d’oro, nonostante il suo carattere acido. Grazie alla figlia Linny, i clienti tendevano a ignorare i borbottii, l’insolenza e le lamentele del vecchio cuoco, perché lei li accontentava sempre e loro erano ben felici di spendere i propri soldi per le ottime pietanze di quel locale.

    Be’, io facevo eccezione. Per me era un po’ più difficile passarci sopra. Forse perché il livore nei miei confronti non era semplicemente la stizza di un vecchio. Perché in passato, quel vecchio mi aveva amato come una figlia. Perché era un fatto personale.

    Quando passammo davanti al bancone, Linny ci fece l’occhiolino e Becca batté forte sulla superficie. «Ehi, signor Ryan», chiamò.

    Lo vidi che scuoteva la testa, senza nemmeno alzare lo sguardo dal cibo che stava preparando mentre borbottava qualcosa tra sé.

    «Ci sono i gamberi, oggi?», continuò Becca, e io non riuscii a trattenere un sorriso. A lei non importava di stargli antipatica: non ne conosceva nemmeno il motivo, ma si divertiva un mondo a punzecchiarlo.

    «Vai a sederti o sparisci», rispose lui con voce roca e monotona, ma priva dalla solita acrimonia. «Bada a come ti comporti».

    «Becca si comporta benissimo», ribatté Linny. «Ma sa riconoscere un vecchio scontroso quando ne vede uno». Scosse la testa e mi guardò, alzando gli occhi al cielo. «Hai ordinato qualcosa da portar via, tesoro?».

    Sarebbe stata un’ottima idea. «No». Indicai alcuni tavoli vuoti. «Ci sediamo». Di sicuro non avevo intenzione di sedermi al bancone e beccarmi le occhiate torve del vecchio. Cercai un tavolo vicino alla finestra, ma erano tutti occupati.

    A uno vidi Hayden, con la testa china su una pila di fogli, in compagnia di una donna bella ed elegante. Un pranzo di lavoro. O forse il preludio di qualcos’altro? Non ci aveva visto, quindi evitai di sbracciarmi per richiamare la sua attenzione.

    «Qui va bene», annunciò Becca, scegliendo un tavolo da quattro e lasciando lo zaino su una delle sedie in più.

    Era più vicino a Johnny Mack di quanto avrei voluto, ma ricordai a me stessa che era arrivato il momento di superare quella storia. Di solito, riuscivo a ignorarlo. Erano passati ventisei anni. Per più di due decenni avevo vissuto nella stessa città, lavorato alla porta accanto, sopportato le sue bizze. Di solito non sentivo un bisogno così intenso di stargli alla larga. Forse era colpa del sogno; forse erano gli ormoni. Qualunque fosse il motivo, avevo la pelle d’oca.

    «Uff», mormorai, grattandomi il collo e le braccia.

    «Che c’è?», chiese Becca, alzando lo sguardo dal menu plastificato.

    Scossi la testa. «Niente, tesoro. Sono un po’ stranita oggi».

    «Tu sei stranita tutti i giorni», replicò, studiando il menu come se fosse il suo ultimo pasto. «L’ultima volta ho preso il panino con i gamberi fritti ed era buono da morire».

    Presi un menu dal supporto, alloggiato tra il porta-tovaglioli e i condimenti, e cominciai a leggerlo pur non avendone bisogno. Sospirai notando i tovaglioli rossi accanto al sale e pepe. Linny aveva già cominciato. Anche Ruthie avrebbe presto addobbato il negozio di rosso. La neve spray sulle vetrine non le sarebbe bastata. «Prendo il piatto del giorno, come sempre. Penso che oggi ci siano le tartine di tacchino con il purè di patate».

    «Che piatto banale».

    «Non quello che fa lui», obiettai. «È buonissimo».

    «Anche se lo odi, quel vecchio». Pronunciò quella frase in tono completamente neutro, come se stesse parlando del tempo.

    La guardai. «Non lo odio. È solo che…».

    «Non vi potete vedere, lo so», annuì lei, annoiata. «Prendiamo anche il dolce?»

    «Niente dolce a pranzo, Bec, lo sai», risposi. «Quei gamberi fritti sono già abbastanza pesanti, non riuscirai a stare sveglia in classe».

    Lei aveva cominciato a sbuffare prima ancora che avessi terminato la frase.

    «Mi spiace», mormorai. «Stasera puoi prendere uno yogurt».

    «Yogurt», borbottò. «Possiamo almeno prendere un gelato vero, una volta tanto?».

    Mi arresi: era di cattivo umore, e non potevo dire niente per farla felice, così decisi di mantenere la pace. Che fosse suo padre a impuntarsi su ogni battaglia. Io selezionavo le mie: ne andava della mia sanità mentale.

    Si morse il labbro superiore per un secondo e chiuse il menu, richiamando la mia attenzione.

    «Qualcosa non va, Bec?», domandai, chiudendo anche il mio.

    Vedevo le sue rotelle girare. Stava rimuginando qualcosa. Aveva un desiderio, una richiesta o una rivelazione sconvolgente da farmi. Non mi piaceva.

    «Ehi, ragazze».

    Mi girai a quella voce familiare e soffocai un miscuglio di gioia e irritazione. Specialmente quando vidi Becca alzare al cielo gli occhi truccati di nero. Accidenti, proprio quando stava per sputare il rospo!

    «Ciao, Patrick», lo salutai, dandogli qualche pacca sulla mano che mi aveva posato sulla spalla. Un po’ troppo possessivo. Gli diedi un’altra pacca per suggerirgli di toglierla. Avevo già i nervi a fior di pelle. «Non stavi lavorando in quel cantiere a Torrence?»

    «Dobbiamo tardare di qualche giorno, per un problema con i permessi e altre stronzate». Si fermò di colpo e scrutò Becca, toccandole le spalle. «Scusa, volevo dire scartoffie».

    Lei lo osservò: era grande e grosso, con quella mise trasandata da motociclista che gli dava un’aria fica, a suo modo; infine Becca gli sorrise tollerante, poi alzò le sopracciglia e tornò a leggere il menu. Aveva già incontrato Patrick un paio di volte. Una volta in libreria, dove spiccava tanto era fuori posto. E poi c’era stato un incontro imbarazzante a casa nostra, quando Becca era rincasata prima da una serata con gli amici e ci aveva visto scendere le scale tutti scompigliati, con i vestiti indossati alla rinfusa.

    Annuii e lanciai, mio malgrado, una fuggevole occhiata al tavolo di Hayden, sperando che non ci avesse notato. In realtà non me ne importava: avevamo divorziato da ormai quasi sette anni, ma lui era il tipo da fare commenti apparentemente innocui che però lasciavano il segno. Era ancora chino sui fogli a conversare con quella donna. Chissà di cosa si trattava.

    «Stasera, che ne dici di andare a prendere un boccone e rilassarci un po’?», mi propose Patrick, strizzandomi di nuovo la spalla. «O domani?».

    Sapevo cosa intendeva per rilassarci e, indugiando sul ricordo del suo corpo scolpito da anni di lavoro nei cantieri, provai un certo formicolio al ventre.

    «Stasera no», rispose Becca, posando il menu. «Devo studiare per un esame. Vedo se trovo qualcosa da fare per togliermi dalle balle domani».

    Persino il mellifluo Patrick restò senza parole, e io arrossii fino alla punta dei capelli.

    «Ti chiamo io», si affrettò a dire. «Buon appetito».

    Fissai mia figlia mentre Patrick afferrava il cestino del pranzo e sfrecciava fuori dal locale.

    «Becca», esordii. «È stato…».

    «Imbarazzante?», finì lei, annuendo con un sorriso sarcastico. «Hai proprio ragione».

    Mi massaggiai la faccia, chiedendomi se non fosse il caso di tornare a casa e finirla lì. «Non avevi affermato che non avevi niente da fare? E da quando ti metti a studiare per un esame?»

    «Da quando vorrei guardare la tivù senza dover sentire mia madre che si scopa Mr. Muscolo nella stanza accanto».

    «Becca!».

    L’avevo detto a voce alta. Troppo alta, e avevo attirato l’attenzione generale, Hayden incluso. Mai in vita mia mi ero sentita così mortificata.

    «Scusa, era tanto per dire», borbottò Becca, avendo la decenza di arrossire anche lei.

    «Bellezze, come va?», ci salutò Linny, arrivando sorridente al nostro tavolo con il girovita abbondante che le tendeva il grembiule, e ci fece l’occhiolino. «Tutto okay?», aggiunse a voce più bassa.

    «Sì», risposi, continuando a guardare mia figlia con un’espressione furiosa. «Becca ha solo dimenticato le buone maniere per un istante».

    Becca evitava di guardarmi, non sapendo dove posare lo sguardo, poi sorrise a Linny. «Vorrei una Coca-cola con tanto ghiaccio e un panino con i gamberetti. E le patatine fritte», aggiunse, continuando a evitarmi.

    «Bene», disse Linny, limitandosi a farle l’occhiolino, senza annotare nulla. Poi guardò me. «E tu?»

    «Io prendo il piatto del giorno. E… ah, Linny?», aggiunsi, quando lei annuì e fece cenno di andare. «Per favore, puoi dire a tuo padre di smetterla di battere il bastone sul muro? Ti posso giurare su qualsiasi cosa che non accendiamo mai la musica», spiegai in tono gentile.

    Linny scoppiò a ridere e si asciugò le mani sul grembiule. «Glielo ripeto in continuazione che io non sento nulla, ma non mi dà mica retta». Mi diede un colpetto con un dito. «Ma non ti sei accorta di nulla, oggi? È quasi di buon umore».

    Ci girammo entrambe a guardare Johnny Mack che sorrideva ai clienti: la sensazione che provavo sin dal mattino mi avvolse come una coperta gelata, facendomi di nuovo rabbrividire.

    Perché era felice? E perché mi faceva sentire come un animale in gabbia? Avevo la brutta sensazione che quella particolare forma di pazzia andasse tenuta sotto chiave. La nonna aveva ragione: a nessuno piace vedere certe cose.

    ¹ Il gumbo è una pietanza composta da uno stufato a base di frutti di mare, oppure carni o insaccati tipici della cucina cajun, accompagnato da riso. Il nome deriva dalla parola bantu che indica l’ocra, ingrediente caratteristico. (n.d.t.)

    Capitolo 2

    Johnny Mack sorrideva, raggiante. E se avevo imparato una cosa, da quando suo figlio aveva lasciato il paese più di vent’anni prima, era che bisognava stare in guardia. Stava chiacchierando con un cliente, la solita espressione di disgusto rimpiazzata da… interesse?

    «Insomma, è il solito brontolone, ma oggi si sta comportando bene con la gente», mi riferì Linny.

    Cercai di liberarmi dal peso che mi sentivo addosso. «Che gli prende?», chiesi, aggrottando la fronte.

    Lei alzò le spalle. «Non ne ho idea. Continua a dirmi di guardare la porta. Non so cosa diavolo debba succedere a quella porta, ma se questo lo fa sorridere, sto al gioco».

    «Come va, Linny?», domandò una voce alla mia destra, riportandomi al mondo reale. Becca fece una smorfia.

    Mentre Hayden prendeva una sedia, mi guardai intorno in cerca della bella signora elegante, ma era sparita.

    «Un altro giorno in paradiso», rispose Linny, facendogli l’occhiolino.

    «Parteciperai di nuovo alla gara di chili?», domandò lui. «Sai che il tuo resta sempre il mio preferito».

    Linny arrossì e si allontanò ridacchiando. Hayden aveva quel potere. Gli bastava un sorriso per far balbettare una donna come una stupida. Non che fosse il tipo sexy da copertina di «GQ». No, per niente. Si vestiva con stile, ma era sempre un po’ in disordine, come se avesse bisogno di un piccolo aiuto per sistemare la cravatta. O la camicia. O la cintura. Non era il tipo che ti attizzava al primo sguardo, ma poteva averti dopo cinque minuti di conversazione. Penso che con me, ventitré anni fa, gli fossero bastati un ciao e un ballo lento. Ma all’epoca, come aveva sottolineato Becca, ero una preda facile.

    «Ma certo, unisciti a noi», dissi con sarcasmo, sporgendomi sul tavolo e scacciando quel pensiero. D’un tratto sentii che quella giornata sarebbe finita con una crisi di nervi.

    «Ehi, pulce», fece lui, ignorando la mia battuta e concentrandosi su Becca.

    «Ehilà», rispose lei, con il suo sorriso sghembo.

    «Cosa è successo, la tua parrucchiera è dovuta scappare per un’emergenza in famiglia?».

    Il sorriso di Becca si incrinò, e a me venne voglia di lanciargli in faccia le bustine di dolcificante.

    «Già, proprio così», disse Becca, guardandolo negli occhi. «Quindi abbiamo pagato solo per metà taglio».

    Hayden annuì, forse pensando che per una volta non valeva la pena di litigare. «E a te sta bene?», chiese, voltandosi verso di me.

    «Non ha otto anni, Hayden. Va alle superiori». Bevvi una lunga sorsata d’acqua. «Se quel taglio strambo…».

    «Ehi!».

    Ignorai la sua indignazione. «… è il suo peccato peggiore, allora possiamo ritenerci fortunati».

    «Finché non mi farò un tatuaggio», annunciò Becca, riuscendo a zittire sia me sia Hayden per qualche secondo.

    «Come hai detto?», chiese lui.

    «Quando mi diplomo, me ne faccio uno qui», rispose lei imperturbabile, mostrando il polso imbrattato con i pennarelli Sharpie. «Ma non so ancora cosa».

    «Assecondala, Hayden», sospirai. «Cambia idea una volta al mese».

    «Stavolta no», ribadì lei.

    Linny tornò con un cestino di panini e burro extra, sapendo che io e Becca eravamo fanatiche del burro. Ne spalmai generosamente uno e diedi un morso, assaporando i carboidrati.

    Sentii una mano sulla spalla e mi girai. «Ha ricevuto l’email?», chiese un signore anziano con un residuo di spinacio incastrato tra i denti, e un riporto esagerato.

    Battei le palpebre. «L’email… ehm, oggi non ho ancora potuto controllare, signor Morrison, ma…».

    «È stata spedita quattro giorni fa», precisò lui. «Deve consegnare l’annuncio e il pagamento per la sua locandina entro questo fine settimana».

    Ma certo. L’importantissima locandina del festival. Quella sì che era una priorità. «D’accordo, sì… Me ne occuperò».

    Il signor Morrison mi diede una pacca sulla spalla, strinse la mano di Hayden, anche se probabilmente non si ricordava nemmeno chi fosse, e infine squadrò Becca passandole accanto.

    «Sono viola, per caso?», bisbigliò lei.

    «È la tua aura», le risposi sottovoce, facendola ridacchiare. «Allora, cosa ti porta al lato oscuro?», chiesi a Hayden, dandogli una gomitata.

    «Ero in tribunale con un contratto, così ho pensato: ma sì, andiamo. Ehi, lo sai che il vecchio non mi ha lanciato nemmeno un’occhiataccia? Incredibile».

    «Linny dice che è felice, non si sa perché», s’intromise Becca, con la bocca piena di pane e burro.

    «Dimmi un po’, chi era quella donna elegante?», indagai, senza riuscire a smettere di stuzzicarlo e cercando di non pensare a Johnny Mack. «Esci con gli avvocati adesso?», chiesi con un sorrisetto.

    Hayden si voltò subito a guardarmi con un guizzo negli occhi nocciola. «E chi era quel punkabbestia? Esci con i biker adesso?».

    Mi partì una risata di pancia, prima sommessa poi irrefrenabile, che mi fece capire quanto mi mancasse ridere così. Nonostante le nostre divergenze, Hayden riusciva sempre a farmi ridere. E in quel particolare periodo dell’anno, quando il freddo umido penetrava nelle ossa e la gelida brezza mattutina faceva riaffiorare la malinconia, avevo bisogno di rilassarmi un po’.

    «Touché».

    Mi portai il panino alla bocca e il resto della risata mi si congelò in gola quando si aprì la porta ed entrò una coppia. Lei, una brunetta piccolina, era vestita di rosso ed era abbastanza bella da avere tutti gli occhi puntati su di sé. Ma il problema era lui.

    L’ultima volta che l’avevo visto, aveva diciassette anni. Be’, escludendo il sogno dell’altra notte. Sentii la pelle gelida e formicolante, e la testa leggera come se avessi respirato l’elio. Il panino mi cadde di mano.

    «Mamma?», udii Becca che mi chiamava. «Mamma, che succede?».

    «Jules?», fece la voce di Hayden nelle mie orecchie.

    Ma per me c’erano solo gli occhi che perlustravano la stanza, analizzando ogni dettaglio con aria nostalgica ma circospetta, finché non si posarono su di me, senza più muoversi. Sentii tutto il peso di quello sguardo. E ricordai l’ultima volta che ci eravamo guardati in quel modo.

    Il giorno in cui avevo dato via nostro figlio.

    «Noah».

    * * *

    Ventisei anni. Era passata

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