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Rompicapo
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E-book341 pagine3 ore

Rompicapo

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Info su questo ebook

Si parla molto di HIV-AIDS, si elaborano statistiche, si realizzano ricerche, si accumulano fascicoli, ecc. ma si parla poco di quello che c'è dietro ogni numero, della storia di ogni persona che ha sofferto di questa malattia e ancor meno delle esperienze e dei sentimenti dei familiari al riguardo. Questo caso è differente. Ci spiega i sentimenti di una madre che vide nascere suo figlio, lo vide diventare un uomo, lo accompagnò nella meravigliosa avventura che è la scoperta della vita e poi lo vide morire.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita3 mar 2018
ISBN9781547517626
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    Anteprima del libro

    Rompicapo - Rosa Feijoo Andrade

    Rompicapo

    Rosa Feijoo Andrade

    Copyright © 2012 Rosa Feijoo Andrade

    All rights reserved.

    ISBN-13:978-1985231719

    ISBN-10: 1985231719

    ii

    Dedica

    ––––––––

    A José Octavio, Eliana e Helena, i miei tre maestri.

    L'ultima volta che lo vidi fu quando mi accarezzò il viso e mi guardò con i suoi teneri occhi dalle lunghe e vellutate ciglia...

    ––––––––

    Indice

    Ringraziamenti

    Ringrazio tutte le persone del Centro Nazionale per la prevenzione e il controllo dell'HIV/AIDS (CENSIDA) che, a suo tempo, mi aiutarono a capirne di più su questo problema, offrendomi materiale e appoggio morale per realizzare questo lavoro; la sessuologa Alma Aldana per chiarirmi le mille domande che avevo sulla sessualità; la sessuologa Rinna Riesenfeld per includermi nel suo libro Papà, mamma, sono gay e farmi partecipe della sua opera di aiuto alle famiglie che si confrontano con l'omosessualità di uno dei loro familiari e il sessuologo Luis Perelman per lo stesso motivo.

    Ringrazio inoltre, tutta la mia famiglia per darmi sostegno e amore durante tutta la mia vita e in particolare mia madre che fu la prima ad accettare suo nipote così com'era; mia sorella Maxi per la sua pazienza nel leggere e correggere il mio modo informale e sconsiderato di scrivere; Roberto e Cristina per aver voluto tanto bene a José e per le loro testimonianze che arricchiscono il mio lavoro; le mie figlie per collaborare in questa memoria del fratello e per insegnarmi a essere una persona più aperta e sincera di fronte alla diversità sessuale nel mondo e aiutarmi a capire i giovani di oggi; ma soprattutto José, che continua a essere presente insegnandomi a essere una persona migliore.

    2015: Oggi, dopo quindici anni dalla prima pubblicazione di questo libro, ringrazio tutte le amiche e gli amici, le persone omosessuali che ho conosciuto in questo periodo e dai quali ho acquisito tanta bontà, affetto, dedizione per la loro causa, e prodezza per la loro lotta. Ringrazio David Alberto Murillo, Presidente di Amici contro l'AIDS, per fornirmi il suo progetto sull'AIDS affinché potessi aggiornare i dati su questa

    malattia, che si trovano alla fine del libro; le mie socie della Fondazione Verso un Senso della Vita, per il loro sostegno e la loro amicizia e nuovamente le mie figlie, sorelle e tutta la famiglia per il loro affetto e l'aiuto incondizionato durante tutti questi anni.

    Prologo

    Si parla molto di HIV-AIDS, si elaborano statistiche, si realizzano ricerche, si accumulano fascicoli, ecc. ma si parla poco di quello che c'è dietro ogni numero, della storia di ogni persona che ha sofferto di questa malattia e ancor meno delle esperienze e dei sentimenti dei familiari al riguardo. Questo caso è differente. Ci spiega i sentimenti di una madre che vide nascere suo figlio, lo vide diventare un uomo, lo accompagnò nella meravigliosa avventura che è la scoperta della vita e poi lo vide morire.

    Questo libro è una lezione di vita, ricco di avventure, aneddoti e sentimenti che attirano il lettore. Rosa Feijoo apre le porte del suo cuore lasciandoci entrare nel suo mondo e in quello della sua famiglia per accompagnarla.

    Il libro conquista, seduce il lettore facendogli condividere con lei, ogni singolo dettaglio della sua esperienza. La scrittrice è una donna sensibile e allo stesso tempo precisa nelle sue descrizioni, che ha avuto un grande coraggio per raccontare le proprie esperienze come madre, come sposa e come persona. Ci rende partecipi dei suoi sentimenti e prendendoci per mano ci accompagna in un viaggio attraverso la sua vita.

    Non è facile condividere la propria storia. Rosa è una delle poche madri che ci parla dell'esperienza di avere

    un figlio meraviglioso che tra molte altre cose era omosessuale, che ebbe la disgrazia di ammalarsi e grazie al quale imparò cose molto importanti della vita.

    Una delle peggiori tragedie che devono sopportare le persone con HIV-AIDS è la mancanza di accettazione da parte delle persone care e della loro famiglia che, generalmente, non sanno cosa fare. Sono sicura che Rosa riuscirà ad aprire le porte alla sensibilità e all'accettazione dei suoi familiari a molte madri, padri, familiari e amici di persone che vivono con il virus, poiché questo libro, più che teorizzare, romperà le catene dei molti cuori di chi ha difficoltà con la vicinanza e la comprensione.

    Penso che la maggior parte delle persone si possa identificare con le esperienze raccontate in questo libro, a prescindere dall'avere o meno un familiare con l'HIV. L'arte di amare e il dolore di perdere una persona amata raggiunge le profondità del cuore di chiunque.

    Esistono migliaia di persone che nascondono i sentimenti provocati dall'avere un familiare portatore del virus. Per anni questa situazione è stata considerata imbarazzante, della quale è meglio non parlare creando così silenzi che non ci permettono di imparare.

    Questo è un materiale dal valore inestimabile poiché dà voce a una popolazione che finora è rimasta in silenzio e che chiede di essere ascoltata, ma anche di ascoltare chi ha vissuto la stessa cosa. Non c'è miglior apprendimento di quello che si ottiene attraverso l'esperienza, fonte affidabile e onesta in cui il quotidiano e le cose vicine ci aiutano a capire.

    Nell'attualità possiamo trovare testimonianze di persone che vivono con il virus, alcune di esse omosessuali e altre no, ma sono poche quelle delle

    madri che vivono tutto questo, della loro lotta, della paura, dell'impotenza. Ci sono ancora padri e madri che rinunciano all'educazione sessuale, con il rischio che questo comporta, credendo che solo i figli degli altri corrano questi rischi. A tutti loro ricordo che per gli altri, voi siete gli altri e che ogni persona infetta è figlia di qualcuno: qualcuno che non aveva mai immaginato di vivere questo. Tuttavia, poco a poco l'informazione sta diventando l'antidoto migliore contro questa malattia alla quale nessuno è immune.

    Il lavoro realizzato finora con gruppi di genitori, familiari e amici di persone omosessuali mi permette di conoscere da vicino la difficoltà, che per molti comporta, l'accettare che la persona cara, abbia un orientamento sessuale diverso da quello che ci si aspetta. Questa situazione diventa ancora più dolorosa e difficile quando la persona cara dice di essere portatrice del virus dell'immunodeficienza umana. Occorre qui chiarire che l'essere una persona omosessuale non significa essere più propenso all'acquisizione del virus. Quello che rende vulnerabili è la mancanza d'informazione e di attenzione, a prescindere dall'orientamento sessuale.

    Rosa racconta nei minimi dettagli ogni momento del suo viaggio da un luogo all'altro, facendosi strada e imparando sempre cose nuove; ma dove s'impara a essere madre, a dare sostegno e comprensione? Dove e come s'impara ad accettare la morte di un figlio per una malattia incurabile che inoltre porta con sé una carica sociale molto forte dovuta all'ignoranza? Quanto coraggio e valore si richiede per affrontare una situazione così e ancora di più per scriverci un libro!

    L'omosessualità non si sceglie e non si cura. Non conosco nessuna persona gay che abbia deciso di

    esserlo, ma l'infezione da HIV sì che si può combattere. Magari questo libro potrà far sì che ogni anno ci siano meno vittime e anche che i familiari di coloro che hanno già contratto la malattia possano affrontare la situazione in modo migliore. La famiglia è il vincolo più forte e importante su cui appoggiarsi ed è necessario essere educati per educare.

    Se hai un figlio/a con il virus, non lasciarlo/a solo/a, neanche tu lo sei. Questo libro è una dimostrazione del fatto che ci sono altri che vivono la stessa cosa e che sono disposti a condividere e imparare dall'esperienza accettando che quest'ultima li renda più sensibili e umani. Ricordati: Ciò che non uccide, fortifica.

    Rosa è una donna molto coraggiosa. Grazie per voler condividere questa parte così personale della tua vita che può essere d'aiuto a tanti altri.

    Rinna Riesenfeld. Sessuologa

    Introduzione

    Sono ormai vent'anni che José Octavio è morto. Aveva ventisette anni e quest'anno, 2015, ne avrebbe compiuti cinquanta. José è mio figlio. È non era, perché lui continua a esserci, tutti i giorni nei quali, a torto o ragione, nella mia mente appaiono le sue manine da bebè o il suo sorriso dai minuscoli dentini che, uno a uno, finivano sotto il cuscino per poi essere rubati furtivamente nell'oscurità della notte, dal topolino Pérez che li usava per costruirsi una casetta in cambio di qualche moneta. O le sue ossute mani da adulto, il bel viso barbuto, il sorriso dai grandi denti, lo sguardo severo da adolescente in eterna ricerca o i suoi enormi occhi rotondi dalle lunghissime ciglia di uomo coraggioso che conta solo le ore per arrivare alla sua fine.

    Tutte queste immagini riempiono la mia vita, insieme ad altre mille, a volte, fino a farmi ridere, e altre, molte altre, fino a farmi piangere. I figli, vivi o morti, non ci lasciano mai. Rimangono come piccoli canguri nel marsupio della mente, per uscire quando ne hanno voglia, come bambini birichini a inondare i nostri pensieri.

    José è morto di AIDS. Quando si perde un figlio, la vita si spezza e non torna mai più come prima. È come cercare di rincollare un vaso rotto al quale restano crepe visibili per sempre. Nel caso di una vita però, non smettono mai di far male. Il lutto non è di alcuni mesi

    o un anno; il lutto è per sempre. Bisogna imparare a vivere di nuovo partendo da una mancanza, come lo zoppo senza la sua gamba o il monco senza il suo braccio. Come vivere però la vita quando ti manca un pezzo della tua anima?

    Oggi questo dispiacere continua, ma dopo un anno di psicoterapia nella quale feci uscire questo dolore, lo riconobbi, lo rivissi e lo lasciai andare, sentii la necessità di raccontare la sua storia, la storia di un giovane uomo che, come tanti altri, per irresponsabilità e incoscienza o forse ignoranza, perse la vita. Forse non posso ancora lasciarlo andare; forse sento che così prolungo la sua esistenza. Forse, parlandone mi curo io stessa. Voglio fare una radiografia della sua vita, voglio capirla, voglio capire il perché della sua morte. Voglio che le mie figlie lo capiscano e di conseguenza capiscano se stesse, perché José è parte di loro. Non so se ce la farò; non so se una volta finito lo capisca di più o muoia un poco nel processo. So solo che ho bisogno di farlo...

    Se lui fosse vivo, si sarebbe dedicato ad aiutare, a cercare di salvare i giovani da questo flagello perché, di fatto, quando era vivo, lo fece. Diversi suoi amici e amiche morirono prima di lui e so che restò loro vicino, accompagnandoli nei loro ultimi giorni. In un certo modo voglio continuare la sua opera, per quanto piccola possa essere... voglio che la sua storia tocchi le anime e che queste prendano coscienza della malattia e si curino. Se anche uno solo vive grazie a questo libro, mi sentirò ripagata. Così una morte, quella di mio figlio, darà vita a un'altra, non importa quale. Così la sua morte avrà un senso...

    Oggi ho 72 anni. Come ogni essere umano, fui innocente, persi l'innocenza, caddi, imparai, mi rialzai con una certa galanteria e guadagnai saggezza. La stessa saggezza che, credo, mi ha portato a pensare che la vita sia un rompicapo che si forma solo con le spintarelle che le diamo ogni volta che prendiamo una decisione. Queste decisioni, buone o no, danno luogo a delle realtà che s'intrecciano e che senza rendercene conto tessono la nostra vita, arrivando così a essere persone anziane o della terza età, come la chiamano adesso. Credo che io stia già entrando nella quarta, ma non importa; mi sento felice e utile. Mi ricordo dell'età solo quando mi guardo allo specchio... e ciò che è più importante... continuo a imparare che in fondo, di questo si tratta la vita.

    Questo fa parte del rompicapo della mia vita e spero che tu, lettore, te lo goda, forse piangerai, forse no; forse imparerai qualcosa e forse, in qualche modo, cambierai, anche solo un po', la prospettiva che hai del comportamento umano.

    Capitolo 1

    Jose Octavio

    Il padre di mio figlio di professione fa il diplomatico. In questo modo, la vita di José, come quella di tutta la famiglia e della gran parte dei diplomatici, fu marcata da tappe molto precise a seconda del paese in cui eravamo destinati. Da Lima, dove nacque, a New Orleans, dove vivemmo per quattro anni. Da lì, passammo poi tre anni in India e tornammo in Perù, dove venne al mondo la mia prima figlia, Eliana. Poi negli Stati Uniti, Washington, D.C., dove nacque la seconda, Helena e cinque anni più tardi a Canberra, Australia. Quattro anni in questo paese, per poi tornare tutti, tranne José, in Perù. José, che aveva già 19 anni, rimase in Messico con mia madre, per iniziare gli studi universitari. Da lì, non si mosse più.

    Questa vita, rigida come i cubetti di legno dei rompicapo per bambini, è estremamente stressante, soprattutto per i bambini. Questi cambi di paese, casa, lingua e amici, secondo le statistiche, provocano livelli molto alti di tensione e, di conseguenza, marcano in maniera forte la personalità dei ragazzi. Alcuni diplomatici risolvono la situazione lasciando i loro figli nei collegi da cui escono solamente per far visita ai genitori durante il periodo delle vacanze. Anche questo, ovviamente, provoca dolore e non è la soluzione

    perfetta.

    Nel nostro caso, ci portammo i figli ovunque, perché consideravamo che, nei loro anni di formazione, fosse più importante l'unità familiare. Disgraziatamente, la famiglia solida e unita che avrebbe dovuto dargli una certa stabilità, già non funzionava. Le discussioni tra padre e madre erano ogni volta più frequenti, il disamore e l'assenteismo del padre sempre più lungo. Lo stress, per questo tipo di vita, si impadronisce anche degli adulti.

    Ne caso particolare di José, la comunicazione con suo padre era praticamente nulla e molto superflua; si riduceva a qualche scambio di parole durante la colazione o tardi la sera. Il capofamiglia doveva lavorare anche nel fine settimana. Questo, purtroppo, costituì un grande vuoto nella vita di José. Anche quell'assenteismo e quel vuoto lo marcarono. Amò molto suo padre e cercò sempre di raggiungerlo, cosa che non riuscì mai a fare, neanche quando gli restavano pochi giorni di vita.

    Per quanto mi riguarda, cercai sempre e in mille modi di stabilire un contatto con lui. Non era facile. José poteva chiudersi nella sua corazza e non permetteva a nessuno di penetrarla.

    Le lettere ebbero un buon risultato. In qualche modo, le discussioni faccia a faccia rendevano tutto più difficile. Parlavamo in spagnolo, ma con il passare del tempo e degli anni vivendo in paesi anglofoni, non trovava facilmente le parole per esprimersi nella nostra lingua. Questo lo innervosiva e aumentava la dinamica fino a esplodergli dentro. Io non demordevo perché

    all'epoca ero abbastanza irascibile. Una volta, quando lui aveva 16 anni, entrambi diventammo molto violenti. In quel momento mi resi conto che, continuando così, non saremmo arrivati da nessuna parte. Quindi chiusi la bocca e feci un passo indietro. Una volta calmata, gli scrissi una lettera esprimendo i miei punti di vista e il perché dei miei rimproveri. La misi in una busta e la lasciai sulla sua scrivania. La mattina dopo, trovai la risposta attaccata con una calamita alla porta del frigorifero. Fu così che iniziò la nostra comunicazione epistolare che poi durò tutta la vita. Per essere genitore bisogna attingere a tutta l'inventiva possibile. L'importante è non smettere di comunicare.

    Lima

    Questa è la storia di José Octavio che, in gran parte, è anche la mia. Nacque in Perù da madre messicana e padre peruviano. Non è proprio qui che inizia l'ambiguità nella sua vita, il sentirsi fra due mondi?

    Non volevamo avere bambini subito, perché io desideravo finire i miei studi di storia e volevamo viaggiare e conoscerci di più come coppia. Appena sposata andai a vivere in Perù, perché mio marito era funzionario nel Servizio Estero di quel paese. Però dopo tre mesi rimasi incita e piansi molto per questo, perché la gravidanza non era nei miei piani e anche, forse, perché ero troppo giovane e non mi sentivo in grado di affrontare le responsabilità di madre. Adesso si dice che i neonati sentono già quando sono nella pancia della mamma. Forse lui si sentì rifiutato, non lo so; quello che so è che dal momento in cui lo sentì muoversi dentro di me con una serie di colpetti o pulsazioni quasi

    impercettibili, in una piccola camera di un modesto hotel della città del Cusco, lo amai in un modo che non ci sono parole per descriverlo; qualsiasi madre che legge questo saprà capire quello che si prova.

    Il fatto è che nacque grande, forte, bello e amato da tutti quelli che lo circondavano, il 27 marzo 1965.

    Durante tutta la gravidanza fui seguita da una dottoressa tedesca che, all'epoca, era l'unica in Lima che favoriva il parto senza dolore e senza anestesia. Era una donna molto tedesca, tanto nel fisico come nel suo modo di essere secca, ma affabile. Mi ispirò molta fiducia, praticai gli esercizi di respirazione per questo tipo di parto. Sfortunatamente, all'ultimo momento dovettero anestetizzarmi perché si presentò una piccola complicazione, di modo che, con il mio primo figlio, mi persi quel meraviglioso momento in cui si sente il bebè che esce dal nostro corpo.

    Come se fosse ieri mi ricordo quando mi svegliai, ancora in sala parto, nell'istante in cui mettevano il bambino sul mio petto. Fu un momento in cui il tempo si fermò, facendomi viaggiare su una nuvola d'incredulità o di felicità talmente enorme che fui incapace di capirla, e poi rimase lì, per l'eternità nei miei ricordi, per tornare a tirarlo fuori, come fosse una gemma, dal cassettino del mi portagioie emozionale. Si tira fuori, si ammira di nuovo, si piange di nuovo di emozione e lo si rimette via per un altro periodo. Ne ho molte di queste pietre preziose.

    L'ho sempre abbracciato e baciato molto; mi piaceva coccolarlo e mordergli le guance, le manine e i muscoli; lui moriva dalle risate per quanto lo strapazzavo. Il suo

    odorino da neonato penetrava nel mio naso, saliva e saliva fino a sentire, nel mio cervello, una specie di preziosa ebbrezza. Mi godei molto quei momenti che si ripetevano tante e tante volte non solo con lui, ma anche con le mie due figlie e ricordo che in molte di quelle occasioni presi coscienza del grande valore di quel momento, di quanto fossi fortunata, perché non solo ero madre, ma disponevo di tutto il tempo che volevo per godermi i miei figli. Quante madri devono lasciali per lunghi momenti all'asilo, o con i nonni, perché devono andare a lavorare. Quei momenti, precisamente, sono quelli, che con il passare del tempo, tornano per dare allegria alla vita e contribuiscono a far sì che meriti d'essere vissuta.

    Anche suo padre fu molto dolce con lui e crebbe così: un ragazzino sorridente e sano. Mi ricordo molto bene che la sua prima notte a casa, dopo tre giorni di ospedale, dormì dalle dodici alle cinque del mattino. Per essere appena nato, non era male. E da quel momento, ci fece quasi sempre passare delle notti tranquille. Era capriccioso nel pomeriggio, l'ora delle famose coliche, ma questo, poco a poco, passò. Io lo allattavo e aspettavo con piacere quel momento in cui dovevo prenderlo dalla culla, cambiarlo, dargli da magiare e metterlo verticale sulla mia spalla per fargli fare il ruttino o come dicono in Perù per botarle el chanchito. Quello

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