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Al di là del faro
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E-book612 pagine9 ore

Al di là del faro

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Alla vigilia di un sommovimento epocale, l'avvocato Montenegro confida al suo amico Fuxa: …è giunto il dies irae, il giorno in cui il corso della storia prende forma di un'apocalisse, di uno svelamento… Stiamo assistendo al crollo di un edificio costruito sulle apparenze e su equilibri precari. L'oppressione, l'arroganza, la corruzione, vengono spacciate per munificenza e bene comune. La miseria e la sofferenza di un popolo, giunte ai limiti estremi di sopportazione, stanno provocando una scossa tellurica tale da far crollare questo edificio, lasciando apparire la vera natura dell'agire d'ognuno…
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2018
ISBN9788827816967
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    Anteprima del libro

    Al di là del faro - Mario Scordato

    Scordato

    Prologo

    Chiunque voglia dirigersi a sud della penisola, verso l’estremo lembo della Calabria e attraversi poi lo stretto, prima di raggiungere la costa siciliana, scorge il Faro. Per i napoletani quest’isola è nota come la terra al di là del faro. Mentre la vecchia aristocrazia isolana, per rafforzare i propri privilegi, sogna il ritorno agli antichi fasti del Siciliae Regnum, nell’anno di grazia 1848 re Ferdinando II decide di sottomettere i sudditi riottosi di quest’isola che ritiene una terra di sua proprietà. Dio gliel’ha data, e nessuno al mondo può pensare di sottrarla al suo dominio! La parte più illuminata e liberale dell’aristocrazia siciliana reclama i diritti della Costituzione varata nel 1812, che avrebbe dovuto sancire l’uscita dal medioevo. La sparuta classe borghese anela ad una autonomia di governo, se pur federata con una possibile futura Italia, patria di tutti gli italiani e per i più radicali di questi, addirittura in forma repubblicana. La stragrande maggioranza del popolo vive nei feudi, nelle terre che ormai da molti anni sono in mano ai baroni. I contadini vengono chiamati bunàchi, dal vestito che indossano. Costoro sopravvivono a stento, lavorando nei campi dei latifondi, in condizioni non certo migliori dei loro antenati, ai tempi di Euno o di Spartaco. Alcuni attori di questo dramma decidono di battersi per creare un fronte comune teso ad ottenere una Sicilia più progredita e più democratica. Li attende un’impresa disperata ... Alla vigilia di un sommovimento epocale, l’avvocato Montenegro confida al suo amico Fuxa: …è giunto il dies irae, il giorno in cui il corso della storia prende forma di un’apocalisse, di uno svelamento… Stiamo assistendo al crollo di un edificio costruito sulle apparenze e su equilibri precari. L’oppressione, l’arroganza, la corruzione, vengono spacciate per munificenza e bene comune. La miseria e la sofferenza di un popolo, giunte ai limiti estremi di sopportazione, stanno provocando una scossa tellurica tale da far crollare questo edificio, lasciando apparire la vera natura dell’agire d’ognuno… Come sempre, tra i diversi attori del dramma, coloro che detengono il potere economico e quindi politico, riusciranno a trovare il bandolo della matassa per il proprio vantaggio, sopravvivendo al terremoto e ricostruendo dalle macerie un mondo nuovo…o almeno tale in apparenza.

    Il tramonto del Siciliae Regnum

    L’Archimede salpa, lasciando alla spicciolata il porto di Napoli. E’ il 23 gennaio del 1806 e Ferdinando, con la sua corte, si trasferisce per la seconda volta a Palermo. Il re non ha più dubbi: dopo la vittoria di Napoleone ad Austerliz nel mese di dicembre, i francesi sicuramente risusciteranno la repubblica partenopea. Dopo il fallimento delle trattative con Parigi, Londra decide di presidiare con le sue truppe la Sicilia. Vuole così assicurarsi il controllo dell’isola, e difendere la numerosa e ricca colonia inglese che fin dalla seconda metà del settecento ha fatto della Sicilia una sede di fiorenti commerci. Ferdinando sottoscrive un trattato d’alleanza in forza del quale l’Inghilterra è presente nell’isola con truppe di terra e di mare, usufruendo in contraccambio di un sussidio finanziario elargito alla sua corte. A Londra intanto si infittiscono i sospetti su Maria Carolina. Sembra infatti che la regina, mentre Ferdinando va a caccia, sia di cinghiali che di donne, dedichi gran parte del suo tempo a tramare con le corti di mezza Europa, soprattutto Parigi e Vienna. I sospetti si fanno più insistenti in seguito all’alleanza austro-francese del 1809, e al matrimonio di Napoleone con la giovanissima Maria Luisa, figlia dell’imperatore austriaco e nipote di Maria Carolina. Tali sospetti sono pure aggravati dal matrimonio di una delle sue figlie, Maria Amelia, con il duca d’Orléans, Luigi Filippo. Il soggiorno del re per i siciliani si rivela gravoso e poco gradito. La corte napoletana non fa nulla per ingraziarsi il Paese che la ospita. Il contrasto tra i baroni siciliani e il re si fa sempre più aspro. Durante la sessione parlamentare di gennaio del 1810, alla richiesta del ministro Medici di aumentare sia i donativi all’erario governativo che il contributo agli oneri militari, i baroni siciliani contrappongono una propria proposta che accontenta gli inglesi con un aumento, seppur contenuto, del contributo agli oneri militari, negando gli aumenti alla corte borbonica. Il Medici si dimette e il re è costretto ad accogliere la richiesta del parlamento di formare un nuovo governo costituito soltanto da rappresentanti siciliani. Maria Carolina, non sembra però intenzionata a darla vinta al principe di Belmonte, che è a capo della rivolta parlamentare e che, con lo zio Carlo, ha già contribuito notevolmente alla riforma della costituzione siciliana. Carlo, unico figlio del principe di Castelnuovo, Gaetano Cottone e della contessa Lucrezia Cedronio, si è formato agli studi letterari e filosofici. Allo scoppio della rivoluzione francese aveva visto con favore le iniziative in senso liberale del viceré Caracciolo. Ha viaggiato a lungo in Italia, Francia, Svizzera e Inghilterra. Alla morte del padre, nel 1802, ne eredita il seggio nel parlamento siciliano battendosi con pervicacia per la promulgazione della carta costituzionale. Quando il 18 settembre 1810, il tentativo di sbarco a Messina di Murat viene respinto sia dai messinesi che dalle truppe inglesi, la corte napoletana non nasconde il suo completo disinteresse, e stranamente, non prende parte neanche ai festeggiamenti che il popolo organizza nella capitale, per il successo conseguito. Tutto ciò concorre ad aumentare la tensione tra i parlamentari, e ancor più quando re Ferdinando, noncurante delle norme costituzionali secondo le quali non si possono imporre nuove tasse senza il consenso del parlamento, con 3 decreti, il 14 febbraio 1811, impone una serie di tasse tra le quali una che colpisce le attività commerciali e bancarie. Riesce in tal modo a scontentare sia i commercianti inglesi che quelli siciliani. I baroni presentano ricorso di illegittimità costituzionale alla Deputazione del Regno, e cinque di loro protestano in prima persona. Ferdinando, su insistenza di Carolina, risponde ordinando l’arresto immediato dei cinque, con l’accusa di aver tramato con il principe reggente e con la Gran Bretagna. Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, convinto sostenitore dei diritti del Parlamento siciliano, viene arrestato e confinato a Favignana, così come suo zio, il principe di Villafranca, il principe di Aci e il duca D’Angiò. Alla protesta aderisce anche Ruggero Settimo, diventato in poco tempo uno dei maggiori esponenti del partito liberale siciliano. Nato a Palermo da una famiglia di origine nobiliare, i principi di Fitalia e i marchesi di Giarratana, formatosi presso l’Accademia Borbonica della Real Marina delle Due Sicilie di Napoli, e diventato nel 1793 ufficiale della flotta borbonica, combatte i corsari barbareschi. Combatte pure a fianco della flotta inglese nel Mediterraneo contro i francesi di Napoleone Bonaparte. Riconquistata l’isola di Malta, nel 1800, va a difendere la città di Gaeta. La crescente tensione tra la corte napoletana e i siciliani preoccupa lord Amherst, ambasciatore inglese a Palermo che appoggia i baroni liberali nel loro intento di adottare una costituzione il più possibile simile a quella della Gran Bretagna. L’ambasciatore inglese decide così di dare le dimissioni. Al suo rientro a Londra suggerisce al suo governo un intervento diretto nella politica siciliana. Il governo inglese, di fronte al pericolo di un asse franco-siciliano, e di una invasione francese, decide di intervenire, conferendo l’incarico di plenipotenziario a Lord William Bentinck. L’inviato sbarca a Palermo il 20 luglio, proprio all’indomani dell’arresto dei cinque baroni ribelli. Il plenipotenziario, senza nemmeno protestare, riparte subito per Londra dove, illustrata la nuova situazione venutasi a creare, ottiene questa volta una più ampia libertà d’azione, compreso il ricorso alle armi, con l’unico impegno di mantenere i Borbone sul trono di Sicilia, a costo di deporre Ferdinando e mettere al suo posto il principe ereditario. Di ritorno a Palermo il 7 dicembre, Bentinck prima sospende il pagamento del sussidio alla corona, e poi impone le condizioni inglesi. Chiede a re Ferdinando il comando militare unico per le truppe borboniche e inglesi, per meglio fronteggiare eventuali tentativi di invasione dei francesi, e un governo a maggioranza siciliano, per neutralizzare il partito filo-francese della regina Maria Carolina. I reali rifiutano rischiando il confronto militare. Durante un colloquio privato, il plenipotenziario rassicura Francesco, il principe ereditario, che la Gran Bretagna ha intenzione di appoggiare i baroni limitatamente all’accoglimento delle giuste rivendicazioni, e che la Sicilia sia governata da siciliani sulla base di una nuova costituzione. Inoltre lo rassicura dichiarando che il governo britannico non ha l’intenzione né di occupare la Sicilia con le armi, né di disconoscere i diritti della dinastia borbonica sui domini perduti nel continente. Ferdinando e Carolina rimangono irremovibili. Il re nomina dunque suo vicario il principe Francesco e decide di ritirarsi alla Ficuzza, mentre la regina ripara a Castelvetrano. Belmonte, alla sua liberazione, entra a far parte del Governo siciliano come ministro degli Esteri. Lo zio, Carlo Cottone, come ministro delle finanze. Nonostante i poteri di Francesco siano ovviamente limitati, il principe e lord Bentinck si mettono al lavoro e convocano il Parlamento di rito feudale perché in seduta costituente venga scritta ed approvata la nuova costituzione del Regno di Sicilia redatta da Paolo Balsamo. Francesco in verità avrebbe preferito una Costituzione octroyée, promulgata e concessa dal sovrano, ma Bentinck riesce a convincerlo, sostenendo che una costituzione discussa e approvata da un’assemblea costituente, come fatto a Cadice, in Spagna, avrà un maggior peso in campo internazionale. Il 18 luglio si apre pertanto la sessione del Parlamento e iniziano i lavori per la lettura degli articoli costituzionali redatti da Paolo Balsamo. Balsamo, nato a Termini Imerese da una famiglia di giardinieri, terminati gli studi al Seminario e diventato sacerdote, compie un viaggio di studi in Inghilterra, dove apprende le tecniche d’avanguardia relative ai lavori agricoli e intreccia amicizie con i maggiori studiosi inglesi. Il viaggio prosegue poi nelle Fiandre, in Francia e nelle regioni delle centro-nord d’Italia. Nel 1786, presentando un curriculum di tutto rispetto e una nutrita serie di pubblicazioni scientifiche nazionali e internazionali, vince la cattedra di Agricoltura presso l’Accademia degli Studi Palermo. Il nuovo progetto di costituzione siciliana, da lui redatto, si prefigge di fare da ponte tra le tradizionali legislazioni isolane e la legislazione di stampo inglese. Il nuovo ordinamento giuridico modifica la precedente composizione parlamentare. I tre rami, Feudale, Ecclesiastico e Demaniale si riducono a due: la Camera dei Pari, e quella dei Comuni. La Costituzione prevede anche la libertà di stampa, di parola, di associazione, ma l’articolo di fondamentale importanza è quello relativo alla successione al trono, che prevede la separazione del regno di Sicilia dal regno di Napoli: "Se il Re di Sicilia riacquisterà il regno di Napoli o acquisterà qualunque altro regno, dovrà mandarvi a regnare il suo figlio primogenito o lasciare detto suo figlio in Sicilia, concedergli il regno, dichiarandosi da oggi innanzi il regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli e da qualunque altro regno o provincia". Vengono aboliti, almeno formalmente, i privilegi feudali. L’aristocratico, padrone del feudo, chiamato anche barone o galantuomo, che prima godeva del Mero e Misto Imperio, cioè il diritto di amministrare la giustizia civile e penale all’interno del proprio feudo, perde questo privilegio. I nobili della Sicilia occidentale, principi, duchi, conti, marchesi, grandi di Spagna con il diritto di tenere il cappello in testa davanti al re e di vendere titoli nobiliari, vivevano dei feudi che possedevano. A partire dal settecento, il continuo deprezzamento della moneta e il desiderio di sfruttare per intero i feudi, li spinge a suddividere il latifondo feudale in masserie, grandi agglomerati edili che dominano su decine di ettari di terreno. Il 19 luglio 1812, il Parlamento, riunito in seduta straordinaria, promulga la costituzione. Il primo effetto è la fine del feudalesimo. Ma i membri del Parlamento, hanno cura di salvaguardare i loro interessi e privilegi. In pratica, i feudatari che fino ad ora hanno posseduto i latifondi jure feudalis, e come tali soggetti agli usi civici delle popolazioni vassalle, ne ottengono l’abolizione senza pagare alcun indennizzo e con il conseguente impoverimento delle popolazioni vassalle. Una vera truffa a danno dei contadini! I baroni si ritirano nelle grandi città, lasciando i feudi in affitto, tramite un contratto a gabella a dipendenti, che diventano così gabelloti, la nuova classe borghese emergente. La nobiltà siciliana non è mai stata "nobiltà di corte", e neanche "nobiltà di armi", perchè il re affida la sua sicurezza personale a truppe mercenarie, composte da svizzeri. A Palermo, sin dal tempo dei Normanni, non c’è "un terzo ceto" distinto dai nobili e dal clero che possa contrapporsi al potere dei nobili, con una apprezzabile consistenza numerica e con una buona base di reddito. Per tale motivo le istituzioni e l’assetto sociale mancano di dinamismo. Inoltre, il poco nutrito numero di borghesi vive a Palermo subordinato ai signori feudali. Si tratta di una dipendenza "personale", basata sui rapporti fra il singolo signore, e il singolo piccolo borghese. Personalità e personalismi, che inquinano con favoritismi e corruzione l’apparato burocratico borbonico. In seguito al ritorno del re Ferdinando, Carlo Cottone si ritira in una sua villa, ma viene richiamato dal re a formare il governo per intervento del successore di lord Bentinck, sir William A’ Court. In seguito poi allo sfavore degli altri baroni siciliani, tra cui suo nipote, il principe di Belmonte Giuseppe Ventimiglia, il governo liberale siciliano cade una prima volta nel 1813, e una seconda l’anno successivo. Belmonte si vede costretto a dimettersi e, notevolmente amareggiato, decide di lasciare la Sicilia e di autoesiliarsi in Francia. Lo zio si occupa in seguito di miglioramenti dell’agricoltura e fonda nella sua villa, con l'aiuto di Paolo Balsamo e di Nicolò Palmieri, un Seminario di agricoltura per l’educazione dei figli dei contadini. Ruggero Settimo viene nominato ministro della Guerra e della Marina. Riorganizza la Marina e lo stato maggiore. Quando, nel 1814 Malta viene inglobata nell’impero britannico e utilizzata come quartier generale per la flotta, per la sua posizione strategica sulla rotta per le Indie Orientali, viene attaccato dal Parlamento, e per tutta risposta, si dimette dalla carica. La Sicilia indipendente, separata da Napoli, e sotto protettorato inglese, non è ben vista dalle grandi potenze riunite a Vienna in Congresso. Londra è costretta a cambiare la propria posizione. Il governo inglese decide dunque, nel maggio 1814, di inviare in Sicilia Sir William A’Court, in qualità di ambasciatore, con il preciso incarico di licenziare Bentinck, la cui politica rischia di compromettere i rapporti con Napoli e Vienna. L’ambasciatore A’Court, notifica così la cessata interferenza britannica negli affari siciliani cessando di sostenere l’indipendenza della Sicilia. Lo stesso Lord Castlereagh, ministro degli Esteri britannico, lo aveva dichiarato apertamente nella seduta ai Comuni del 2 maggio rispondendo all’opposizione che gli rimproverava il tradimento della causa siciliana: "Non possiamo sacrificare agli interessi della Sicilia la tranquillità e la sicurezza d’Europa". Si propugnava da parte delle grandi potenze riunite a Vienna una costituzione moderata sull’esempio del re di Francia e del re di Spagna. Ferdinando viene convinto in tal senso dal duca d’Orléans, suo genero, dallo zar di Russia che gli garantisce il suo appoggio, dalla stessa Gran Bretagna che ha già ceduto ai voleri di Vienna e Pietroburgo e persino dal principe ereditario Francesco. Il primo maggio 1815, Ferdinando lascia la Sicilia, sciogliendo il parlamento e lasciando i lavori di revisione in mano alla commissione. Trascorrono parecchi mesi nell’immobilismo assoluto ed infine giunge, non certamente inatteso, e avallato da Vienna, il decreto dell’8 dicembre 1816 in virtù del quale i regni di Napoli e di Sicilia vengono riuniti nell’unico Regno delle Due Sicilie. Palermo viene declassata a semplice capovallo. Nel testo originale francese Re Ferdinando era riconosciuto Roi de Deux Siciles. Nella traduzione italiana, fatta dal ministro Alvaro Ruffo diventa "Re del Regno delle due Sicilie". L’errore di traduzione, si va dicendo, non viene rilevato, per convenienza da Metternich, e per indifferenza, da Castelraigh, con la conseguenza che lo Stato meridionale unitario su base federale diventa Stato unitario centralizzato. Nel Settecento i due regni meridionali erano distinti ma convivevano, con Carlo III e Ferdinando III di Sicilia e IV di Napoli fino al 1799. Adesso, l’antico Regno di Ruggero il normanno, il Siciliae Regnum, proclamato nel lontano 1130 con la convocazione delle Curiae generales, il più vecchio parlamento deliberativo d’Europa, nel Palazzo dei Normanni, viene così assimilato a provincia del Regno di Napoli e Ferdinando IV di Napoli diventa Ferdinando I delle Due Sicilie.

    Latifundia, Italiam perdidere

    (Plinio il vecchio)

    U’ feu, per il quale si può camminare delle giornate intere senza trovare una casa, un albero, un filo d’erba, una fonte o traccia che riveli la presenza umana. Terra coltivata semplicemente a frumento, o lasciata a pascolo, spopolata, ad eccezione della masseria, luogo dove i contadini si riuniscono la sera, per cenare e dormire. La gente che vive in queste masserie, lontane molti chilometri dal villaggio più vicino, vi risiede lunghi mesi, oppressa da un lavoro bestiale, avvilita dalla prepotenza e dalle angherie dei padroni. Il proprietario del feudo è quasi sempre un nobile che abita in città, e che raramente si fa vedere nei suoi possedimenti. Su una popolazione di circa due milioni di anime, nell’isola si contano 127 principi, 78 duchi, 130 marchesi, innumerevoli conti, per non parlare dei baroni. Il contadino chiama impropriamente padrone il gabelloto, un parassita appartenente alla piccola borghesia nascente, che per il contratto da cui prende il nome, e che dura dai 4 agli 8 anni, corrisponde al vero proprietario un fitto annuo. Non è raro il caso che questi a sua volta subaffitti i fondi, dando così luogo ad un secondo o terzo intermediario tra capitale e lavoro. La terra la suddivide spesso in tenute che variano da due a quattro ettari e le dà in gestione al burgisi o colono. Costui non ha che due specie di patti da accettare dal padrone, quello a terraggio e quello a mezzadria. Il terraggio consiste in due o quattro ettolitri di frumento da pagarsi per ogni ettaro di terreno. Nelle annate medie u’ burgisi arriva appena a pagare i debiti contratti per il sostentamento della famiglia, in quelle scarse è costretto a vendersi l’animale, e se la possiede, la casupola. I gabelloti costituiscono una nuova classe sociale nelle campagne. Alcuni di essi guadagnano tanto da arrivare a comprare interi feudi o parti di cui il signore si libera. Tra le loro fila nascono i baroni, che con la terra comprano il titolo dai feudatari in difficoltà economiche. Hanno il denaro contante, le sementi, le macchine agricole, il bestiame. Dalle loro famiglie nascono preti, avvocati, medici. Sono in prima linea, insieme con i nobili, in quella usurpazione e occupazione delle terre demaniali e degli usi civici che i contadini subiscono senza avere i mezzi per opporsi. Negli ultimi tre decenni l’isola ha sofferto una grave crisi economica, provocata dalla concorrenza del grano russo. La tensione tra contadini e proprietari si è intensificata, esasperata anche dal conflitto per la questione demaniale. Basta poco per far scoppiare la rivolta. Le terre demaniali, le terre comuni, erano quelle dove tradizionalmente chiunque poteva andare a far legna o portare le bestie al pascolo. Privati anche di questa risorsa, i contadini, specialmente a quelli più poveri, sono sempre pronti alle rivolte spontanee. Nei feudi, al gradino più basso della scala sociale, si trovano i braccianti senza fuoco, né tetto, figli dell’abolizione della servitù della gleba iniziata nel 1781. Gli elementi più facinorosi tra questi infimi, spesso vengono spinti fatalmente dalla prepotenza altrui alla ribellione, alimentando tra i consimili l’odio contro i galantuomini e i proprietari. Il latifondo, con il suo sistema di oppressione e di riproduzione di miseria, oltre ad offrire un sicuro asilo ai briganti, è pure il luogo di riproduzione del malandrinaggio. I briganti, nei cui ranghi confluiscono i contadini inferociti dalla fame, o qualche frate espulso dal convento, trascorrono la loro vita nei boschi, sulle cime dei monti, nelle grotte, tra i burroni. Raramente taglieggiano il piccolo proprietario e i lavoratori. Spesso li aiutano con denaro o ne fanno le vendette. Per tale motivo sono ammirati e considerati come giustizieri, trovando così nel feudo un rifugio sicuro. I gabelloti, per difendere i propri interessi, ricorrono alla violenza privata. Hanno bisogno di qualcuno che sorvegli 1’andamento dei lavori, che riscuota gli affitti anche con la forza, che sia in grado di proteggerli. Assoldano a tale scopo uomini risoluti e dalla mano lesta come campieri. Uomini senza scrupoli, che vanno in giro a cavallo armati di fucile compiendo qualunque sopruso contro i contadini e i pastori. Nelle campagne, la repressione dei reati è data in appalto alle Compagnie d’armi, sotto il comando di un capitano, che presta cauzione al governo e con la quale risponde dei furti e dei danneggiamenti di cui non è stato possibile scoprire gli autori e dei quali non si è potuto ottenere la restituzione o il risarcimento. Nei feudi è molto frequente l’abigeato, ai danni dei burgisi e con la complicità dei gabelloti. La carriera del facinoroso consiste spesso nel passaggio da fuorilegge ai servizi del latifondista, del grande gabelloto, in attesa dell’altra promozione a compagno d’armi. Il campiere deve tener testa un po’ al compagno d’armi un po’ al malandrino. Perciò, se la deve intendere un po’ con l’uno e un po’ con l’altro e rende favori ora all’uno ora all’altro, pur di essere rispettato e temuto da entrambi. Il derubato, per non soffrire ulteriori danni è costretto a patteggiare con la Compagnia. Nella differenza tra il valore della refurtiva e quello del compenso vi è un largo margine ai compromessi tra la Compagnia ed i ladri. Vengono così a crearsi tre nuclei agguerriti e armati: i briganti, le Compagnie d’armi e i campieri. I rapporti fra questi tre gruppi armati sono contemporaneamente di conflitto e di comunione d’interessi. Agli scontri e agli omicidi infatti si alternano le compravendita di bestiame e di merce rubata, patti di non aggressione, previo pagamento di somme. Quasi tutti i proprietari, pagano inoltre le componende, per tenere buoni i briganti. Vengono pure contratti incarichi di andare a fare razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario. Non è raro che ora questo o quel gabelloto siano i mandanti occulti di tali imprese. In città, l’ordine pubblico è assicurato dai gendarmi. Vengono arruolati anche malandrini, in quanto essi sono considerati i più adatti ad arrestare i malandrini ufficiali. Una polizia molto violenta e odiata, che non usa mezze misure, e che ha rapporti diretti con la malavita.

    Palermo, luglio 1820

    In Spagna, in seguito alla insurrezione di Cadice, il re è costretto a concedere una Costituzione liberale. La Santa Alleanza esita ad intervenire e l’esempio spagnolo incoraggia la Carboneria napoletana, molto diffusa nell’esercito sin dai tempi di Murat, e al cui vertice è il generale Guglielmo Pepe. Il 2 luglio due sottotenenti di cavalleria, Morelli e Silvati, si sollevano con il loro squadrone e occupano Avellino. Il moto dilaga così rapidamente che Francesco I, una settimana dopo, si vede costretto a concede la Costituzione sul modello spagnolo, che viene accettata anche dalla Sicilia orientale. Nella sola Palermo, risiedono quarantamila proletari, una plebe la cui sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei galantuomini. Nella città, privata delle sue funzioni di capitale, una crescente ostilità contro il governo napoletano accomuna nobiltà, ceto civile, borghesia impiegatizia e le masse di artigiani e operai organizzate in settantadue maestranze. La rivolta scoppia con una grande sollevazione popolare spontanea, promossa e diretta dalle corporazioni operaie. Nobiltà e borghesia della città si piegano alla pressione popolare. La giunta provvisoria di governo di Palermo, composta da nove esponenti della nobiltà e nove della borghesia, è costretta ad accettare le richieste delle corporazioni: indipendenza della Sicilia, Costituzione spagnola, abolizione del servizio di leva obbligatorio, potere di veto da parte delle maestranze su tutti gli atti della giunta, riduzione delle tasse, difesa dei privilegi corporativi. Solo Agrigento, fra le città siciliane, si unisce tuttavia alle rivendicazioni palermitane. Una vera guerra civile si scatena nell’isola. Quella di Palermo contro Napoli e quella tra le città della Sicilia occidentale e quelle orientali. Ruggero Settimo è tra coloro che chiedono il ripristino della Costituzione siciliana del 1812, soppressa nel 1816. Fa parte del governo provvisorio di Palermo insieme al principe di Villafranca, Gaetano Bonanno, Padre Palermo dell’Ordine dei Teatini, il colonnello Requesenz, il marchese Raddusa e Giuseppe Tortorici. Lo stesso governo provvisorio, seppur momentaneamente, dichiara l’indipendenza da Napoli. Settimo viene indicato come luogotenente della giunta provvisoria, ma rifiuta, e la offre al principe della Scaletta. Si mette ai voti la scelta indipendentista, e i due terzi dell’isola si esprimono favorevolmente. Le truppe borboniche vengono cacciate dal furore popolare, aggredite in aperta campagna da gruppi di contadini armati e organizzati in squadre, provenienti dai vicini comuni, Monreale, Bagheria, Parco, Villabate. E’ tanto il terrore delle milizie, che una colonna di mille uomini si lascia fare prigioniera da una squadra di sessanta bunàche di Belmonte Mezzagno. L’appellativo di bunàche fa riferimento alla loro tipica giacca, chiamata appunto, bunàca. Le squadre, unitesi ai popolani di Palermo, e specialmente con quelli del quartiere dell’Albergherìa, scorrazzano per la città, dando sfogo al loro atavico odio per le classi dominanti, saccheggiando tutti gli uffici pubblici: il palazzo reale, il palazzo dell’arcivescovo, i tribunali, gli uffici di polizia. I liberali e gli amanti dell’ordine, non possono impedire ai più facinorosi di uccidere l’ex prètore di Palermo, di troncargli la testa, conficcarla sulla baionetta di un fucile, e trascinare il tronco per le vie della città, al grido: Qui, o signori, c’è il prètore, pagategli la multa alla quale vi ha condannato! I moderati e i democratici napoletani, convinti che la rivolta sia nata da un complotto dei baroni di Palermo, decidono di reprimere l’insurrezione inviando a tale scopo il generale Florestano Pepe. Nel frattempo, Metternich, consapevole che in Spagna e a Napoli si gioca la credibilità del sistema di controllo internazionale istituito cinque anni prima a Vienna, fa solennemente proclamare a Troppau il diritto di intervento. Alcamo è tra le prime città ad insorgere. Pasquale Calvi vi risiede con l’incarico di vicesegretario dell’Intendenza. Aderente alla Carboneria, ha già preso parte al movimento costituzionalista del 1812. Nonostante il suo ruolo istituzionale, sceglie di schierarsi dalla parte dei rivoltosi, prendendo parte ai numerosi moti insurrezionali. Quando anche ad Alcamo viene costituita la guardia di sicurezza interna per il mantenimento dell’ordine pubblico, vi entra e vi fa entrare anche molti giovani iscritti alla carboneria. L’abolizione legale del feudalesimo, sostiene, si configura come una truffa ed ha effetti perversi: quella che è stata fino ad ora potenza legale, rimane come potenza e prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimane servo ed oppresso. Si riduce ad una vera truffa a danno della collettività. Le proprietà feudali, che erano sottoposte tutte agli usi civici, che limitavano i benefici dei feudatari a vantaggio dei lavoratori, sono adesso trasformate in proprietà allodiali. Ai Comuni va in cessione una quarta parte delle terre feudali, che vanno così a costituire i demani comunali. Ma i contadini vengono privati dell’uso delle proprietà feudali, rimanendo servi! Pasquale, figlio di un ufficiale dell’esercito, da giovane si era trasferito a Reggio Calabria per allontanarsi dal controllo del padre, con il quale era in contrasto per le sue idee liberali e antiborboniche. A Reggio conosce Anna Cacopardo e la sposa. Una volta repressi i moti, viene arrestato in attesa di giudizio, con l’accusa di omicidio, scarcerazione arbitraria, corruzione e minacce all’indirizzo del giudice del Circondario. Viene arrestato con l’accusa di far parte della Carboneria e per due anni viene relegato a Favignana. Frattanto la situazione permane incerta e confusa. In questo clima, il nove febbraio 1821 giunge la notizia del ritiro della Costituzione, in conformità alle decisioni prese a Lubiana da un vertice europeo voluto dall’Austria. Mentre il re viene trattenuto a Lubiana, un contingente austriaco forte di 50.000 uomini, al comando del generale Frimont, varca il Po diretto verso il Napoletano. I napoletani e i siciliani si rendono conto del pericolo di farsi trovare divisi e il 16 febbraio firmano un accordo in cui si riconosce la costituzione presentata da una commissione di sette membri, uno per ogni provincia, presieduta da Ruggero Settimo. Florestano Pepe viene sostituito dal generale Pietro Colletta che, attraverso lotte sanguinose, risottomette la Sicilia a Napoli. Settimo accetta di far parte del decurionato di Palermo che il 14 aprile 1821 firma l’atto di soggezione. La firma di quest’atto gli aliena la simpatia dei liberali siciliani. Lascia la vita politica, dedicandosi alla salute pubblica.

    Bagheria, 22 settembre 1826

    Un denso polverone si innalza dalla trazzera che si snoda ai piedi del monte Giancaldo. Proveniente dai campi sterminati del feudo dell’Accia, la nuvola di polvere, sollevata da alcuni cavalieri, si muove rapidamente verso la Baarìa. Approssimandosi alle prime casupole, si può ormai scorgere alla testa del gruppo Don Tommaso, il gabelloto. Il padrone del feudo dell’Accia, il principe di Linguaglossa, don Silvio Bonanno Chiaramonte, il suo feudo non l’ha mai visto. Sua Eccellenza, che vive in città, ha dato la sua proprietà in gabella a Don Tommaso, conosciuto come u’nutaru, e ad altri come lui. Don Tommaso è seguito da una mezza dozzina di campieri. Indossano stivali e scapolare. Tutti portano il fucile sulle ginocchia. Gli uomini entrano in paese a gran galoppo, senza crucciarsi che qualche poveraccio possa finire sotto le zampe dei loro destrieri. Il notaio ha l’abitudine di tenere sempre tre o quattro cavalli in stalla. La giumenta semiselvaggia è la sua innamorata. La sua grande abilità consiste nello stare in sella con la doppietta avanti, saper fare una scappata a costo di rompersi l’osso del collo, senza cadere. I campieri li ha scelti per lo più dall’aspetto fiero e truce, con antecedenti per lo meno equivoci, pronti di lingua e di mano, alti, barbuti, con occhi di colore grigio indeciso, con capelli neri, arruffati, e vestiti tutti allo stesso modo. I gabelloti, come Don Tommaso, sono convinti che i liberi professionisti, e anche i funzionari del governo, siano destinati esclusivamente alla soddisfazione dei propri bisogni e li considera come una specie di liberti, servi emancipati. L’operaio e il contadino poi sono, secondo loro, una specie animale inferiore. Tanto meno poi riesce a comprendere che anche un miserabile abbia diritto alla giustizia, a godere del porto d’armi e di altri privilegi un tempo riservati soltanto ai galantuomini. Oggi è un grande giorno per Don Tommaso. Finalmente è arrivato il tanto atteso regio decreto firmato da Sua Maestà Francesco I. La Baarìa è adesso Comune autonomo di seconda classe e sede di Municipio. La cosa era ormai certa da giugno, da quando il Duca di Sammartino, l’Intendente del Valle di Palermo aveva dato il suo parere favorevole. La richiesta era stata avanzata nientemeno che nel ‘18, ma per anni il Decurionato di Palermo vi si era opposto, ovviamente, per la conseguente perdita delle entrate derivanti dai dazi e da altre imposte. Ma adesso la Baarìa, insieme ad Aspra, può contare ben 5.349 anime, anche se a dire il vero, la stragrande maggioranza di questa gente, forse l’anima non se la sogna neanche di poterla avere. U’ nutaru, borbonico di ferro, adesso deve prepararsi ad assumere la carica di primo sindaco e gli toccherà di gestire gli affari del nuovo Comune per i prossimi tre anni. Oltre a ricoprire la carica di Sindaco continuerà ad amministrare i beni dei Butera e ad esercitare la funzione di esattore delle imposte. Ma agli occhi dei contadini della Baarìa egli rappresenta soprattutto il gabelloto del feudo dell’Accia e, quindi, il principale ostacolo alla divisione di quelle terre ecclesiastiche che potrebbero essere concesse ai poveri contadini pagati a giornata, chiamati appunto, jurnatari. La restaurazione del vecchio ordine in Europa ha provocato una gravissima crisi nell’agricoltura anche a Bagheria. L’angustia del territorio e la povertà delle colture, pongono il problema dello sfruttamento di nuove terre. A sud dell’abitato si estende un vasto feudo appartenente ai monaci di Santa Cita che da sempre lo hanno abbandonato nelle mani di ingordi gabelloti. Non c’è un albero, non ci sono altre colture. Quattrocentocinquanta ettari che potrebbero dare lavoro e pane a migliaia di persone sono lasciati a pascolo naturale. La coltivazione di queste terre diventa l’obiettivo dei contadini e dei jurnatari come Rosario. La classe borghese, emergente da un’economia agricola basata sulla coltivazione della vite, comincia ad impossessarsi delle ville dei nobili decaduti e a costruirne di nuove. I nuovi ricchi, i curatoli e gabelloti mirano apertamente ad estromettere dal possesso delle ville, ma soprattutto dai feudi, i vecchi proprietari assenteisti, e ci sono i braccianti, i bunàchi, quelli con più fegato di quanto ne abbia Rosario, che combattono contro gli uni e contro gli altri per il possesso delle loro terre incolte. Anche di quelle ecclesiastiche. Rosario, u’ burgisi, fa appena in tempo a condurre rapidamente dentro la sua casupola l’asino, per non essere travolto dai cavalieri, insieme alla sua vestia. E’ stanchissimo. Come sempre ha trascorso tutta la santa giornata alla masseria della tenuta di Don Tommaso, che si trova a quasi due ore di cammino dal borgo. Lo attende una minestra di legumi poco condita, con un tozzo di pane nero, che raramente accompagna con qualche po’ di vino annacquato. Il tugurio dove vive con la moglie e la numerosa prole, è costituito da un locale angusto, senza pavimento, con le pareti a secco. In un angolo vi è il focolare, nell’altro il letto della famiglia, fatto di paglia, di cui una parte va messa sotto l’asino, il porco, le galline. A sera, tutti si addormentano, in mezzo all’umidità del suolo, alle esalazioni putride degli escrementi degli animali, al fumo. Rosario è sobrio, mansueto come il suo asino da soma, non dedito al gioco. E’ diffidente, malizioso, scettico, superstizioso. Refrattario a qualunque cosa che la società possa offrirgli in suo vantaggio, a meno che questo non sia materiale ed immediato. Rispettoso di ogni galantuomo come Don Tommaso. Sarebbe anche incapace a delinquere se non dovesse di tanto in tanto prestarsi a tenebrosi intrighi o a vendette private… Mentre ingurgita la sua minestra è tutto preso dai suoi crucci che si sono fatti più preoccupanti negli ultimi anni. Sulle spalle del povero Rosario pesano le persone stipendiate dal gabelloto. Il soprastante, che è il capo dei campieri, è una persona più colta dei suoi dipendenti, perchè deve sapere leggere e scrivere, e fa le veci del gabelloto, nella sua assenza. Uomo valido, burbero, risoluto, tutto d’un pezzo, rappresentando il padrone ed essendo lui che distribuisce sementi e strumenti di lavoro, trova sempre modo di fare la tara sui burgisi, che vedono, soffrono e tacciono per paura del peggio. Vengono poi il robettiere o magazziniere, il panettiere, il palafreniere, i bestiamari, il bardonaio, conduttore di sette muli per il trasporto dei prodotti del padrone, il curatolo degli aratri, il bovaro, il giumentaro, e dulcis in fundo, lo stuolo dei campieri, custodi del feudo e guardaspalle del padrone… Come se non bastasse, Rosario è pure vittima dei campieri, dei compagni d’armi e dei ladri. Il meglio che possa fare è d’intendersela con gli ultimi, rifiutando sistematicamente di cooperare nelle indagini sui reati. Si è convinto che il governo è usurpatore, scomunicato, protestante. "Ma come possono far del bene e garantire la giustizia, governanti che non credono alle anime del purgatorio e all’Immacolata"? Lo ha sentito dire più volte a Don Girolamo, il suo parroco, quando le domeniche sale sul pulpito a fare le sue prediche. Spesso, sia Rosario che i suoi compaesani, sono usciti dalla chiesa sentendo crescere la propria diffidenza per tutti i funzionari del governo. Il prete li autorizza a mentire e a non aver per loro che un apparente riguardo, in realtà odiati nel profondo del loro cuore. Rosario, come del resto i piccoli artigiani, vive in uno stato continuo di soggezione, nutrendo un odio profondo verso i galantuomini, i gabelloti, i campieri, i nobili, il re. Ha sempre spalleggiato chi si è dato alla macchia per sfuggire alla malagiustizia. I cappeddi li hanno sempre chiamati con disprezzo briganti. Ma a Rosario basta il fatto che solo costoro hanno alzato la testa contro le prepotenze e i soprusi, sia dei galantuomini che dei gabelloti e dei loro campieri. Come altre bunàche l’unica speranza la ripone nei vari Testalonga, Capraro, Leone, Bruno, i briganti che hanno saputo fare giustizia. Intanto, Francesco I, venuto a morte nel 1830, lascia il trono a Ferdinando II, il quale manda in Sicilia ad assumere la carica di luogotenente generale suo fratello Leopoldo, principe di Siracusa. L’avvento al trono di Ferdinando II e la sua politica di centralizzazione dello Stato è una delle cause principali di un crescente malcontento nell’Isola.

    L’Anno del cholera morbus

    Palermo, estate 1837

    Il console del Regno di Sardegna, Rocca, è intento a trasmette al suo governo il seguente dispaccio:

    «Palermo, 8 Giugno 1837

    Coll’ossequioso mio foglio nella data del 5 corrente mese sommisi all’Eccellenza Vostra alcuni cenni sul grippe sviluppatosi in questa Città, compisco ora al dovere di rassegnarle i seguenti due casi, quasi creduti di cholera morbus.

    Il giorno 6 detto mese diversi individui che travagliavano a bordo di una nave mercantile, ancorata in questa porto, procedente dalle Calabrie con legnami, dopo la fatica andarono a mangiare in una taverna, e fra gli altri cibi nocivi si satollarono di carne di capra, e pesce tonno; ritiratisi alle loro rispettive case, situate nel quartiere della Kalza, due degli stessi furono sorpresi da forti dolori al ventre, seguiti da tutti i sintomi, che fanno vedere essere colpiti dal cholera. Malgrado tutti i soccorsi statigli apprestati da medici, uno passò all’eternità alle ore 5 antimeridiane del susseguente giorno 7 e l’altro 11 ore dopo. Avuto avviso di simile accaduto il Governo, ed il Magistrato di salute ordinarono, il primo che la truppa di questa guarnigione non abbandonasse i loro quartieri, l’altro d’incordonarsi le strade, ove sono situate le abitazioni dei detti due individui, e di trasportarsi i cadaveri nel Lazzaretto per farsi dai chirurghi l’anatomia, alla presenza di diversi fisici. Tutto ciò si eseguì con molta celerità, questa mane poi ebbe luogo l’esame dei medici sui cadaveri, i quali giudicarono di comun consenso esservi molto a credere, che i suddetti individui sono stati colpiti dal cholera asiatico. Sul generale questa popolazione è nel più gran timore che si verifichi, e si propaghi il male, giova sperare intanto che i malevoli non approfittino di questa critica circostanza per far succedere de’ torbidi che porterebbero conseguenze più funeste della stessa malattia … Rocca».

    Il male epidemico, che dalle rive del Gange già da molti anni ha raggiunto Mosca, si è adesso diffuso in tutta Europa, e all’inizio dell’estate comincia a dilagare in Sicilia. Viene organizzato militarmente un cordone sanitario terrestre che si estende da Milazzo a Siracusa. Già nel mese di ottobre, il Magistrato Supremo di Salute a Palermo, aveva reso pubbliche le decisioni governative riguardanti il cordone sanitario, e le navi in servizio per il cordone sanitario marittimo continuano ad osservare le sue direttive:

    Essendo stati attaccati diversi punti dell’altra parte dei Reali Dominj dal Cholera Morbus, il Magistrato Supremo di Salute, per difendere la Sicilia dall’invasione di un sì micidiale flagello, stabilisce quanto segue: allorché i legni di crociera osserveranno che un bastimento faccia una navigazione sospetta, o conosceranno che provenga da un luogo di rifiuto, o di contumacia, ne informeranno i posti più vicini del cordone, onde raddoppiare la vigilanza, ed osservare che tale imbarcazione tentasse qualche furtivo disbarco

    Appena dichiarato che in un punto dell’Isola si manifesti il Colera, è vietato a chicchesia il vagare oltre i limiti del proprio Comune, senza sanitaria bolletta. I controventori saranno arrestati, e posti in contumacia a disposizione del Supremo Magistrato di Salute…

    Sia la municipalità che la polizia intervengono prontamente nei luoghi dove vengono segnalati i primi casi sospetti. Le case vengono barricate, le persone recluse in luogo separato, e alimentate a spese civiche. Nei primi quindici giorni di luglio la malattia è ormai un grave dato di fatto, e rende la città quasi del tutto deserta. L’accertamento della presenza del colera è compito di un medico. In seguito all’accertamento si riunisce una commissione sanitaria e se anche questa concorda sulla presenza del contagio, trasmette un rapporto scritto all’Intendente e al Supremo Magistrato di Salute. La zona colpita viene isolata, e per uscire occorre una bolletta a firma del sindaco che …" indicherà il nome e la filiazione della persona, la buona salute della medesima, e quella della Comune d’onde parte.

    …Indicheranno altresì che da venti giorni antecedenti non fu mai affetto da alcun male contagioso, o sospetto, e non viaggiò per luoghi infetti, o sospetti."

    L’epidemia viene dunque fronteggiata con cordoni sanitari, suffumigazioni, e creazione di lazzaretti. Il Magistrato supremo di salute dispone inoltre che i medici "…debbano ciascun di essi portare una boccetta di Cloruro di Calce sciolto in acqua, o di olio, e debba ungersene le dita prima e dopo di tastare il polso."

    Qualche medico cita il lavoro del naturalista Agostino Bassi, che un paio di anni prima aveva dimostrato la tesi che tutti i mali contagiosi di animali e vegetali derivano da parassiti, ma i rimedi contro questa malattia sono comunque pochi e per lo più inefficaci: bagni, oli, unguenti per frizioni, chinino. Viene ritenuto efficace lo zolfo, in varie forme, sia per prevenire che per curare. I corrieri hanno il permesso di valicare i cordoni. L’eccezione impone che il lasciapassare dichiari che il luogo di provenienza sia libero dal mal contagioso. Inoltre la mercanzia che si porta, cioè le lettere, vengono sottoposte a disinfezione. Normalmente le lettere vengono disinfettate nei lazzaretti esistenti nei porti e nelle città principali. Ovviamente, l’isolamento imposto dalla contumacia su uomini e merci comporta delle conseguenze negative su coloro che vivono del proprio lavoro. Le merci suscettibili provenienti da Napoli debbono sostare in contumacia per ventuno giorni. Si tenta di adottare delle misure correttive per aiutare chi non è in grado di approvvigionarsi del necessario. In ogni comune si costituisce una Delegazione del Governo per le vettovaglie, tuttavia, a lungo andare, la situazione non può che peggiorare. I popolani additano come cause possibili del contagio, l’opera di agenti governativi. Questa opinione si diffonde, malgrado le difficoltà di comunicazioni tra città e città, e mette a ferro e fuoco prima Siracusa, poi Catania, e scatena sommosse, seppure più limitate, a Palermo e nei villaggi limitrofi. Esplode l’ostilità aperta contro magistrati, sindaci, impiegati pubblici, gendarmi, sacerdoti, esattori delle imposte. Si afferma anche una mancanza di fiducia nei medici e nelle medicine. Si approfondisce l’odio nei confronti dei signori, cioè dei benestanti e dei nobili. Si comincia a mormorare di complotti, si sussurra di sette misteriose. Si dice che a provocare il colera siano sostanze venefiche sparse nell’aria, nell’acqua e nei cibi come misura estrema messa deliberatamente in atto dal governo per ridurre le bocche da sfamare, il cui numero è cresciuto troppo rispetto ai mezzi di sussistenza disponibili. Il diffuso sentimento antiborbonico, costituisce un terreno propizio ad accogliere qualunque ipotesi, anche la più fantasiosa ed incredibile, purché utile a mettere in cattiva luce l’odiato regime. I sospetti vengono confermati e amplificati dai circoli liberali, con l’intento di provocare in tal modo una insurrezione popolare in grado di abbattere la tirannia borbonica. A dire il vero anche il re sospetta l’opera di untori. Il decreto del 6 agosto a firma di Ferdinando II, nell’articolo primo recita: "Lo spargimento di sostanze velenose, ovvero le vociferazioni che si sparga veleno…"

    Le città insorte dichiarano immediatamente la loro indipendenza da Napoli. A Messina, a Catania, in tutte le città dell’isola, vengono diffusi proclami nei quali si afferma che Ferdinando II, persuaso di dover abbandonare la Sicilia, ha segretamente ordinato di distruggerne la popolazione. Pasquale Calvi, nei primi mesi del 1825 era stato scarcerato per ordine della Gran Corte criminale di Trapani per non essere state ben provate le accuse. Non potendo rientrare nell’amministrazione pubblica, si era stabilito a Palermo, per riprendere gli studi. Nel 1830 vi aveva conseguito la laurea in legge. Subito dopo aveva pubblicato un breve saggio: Cenni sulla necessità delle manifatture in Sicilia, nel Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia. A Palermo adesso il colera, nel breve corso di un mese, spegne le vite di ventiquattromila abitanti, e a Pasquale, l’epidemia gli porta via la moglie, morta dopo una breve agonia, lasciandolo solo con quattro figli. Tutti fuggono dalla città, tranne Don Francesco Paolo Gravina, ottavo e ultimo principe di Palagonia, discendente di una delle più illustri e ricche famiglie nobili del Regno delle Due Sicilie. Possiede una ricchezza senza pari. Si era sposato all’età di ventinove anni con la principessa di Palagonia. Lo affiancano solo un gruppo di nobildonne e di popolane. La generosità dimostrata da queste donne, gli dà l’idea di dar vita a una famiglia religiosa che si occupi soprattutto dei poveri: le Suore di Carità. La sua idea è quella non solo di dare un temporaneo sollievo ai poveri, ma di perseguire l’obiettivo "di rifarli uomini attraverso il lavoro, l’istruzione e la formazione religiosa". Sino a due anni prima aveva ricoperto la carica di prètore di Palermo. Adesso, Don Francesco sembra precocemente invecchiato, dal volto affilato e pallido. Gli occhi tristi e assenti. Un volto segnato dagli anni e dalla vita. Otto anni prima, confuso, ferito, e umiliato, per il naufragio del suo matrimonio, il principe si era chiuso nel suo palazzo e nessuno aveva avuto più notizie di lui. L’affascinante principessa di Palagonia si era invaghita del giovanissimo e aitante Francesco Paolo Notarbartolo. Il palazzo dei Notarbartolo, sito nel popolare quartiere della Kalsa, distava solo pochi metri da quello dei Palagonia. Nicoletta cominciò a frequentarlo anche la notte, rincasando spesso alle primi luci dell’alba. Confinatosi in una stanza del suo palazzo, adesso apre i battenti delle sue dimore a tutti i miserabili della città. Intanto a Bagheria, a nove miglia dalla capitale, giunge il colera, malgrado la stretta sorveglianza del cordone sanitario. Corre voce che nel mare di Aspra abbiano sostato alla fonda alcuni battelli sottoposti a quarantena. Per più di due mesi la campana a mortorio diffonde i suoi rintocchi. Si accendono mucchi di paglia nelle strade. I popolani vanno in giro tenendo spicchi di aglio sotto il naso, nella convinzione che il fumo dei falò e l’odore dell’aglio riescano a tenere lontani i germi del colera. Il teatro, viene usato come lazzaretto. Le vittime, poco meno di settecento, su una popolazione di 6800 abitanti, vengono sepolte nel cimitero, realizzato in tutta fretta dal sindaco don Gesualdo Pittalà, ai piedi del monte Giancaldo. Al primo accenno di diarrea, sintomo col quale si annuncia la malattia, si fa largo uso di olio di oliva e succo di limone, decotti e infusi delle erbe più strane. Per le strade non si osservano che bagagli, casse, vetture, lettighe. I mezzi di trasporto non bastano e si vedono pure le persone agiate gettarsi sulle spalle i fardelli e correre per le campagne. Si vedono madri con i loro bambini al petto, vecchi curvi dall’età. Si accontentano di un pagliaio, di una stalla, di una tettoia, senza curarsi delle privazioni.

    Bagheria, 12 luglio

    Nel gran caldo del pomeriggio il popolo è dietro San Giuseppe, Santa Rosalia, e l’Addolorata, portati in processione. Giunto nei pressi di villa Palagonia, il corteo viene assalito da contadini provenienti da un vigneto di contrada Furnari, dove si erano appostati, in attesa del passaggio della processione. E’ gente armata di asce e di roncole. L’obiettivo è quello di uccidere il medico-chirurgo don Carlo Scavotto e gli altri avvelenatori. Nello scontro cadono anche i due fratelli del medico, Vincenzo di ventisei anni, Francesco di tredici, Onofrio Ventimiglia, Cosimo Gattuso e un pastaio. Quest’ultimo colpito a morte, si aggrappa alla vara di S. Rosalia, ma viene finito a colpi di ronca. Lo stesso giorno la banda mette a ferro e fuoco l’intero villaggio, uccidendo, devastando. Incendiano gli archivi degli studi notarili. Infatti non è soltanto uccidere gli untori il fine di quella violenza ma, soprattutto, di eliminare i civili. Nelle carte dei notai sono avallate molte truffe e abusi che i nuovi ricchi hanno messo in atto per accaparrarsi le terre dei baroni e dei vecchi padroni, ormai a corto di capitali. I nuovi padroni a differenza dei vecchi si comportano da sfruttatori spudorati e arroganti. Costoro, ai poveri contadini e specialmente ai jurnatari hanno fatto rimpiangere quei baroni che con il loro paternalismo garantivano almeno la loro sopravvivenza. Tra questi disperati la parola d’ordine è: "mpara cutiddati a li nutara". I contadini della Bagheria, come nella rivolta delle bunàche del ’20, insorgono, forse nella speranza che si ponga fine alla oppressione

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