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I signori di Firenze
I signori di Firenze
I signori di Firenze
E-book384 pagine4 ore

I signori di Firenze

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Storie segrete dei protagonisti che fecero grande la città del giglio

La storia di Firenze attraverso le sue famiglie più importanti, che per abilità mercantili, finanziarie e politiche o per illustri natali ne costruirono le sorti. La supremazia di questi signori della città diede origine alla ricchezza materiale e spirituale di Firenze, con la realizzazione di grandi opere artistiche in veste di mecenati e come proprietari di torri, cappelle e palazzi ancora mirabili. Tanto prestigio non fu affatto pacifico né privo di ombre, e opere d arte e pagine di storia testimoniano intrighi, congiure e rivalità mai sanate. Senza questi “Signori di Firenze”, la città, con la sua storia e la sua arte, non sarebbe esistita. Il libro racconta i protagonisti della Firenze del passato e ogni capitolo è dedicato a una delle più influenti famiglie fiorentine: le gesta, gli intrecci di parentele e le inclinazioni politiche.

Tra i personaggi trattati nel libro:
Acciaiuoli • Adimari • Alamanni • Alberti • Albizzi • Altoviti • Antinori • Bartolini Salimbeni • Buonarroti • Buondelmonti • Buontalenti • Caccini • Capponi • Cavalcanti • De’ Cerchi • Cerretani • Corsi • Corsini • Davanzati • Della Gherardesca • De’ Medici • Donati • Frescobaldi • Galilei • Ginori • Pandolfini • Pazzi • Pucci • Ricasoli • Rucellai • Serristori • Strozzi • Tornabuoni • Torrigiani • Vecchietti • Vespucci • Visdomini
Ippolita Douglas Scotti
figlia del nobile commissario del quartiere di San Giovanni nel Corteo del Calcio Storico, è nata a Firenze. Ha scritto libri di vario genere e collaborato con associazioni culturali volte a valorizzare la città e le sue dimore storiche. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 perché sulla storia di Firenze che non puoi non sapere e I signori di Firenze.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2018
ISBN9788822726582
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    I signori di Firenze - Ippolita Douglas Scotti

    A

    Acciaiuoli

    Il capostipite, Gugliarello, era un guelfo originario di Brescia che si trasferì a Firenze attorno al 1160 per sfuggire agli editti imperiali imposti alla sua città da Federico Barbarossa. Stabilitosi in città, si iscrisse all’arte del cambio e si sposò con Ghisella. Per motivi politici, la famiglia venne esiliata a Lucca e successivamente si spostò a Cremona dove, nel 1248, gli Acciaiuoli fondarono una compagnia mercantile che si basava sul commercio dell’acciaio.

    Leone Acciaiuoli fece fiorire la compagnia a Firenze, e rapidamente la famiglia acquistò grande prestigio e prestò denaro a importanti figure dell’epoca. Fu cavaliere aurato, prese parte ai Dodici Buonomini, fu della magistratura, e nel 1260 diventò Capitano del popolo di Pistoia.

    Leone era un abile navigatore e raggiunse l’isola di Chio in Grecia dove, in una chiesa, trovò le reliquie di san Tommaso apostolo e le portò a Ortona, nella cripta della basilica di Santa Maria degli Angeli, che, da quell’avvenimento, divenne la basilica di san Tommaso Apostolo. Era il 1258 e la venuta di San Tommaso è ancora celebrata nella provincia di Chieti, con messe, processioni e rievocazioni storiche medievali. Il navarca comunque ebbe soprattutto grandissima importanza nel panorama finanziario di Firenze, dove metteva a disposizione i denari della sua banca a influenti personaggi.

    A garanzia di tali prestiti, e come ricompensa, gli Acciaiuoli ottennero anche privilegi di natura fiscale, come i diritti di esazione delle imposte. Si inserirono inoltre sempre più profondamente nella vita politica e amministrativa della città. Il consolidamento dell’influenza degli Acciaiuoli nella lotta politica fiorentina fra il Duecento e il Trecento, influì anche sull’espansione delle loro fortune economiche.

    Alcuni Acciaiuoli andarono nel regno di Napoli finanziando, fra l’altro, le signorie angioine su Firenze, e quelli rimasti a Firenze si distinsero come banchieri e ricoprirono alte cariche politiche e religiose. Si annoverano nella famiglia consoli delle arti, gonfalonieri di giustizia, vescovi e priori.

    Laudomia Acciaiuoli, figlia di Francesco, andò in sposa nel 1456 a Pierfrancesco de’ Medici il Vecchio. Con il tracollo dell’attività bancaria della seconda metà del xiv secolo, vi fu un indebolimento delle posizioni di potere godute dalla famiglia e ciò portò al declino dell’influenza esercitata dagli Acciaiuoli sulla politica del Comune di Firenze.

    Il tramonto della banca e della consorteria capitolò definitivamente quando si profilò la crisi finanziaria dei Bardi e dei Peruzzi.

    A questa famiglia è dedicato Lungarno Acciaiuoli, una torre, un palazzo e un castelletto merlato in via Pantin a Scandicci, che era stato costruito per messer Bencivenni Rucellai, già proprietario di possedimenti a Firenze. Il castello fu eretto in una posizione strategica rispetto alla valle dell’Arno, in quanto permetteva un esclusivo controllo militare sul fiume. Col passaggio ad altri proprietari, come i Davizzi, nel tempo la fortificazione abbandonò la sua tipica funzione difensiva, diventando, nel 1546, la residenza signorile del senatore Roberto Acciaiuoli, figlio di Donato, politico, umanista e letterato, la cui erma è apposta al lato sinistro del palazzo detto dei Visacci, in Borgo degli Albizi.

    In Borgo Santissimi Apostoli vi è il palazzo con la torre degli Acciaiuoli; questa costruzione dall’aspetto austero, sebbene presenti la torre scapitozzata come quasi tutte quelle fiorentine nel Duecento, è ancora facilmente distinguibile per la sua forma alta e stretta, che svetta ancora sugli altri edifici della zona. Il palazzo apparteneva precedentemente ai Buondelmonti, poi passò a Niccolò Acciaiuoli, figlio di Acciaiolo e Guglielmina de’ Pazzi e Gran Siniscalco del regno di Napoli, nonché fondatore della splendida Certosa di Firenze.

    Niccolò era amante delle lettere e buon amico di Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.

    Il Boccaccio dedicò alla sorella di Niccolò, Andreina, contessa d’Altavilla, la sua opera De mulieribus claris. Alla morte di Niccolò, sepolto alla Certosa, insieme ad altri membri della famiglia Acciaiuoli, il palazzo e la torre vennero ereditati dai monaci certosini, che lo possedettero fino all’inizio dell’Ottocento, quando avvenne la soppressione degli ordini monastici. Gli Acciaiuoli avevano un altro prestigioso palazzo che si affacciava sul Lungarno che prende il nome dalla famiglia, ma questa antica costruzione purtroppo venne distrutta dai tedeschi quando minarono nel 1944 le zone di accesso al Ponte Vecchio.

    Adimari

    Questa antica famiglia fiorentina è ricordata da Dante in varie occasioni, come nel canto xvi del Paradiso, vv. 115-120, che li vede come «l’oltracotata schiatta che s’indraca dietro a chi fugge, e a chi mostra ‘l dente over la borsa, com’agnel si placa». I versi danteschi vogliono rievocare l’oltraggio subito prima dell’imminente esilio del poeta, perché una cospicua parte dei beni che gli erano stati confiscati vennero usurpati dagli Adimari, che parteggiavano per i guelfi.

    Tegghiano Aldobrandi, figlio di Aldobrando Adimari, combatté nella battaglia di Montaperti ed è ricordato ancora da Dante che immagina di incontrarlo nella cerchia dei sodomiti nel Canto xvi dell’Inferno:

    L’altro, ch’appresso me la rena trita,

    è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce

    nel mondo su dovria esser gradita.

    Ancora nell’Inferno dantesco si incontrano membri dell’odiata famiglia Adimari, infatti è descritto nel canto viii quello spirito bizzarro che contraddistingueva il presuntuoso messer Filippo, che si era guadagnato il soprannome di Argenti perché eccentricamente pretendeva che i suoi cavalli fossero ferrati con questo nobile metallo. Egli è ricordato anche da Boccaccio nel Decamerone.

    Gli Adimari presero dimora nel centro della città, dove eressero anche la chiesa di San Cristoforo.

    Dopo la battaglia di Montaperti, Forese di Bonaccorso Aldobrandi assunse il comando delle milizie fiorentine che vinsero la battaglia di Benevento contro Manfredi di Svevia.

    Quando si profilò la scissione della parte guelfa, il ramo di Filippo Argenti andò a simpatizzare per la fazione dei guelfi neri, e mutò il nome della famiglia in Cavicciuli, mentre il resto della casata, conservando l’originario cognome, parteggiò per i guelfi bianchi.

    Nel 1343, gli Adimari contribuirono, insieme ad altre famiglie magnatizie, alla cacciata del duca d’Atene, il tiranno Gualtieri di Brienne.

    La famiglia Adimari ebbe anche personaggi di rilievo nel mondo ecclesiastico come il cardinale Alamanno e anche un beato, detto il beato Ubaldo da Borgo San Sepolcro.

    Nella sfera politica cittadina, storicamente vengono ricordati i consoli Bernardo di Adimaro, eletto nel 1173, Uberto di Bernardo di Adimaro, nel 1202, Ranieri di Adimaro, nel 1203, e Aldobrando di Gherardo di Adimaro, nel 1210.

    Alessandro e Ludovico Adimari, verseggiatori marinisti del secolo xvii, invece dettero un contributo letterario.

    La famiglia si estinse nel 1736 con la morte di Adimaro di Curzio.

    Alamanni

    La famiglia Alamanni, come denuncia il nome, aveva origini tedesche.

    Nel 1478 lo scrittore Ugolino da Verino ha descritto così la casata: «Nobile e antica fu la schiatta deli Alamanni. Gente venuta da lontano, originata da sangue germanico».

    Gli Alamanni avevano possedimenti nell’Oltrarno, nella zona della Costa dei Magnoli, fin dall’inizio del Trecento. La loro compagnia era diretta dal capofamiglia Salvestro e si occupava del commercio nazionale ed estero della lana e altri prodotti, ma come era uso in quel tempo si occupò anche di cambio.

    Gli affari degli Alamanni fruttarono molto e, di conseguenza, arricchirono sensibilmente la città, infatti il loro nome era fra quelli più in vista dal 1336 al 1340.

    Si dimostrarono all’inizio neutrali nei confronti dei Medici, e per questo motivo occuparono posizioni di rilievo nell’organizzazione cittadina, come gonfalonieri di giustizia e priori di libertà, ma poi denunciarono una aperta ostilità incarnata dalla figura di Luigi Alamanni, figlio dell’ambasciatore Piero, letterato, poeta, politico e agronomo. Luigi ebbe come precettore di filosofia Francesco Cattani da Diacceto.

    Luigi Alamanni partecipò alla congiura ordita durante i ritrovi culturali neoplatonici negli Orti Oricellari, frequentati anche da Niccolò Machiavelli, il quale dedicò proprio all’Alamanni la sua Vita di Castruccio.

    La congiura fu macchinata nell’accademia filosofica nel 1522 ai danni del cardinale Giulio de’ Medici. In tale misfatto risultò coinvolto anche Zanobi Buondelmonti e Jacopo da Diacceto, che per questo fu decapitato.

    Luigi Alamanni invece fuggì a Venezia e poi in Francia, ma la moglie, Alessandra Serristori, non lo seguì. In Francia trovò onori e protezione alla corte di Caterina de’ Medici, ma i beni di famiglia vennero confiscati. Tornò a Firenze con la cacciata dei Medici del 1527 e prese parte al governo cittadino, ricoprendo importanti ruoli diplomatici in Francia e a Genova.

    Qui si innamorò di Batina Larcara, citata nei suoi scritti come Ligura Planta. Ella era vedova di Ottobone Spinola, che ricopriva la carica di tesoriere del re di Provenza.

    Al ritorno dei Medici nel 1530, dovette nuovamente rifugiarsi in Francia, dove divenne il favorito di Francesco i e dove compose la maggior parte delle sue opere, restando comunque in contatto con illustri fiorentini come Benvenuto Cellini.

    Rimasto vedovo, si sposò nel 1542 a corte con la ventenne Elena Bonaiuti, una dama fiorentina che era del seguito di Caterina de’ Medici. Considerato uno dei maggiori letterati dell’epoca, è famoso anche per aver pubblicato e dedicato a Francesco i La coltivazione, un poema didascalico composto in endecasillabi sciolti, ispirato alle Georgiche virgiliane, sulle opere dei campi. L’opera rappresenta una delle prime espressioni della nuova agronomia europea, nonché il primo dei poemi sulle colture agrarie che divennero popolari soprattutto nel Settecento ma mai arrivarono a eguagliare l’importanza, letteraria e tecnica, del lavoro dell’Alamanni.

    La poetessa Isabella Morra dedicò all’Alamanni un sonetto intitolato Non sol il ciel vi fu largo e corte. L’erma di Luigi Alamanni si trova in compagnia delle altre sul secondo piano della facciata del palazzo dei Visacci.

    Viene ricordato dalla storia un altro membro della famiglia Alamanni, Jacopo, che fu decapitato nella loggia del ballatoio del Bargello per aver tentato di organizzare una milizia contro Carlo v, cercando inutili alleanze con altri stati italiani. La sua testa mozzata, come racconta Benedetto Varchi nelle sue Storie Fiorentine, venne impietosamente mostrata al popolo come monito.

    Suo figlio Antonio fu compositore di sonetti in stile burchiellesco, maniera che imitava quella bizzarra ed enigmatica del poeta fiorentino Domenico di Giovanni, detto il Burchiello.

    Anche Antonio Alamanni si dimostrò, come il padre, apertamente ostile ai Medici, ricoprì sotto la Repubblica cariche pubbliche entrando nei Dodici Buonomini all’inizio del Cinquecento, diventando vicario della Val di Cecina e poi di San Giovanni Valdarno, e nel 1525 divenne castellano di Firenzuola.

    La famiglia Alamanni possedeva ville a Bagno a Ripoli, una cappella in Santa Croce e un altare in Santa Lucia dei Magnoli.

    Alberti

    La famiglia è di origini antichissime e il capostipite è il conte Goffredo al quale Ottone i, nell’anno 867, confermò feudi nelle valli del Tevere e dell’Arno dove si trovava anche il castello di Catenaia, nel Valdarno casentinese, il cui nome ispirò lo stemma familiare, e altri possedimenti.

    Il primo a trasferirsi a Firenze nel xiii secolo fu Rustico, che era di parte guelfa e per la professione svolta diede il nome al ramo degli Alberti dei Giudice. Essendo giudice e notaio, Rustico rogò molti documenti comunali, fra i quali la pace con Siena nel 1203. Jacopo di Rustico, che ereditò la professione dal padre, ebbe un ruolo importante nel governo della Repubblica, e nel 1251 era fra gli Anziani quando fu stretta la lega fra Genova e Firenze contro i pisani.

    Alberto di Jacopo, nipote di Rustico, inaugurò la lunga serie di priori che la famiglia dette alla Repubblica: gli Alberti, infatti, vantano ben quarantotto priori e nove gonfalonieri.

    Nel 1310, quando era console della zecca, Alberto fece coniare un fiorino d’oro con tre monti in piramide. Nel 1313 venne incluso nella speciale Balìa che difendeva la città durante l’assedio di Arrigo vi, mentre i suoi parenti si distinguevano per il valore dimostrato nel battere l’esercito imperiale.

    Nel 1316, grazie alle sue arti diplomatiche, l’Alberti concluse la pace con Pisa.

    Il fratello di Alberto, Lapo, invece, fu il fautore della grande potenza finanziaria della famiglia, amministrando la compagnia commerciale con grande astuzia e accumulando molte ricchezze.

    Al grande e intelligente mecenatismo della famiglia Alberti si devono il coro e le vetrate di Santa Croce e la cappella di San Miniato al Monte. Gli Alberti ebbero molte dimore nel centro di Firenze, come per esempio la torre degli Alberti che svetta fra Borgo Santa Croce e via de’Benci.

    Gli Alberti furono grandi nemici degli Albizi che, dopo aver combattuto a lungo, li misero al bando.

    Il più illustre membro della famiglia che, a Firenze e non solo, regalò genio e bellezza fu Leon Battista Alberti. Egli fu una delle figure più poliedriche del Rinascimento: di intelletto unico e brillante, incarnava le qualità dell’uomo universale il cui ingegno e versatilità gli consentivano di eccellere negli ambiti culturali più disparati.

    Alberti era architetto, umanista, scrittore, musicista, matematico, archeologo, pittore, poeta ed erudito letterato. Era anche crittografo, in quanto inventò un metodo per generare messaggi criptati con l’aiuto di un apparecchio, il disco cifrante. Originario di Genova, si trasferì nel 1428 a Firenze dopo la revoca da parte della signoria del bando che aveva offeso la sua famiglia e probabilmente, almeno sino al 1431, andò in Francia e in Germania al seguito del cardinale Albergati.

    Nel 1435, Leon Battista seguì papa Eugenio iv a Firenze, dove entrò in contatto con l’ambiente artistico fiorentino in cui operavano, tra gli altri, Brunelleschi, Ghiberti, Paolo Uccello e Luca della Robbia.

    Alberti fu una figura emblematica della seconda generazione di umanisti proprio per il suo interesse nelle più svariate discipline. Fra i committenti fiorentini, il più illuminato fu l’amico Giovanni Rucellai, la cui arme è apposta sulla facciata della chiesa di Santa Maria Novella. Egli commissionò all’Alberti non solo il completamento della facciata della chiesa, ma il sacello del Santo Sepolcro progettato a imitazione gerosolimitana, nella cappella Rucellai della chiesa di San Pancrazio, oltre al Palazzo Rucellai e alla loggia.

    L’Alberti, inoltre, pur scrivendo numerosi testi in latino e quindi riconoscendone il valore culturale, fu un acceso sostenitore dell’uso della lingua volgare che considerava consono alle esigenze della nuova società nascente.

    Prolifico scrittore, fu autore di moltissime opere e partecipò alle sedute ferraresi e fiorentine del Concilio Ecumenico fra Chiesa latina e ortodossa che si svolse nel 1438-39.

    Albizi

    Capostipite della famiglia sembra fu Raimondino, un alemanno giunto in Italia nel x secolo a seguito dell’imperatore Ottone iii, dalla cui discendenza ebbe origine, due secoli più tardi, un affermato mercante, Albizzo di Piero, che da Arezzo si stabilì a Firenze acquistando il palazzo che sorge nel borgo del centro che porta il nome della famiglia.

    Qui gli Albizi si arricchirono viepiù e aderirono all’arte della lana, e numerosi membri coprirono cariche importanti e conseguirono i maggiori onori cittadini.

    Il primo a rivestire cariche pubbliche fu Uberto, priore nel 1303, nel 1306, anno in cui fu anche uno dei capitani del Comune di Firenze all’assedio di Monte Accianico, e nel 1310.

    Nel 1524, fu ufficiale di moneta e uomo d’arme e partecipò coraggiosamente alla resistenza contro Arrigo vi. Durante la battaglia di Montecatini, nel 1315, fu talmente valoroso che le truppe lo osannarono con un cantico rimasto famoso. A lui successe Antonio, guelfo di parte nera, priore nel 1325 e 1326, gonfaloniere di giustizia nel 1339 e più volte ambasciatore.

    Fu infatti a capo della ambasceria presso Ludovico re d’Ungheria, il quale lo armò cavaliere a speron d’oro. Uberto morì di peste nel 1348.

    Piero di Filippo di Orlando, uomo di spicco nella storia fiorentina e insignito delle maggiori cariche, fu il massimo esponente nella lotta politica scaturita fra gli Albizi e i Ricci.

    Escluso dal governo nel 1362, si recò a Napoli e fu decorato dalla Regina Giovanna i che lo investì del titolo di Gran Giustiziere degli Abruzzi.

    Rientrato a Firenze nel 1377, fu subito capitano di parte guelfa, cosa che scatenò vendette sulla famiglia durante il tumulto dei Ciompi. Fu giustiziato due anni dopo.

    Suo nipote Maso continuò la politica dello zio e, dopo aver prestato servizio in Germania presso i cavalieri teutonici, tornò a Firenze quando era ormai terminato il governo dei Ciompi.

    Caduti i suoi avversari, che erano i Medici e gli Alberti, signoreggiò sulla Repubblica fiorentina con piglio da dittatore. Maso morì nel 1414.

    Gli successe il figlio Rinaldo, che fu il principale antagonista, insieme a Palla Strozzi, di Cosimo il Vecchio. Mancando della forza di decisione del padre, ebbe la peggio nello scontro politico e fu condannato al confino a Napoli. Per vendetta mosse il duca di Milano contro i Medici e, finita la guerra, si ritirò ad Ancona. L’avvento al potere di Cosimo il Vecchio portò a un radicale ricambio della classe dirigente fiorentina, a discapito dei potenti Albizi.

    Marietta, la sorella di Rinaldo, colpevole di omicidio al fine di difendere le proprie virtù, fondò l’Ordine delle Clarisse nel convento di Santa Chiara, dove morì in odor di santità. Luca, il fratello, mise da parte l’odio familiare per la signoria dei Medici e, aderendo al partito mediceo, favorì il ritorno di Cosimo a Firenze e ne divenne in seguito uomo di fiducia, ottenendo anche importanti incarichi come ambasciatore. Fu poi nel 1442 gonfaloniere di giustizia e a più riprese membro del Consiglio dei Dieci di Balìa. Il ramo da lui derivato godette di ogni diritto e arrivò più volte a ricoprire importanti cariche politiche anche nel periodo del granducato, anche se in famiglia si annidavano ancora dei nemici dei Medici che si erano opposti al loro dominio, come Anton Francesco degli Albizi. La fazione antimedicea venne definitivamente sconfitta nella battaglia di Montemurlo del 1537 e Anton Francesco fu ricondotto a Firenze, processato, torturato e decapitato per tradimento al Bargello.

    Francesco di Matteo degli Albizi trascorse la giovinezza in Francia, godendo dei favori accordatigli da Francesco i. Diventò anche tesoriere di Giovanni dalle Bande Nere e lo seguì in molte battaglie. Cosimo i, memore dell’amicizia che aveva con suo padre, quando Francesco tornò a Firenze lo elesse nel Consiglio dei Duecento nel 1550 e nel 1555, degli Otto di Balìa e successivamente lo fece senatore. Francesco ricoprì anche i ruoli di capitano della cittadella di San Lorenzo nel 1526, podestà di Borgo San Lorenzo nel 1532, capitano della Montagna pistoiese nel 1540.

    Sposò Maria di Geri dei Pazzi ed ebbe vari figli.

    Nella famiglia emersero anche letterati e poeti come Franceschino di Riccio, rimatore e amico di Dante e di Guido Cavalcanti, e il nipote Franceschino di Riccardo, amico del Petrarca.

    Il periodo di predominio dell’oligarchia albiziesca fu un intenso momento della storia della Repubblica fiorentina e fu preludio del Rinascimento.

    Una curiosità botanica che riguarda la famiglia degli Albizi è la mimosacea Albizia, una pianta simile all’acacia, così denominata in onore di Filippo degli Albizi. Il naturalista fiorentino, infatti, fu il primo a introdurre la pianta in Europa nel 1770, da Costantinopoli.

    Proprio per questa provenienza, prima di essere chiamata in onore dell’Albizi, la pianta era conosciuta come l’acacia di Costantinopoli.

    Aldobrandini

    La nobile famiglia fiorentina degli Aldobrandini fece fortuna attorno al Trecento, grazie alla mercatura che consisteva in fiorenti commerci con l’estero e proficue attività finanziarie.

    Il mercante Benci Aldobrandini prese in moglie madonna Giovanna Altoviti, la quale fu molto amata dai fiorentini per la sua generosità, la sua operosità e la sua fede. La madonna morì in odor di santità e Firenze le dedicò anche una piazzetta, piazza Madonna degli Aldobrandini.

    La famiglia Aldobrandini si distinse con Aldobrandino, che ricoprì numerose cariche pubbliche e fu due volte gonfaloniere della Repubblica, una nel 1434 e una nel 1450. Anche il figlio Giovanni fu nominato nel 1476 gonfaloniere della Repubblica, poi nel 1480 divenne capitano di Sarzana.

    In tutto la famiglia Aldobrandini dette a Firenze ventinove priori, sei gonfalonieri e tre senatori.

    Silvestro Aldobrandini fu uno dei fautori della Repubblica fiorentina e fu esiliato attorno al 1530, dopo la caduta della Repubblica. Era un esperto giurista e fu incaricato di riformare le leggi prima a Venezia, poi a Faenza. Nel 1548 si stabilì a Roma, dove divenne avvocato concistoriale e poi segretario intimo di Paolo iv Carafa. La famiglia Aldobrandini si disperse nell’Italia centrale, in quanto non vi erano ottimi rapporti con la famiglia de’ Medici. In quest’occasione, la ricca casata si divise in tre rami: dei di Bellincioni, dei di Lippo, dei di Madonna che si trasformarono poi in dei del papa, i quali si trasferirono a Roma, perché il figlio di Silvestro Aldobrandini e Lisa Deti fu Ippolito Aldobrandini, ovvero Clemente viii. Alto e possente, dotato di un fisico resistente, anche se soffriva di gotta, Ippolito Aldobrandini era un lavoratore instancabile. Amava occuparsi personalmente di ogni cosa e soprattutto di favorire i nipoti, Pietro Aldobrandini e Cinzio Passeri Aldobrandini. Ma Ippolito fu munifico anche nei confronti del nipote laico Gian Francesco, cui le successive donazioni papali garantivano già nel 1598 la rendita annua di 60.000 scudi, ai quali si aggiunsero poi, tra il 1600 e il 1601, altre elargizioni sui proventi della Camera apostolica per complessivi 190.000 scudi.

    La figura di questo papa è molto controversa: condannò Beatrice Cenci per parricidio, e tale condanna la elevò al ruolo di eroina popolare, e Giordano Bruno, che inoltre dichiarò che il suo Spaccio della bestia trionfante era indirizzato direttamente contro il papa. Dopo la condanna, Giordano Bruno fu bruciato a Campo dei Fiori nel 1600.

    Anche i fratelli di papa Clemente viii, Giovanni, Tommaso e Pietro, ricoprirono alte cariche della curia. Gli Aldobrandini furono insigniti con i titoli nobiliari di principi di Meldola, duchi di Carpineto, duchi di Sarsina. In via Ghibellina a Firenze sorge Palazzo Borghese Aldobrandini.

    Alessandri

    Originatasi da un ramo degli Albizi, la nobile famiglia fiorentina ebbe come capostipiti i fratelli Alessandro e Bartolomeo di Niccolò degli Albizi.

    Il padre, Niccolò degli Albizi, morì di peste nel 1448 e fu gonfaloniere di compagnia nel 1330 e 1339, console dell’arte della lana nel 1331, dei Dodici Buonomini nel 1340 e 1344, dei priori delle arti nel 1342, capitano di Orsanmichele nel 1343, ufficiale alle gabelle nel 1344, dei xx provveditori alle fortificazioni di Pistoia e Arezzo nel 1342.

    I figli Alessandro, morto anche lui di peste, e Bartolomeo, rinunciarono alla consorteria nell’anno 1372, e vollero farsi di popolo, mutando lo stemma familiare e adottando un cognome patronimico. Il loro armoriale con l’agnello a due teste era in onore dell’iscrizione della famiglia all’arte della lana. Questa scissione si era rivelata necessaria perché serviva appositamente per non incorrere nella esclusione dai pubblici uffici a cui veniva condannata la famiglia Albizi.

    Abitarono fra le attuali via Lavagnini e piazza dei Leoni e possedevano anche l’ormai scomparsa torre degli Alessandri che, in coppia con l’altra, la torre di Sant’Andrea, posta all’incirca nell’angolo fra via della Noce e via Giuseppe del papa, costituivano la doppia apertura verso Pisa, nella seconda cerchia delle mura quattrocentesche. Gli Alessandri si schierarono contro i Ciompi e Michele di Lando durante il Tumulto, e ciò gli costò il palazzo familiare che fu incendiato e saccheggiato.

    Gli Alessandri dettero alla Repubblica fiorentina ventuno priori e otto gonfalonieri di giustizia e, successivamente, due senatori al principato.

    La scissione dagli Albizi giovò alla famiglia, tanto che, dopo la cacciata degli Albizi, Ginevra di Niccolò degli Alessandri, sposò Giovanni, il figlio prediletto di Cosimo de’ Medici.

    Antonio di Alessandro fu squittinato nel 1381, fu dei Dodici Buonomini nel 1400 e 1413, console della zecca nel 1400 e 1409, podestà di Pistoia nel 1403, commissario dell’armata di mare nel 1404, ambasciatore a Genova nel 1407, a Bologna nel 1409, a Perugia nel 1410 e a Trento nel 1413, gonfaloniere di compagnia nel 1411, venne insignito del cavalierato dell’Ordine del Drago dall’imperatore Sigismondo, podestà di Verona nel 1421 e anche provveditore alla camera del Comune nel 1428.

    In occasione dell’incontro fra la Chiesa latina e la Chiesa ortodossa del Concilio del 1439 a Firenze, l’imperatore Giovanni Paleologo lo insignì del titolo nobiliare di conte di palazzo, concedendogli

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