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Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere
Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere
Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere
E-book679 pagine9 ore

Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere

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Info su questo ebook

Un’imperdibile saga che racconta, con un tessuto narrativo sorprendente e un’accurata aderenza alla Storia del nostro Paese, la nascita e l’espansione capillare del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo. 

A Corleone non ci sono vie di mezzo: o nasci cappeddu o morto di fame. Il piccolo Saro appartiene alla seconda categoria. Ma a uno con la sua intelligenza ci vuole un batter di ciglia a capire che derubare, ricattare, uccidere sono attività mille volte più remunerative di qualsiasi lavoro di fatica. Al seguito di Ninuzzo, un piccolo boss, Saro inizia la sua carriera di mafioso. Ma ben presto le ambizioni crescono, e Corleone non basta più a soddisfarle: è tempo di lanciarsi alla conquista di Palermo, con una brutalità che supera ogni immaginazione. Impressiona persino gli stessi capi mafia, che non hanno esitazioni a servirsi delle prestazioni dei Corleonesi, veri e propri killer senza scrupoli. È così che Saro, strage dopo strage, guadagna un tale potere da sbaragliare tutti gli altri capi della Cupola, arrivando a trasgredire le leggi dell’Organizzazione stessa: prima tra tutte, quella che impone di non uccidere un rappresentante dello Stato, a meno che non sia la stessa Commissione mafiosa a deliberarlo. Saro Raìno, senza più nemici interni, è ormai il monarca di Cosa Nostra, il capo dei capi.
Vito Bruschini
Giornalista professionista, dirige l’agenzia stampa per gli italiani nel mondo «Globalpress Italia». Ha scritto testi per il teatro e per la televisione. Con la Newton Compton ha pubblicato, riscuotendo un notevole successo di critica e pubblico, The Father. Il padrino dei padrini; Vallanzasca. Il romanzo non autorizzato del nemico pubblico numero uno; La strage. Il romanzo di piazza Fontana; Educazione criminale. La sanguinosa storia del clan dei Marsigliesi; I segreti del club Bilderberg, I cospiratori del Priorato, Il monastero del Vangelo proibito e La verità sul caso Orlandi. In versione ebook ha pubblicato Il romanzo del boss dei boss. Rapimento e riscatto è il nuovo romanzo sul sequestro di John Paul Getty. I suoi libri sono tradotti all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2017
ISBN9788822717443
Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere

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    Anteprima del libro

    Il romanzo del boss dei boss. Da Corleone alla conquista del potere - Vito Bruschini

    Indice

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Disclaimer

    L'ascesa dei corleonesi

    1. Corleone animosa civitas

    2. Palermo o cara

    3. L'eredità della guerra

    4. Come nasce un padrino

    5. Gli eroi di Corleone

    6. Fine di un sogno

    7. Prima visita all'Ucciardone

    8. Anche i mafiosi s'innamorano

    9. Vertice all'hotel delle Palme

    10. Fine dell'onorata società

    11. A Tombstone arriva lo sceriffo

    12. L'assalto a Palermo

    13. La prima guerra di mafia

    14. Sicilia sotto assedio

    15. L'uccellino in gabbia

    16. E ora tocca al boss

    17. Il processo di Catanzaro

    Alla conquista di Cosa nostra

    1. In attesa di giudizio

    2. Il canto dell’usignolo

    3. La legge non vive nei tribunali

    4. L’inizio della lunga latitanza

    5. Ma la felicità non è di questa terra

    6. Il summit di Zurigo

    7. La lunga notte del massacro

    8. Istituzioni allo sbando

    9. La cupola s’interroga

    10. Mai fare promesse

    11. Le coincidenze del destino

    12. Le manie di un boss

    13. Il giudice e Ninetta

    14. La mafia e il principe

    15. Morte di un reporter d’assalto

    16. Tanti soldi e subito

    17. Non giurare mai sui santi

    18. C’è sempre una prima volta

    19. Requiem per un procuratore

    20. L’orgoglio delle donne siciliane

    21. La stagione dei sequestri

    22. Sul trono di Corleone

    23. Troppi cadaveri per caso

    24. Fine di un boss

    25. L’elogio funebre del giaguaro

    Cadaveri eccellenti

    1. Il fumo uccide

    2. Tommix in Sicilia

    3. La vendetta del capo

    4. Una lunga scia di sangue

    5. Mattanza senza fine

    6. L’onore si può solo perdere

    7. La festa è finita

    8. Chi sarà il prossimo?

    9. La strage continua

    10. I missili di Comiso

    11. C’era un generale a Palermo

    12. Sagunto viene espugnata

    13. Il regno di Saro

    14. Palermo come Beirut

    15. Un poliziotto di strada

    16. Crolla il muro dell’omertà

    17. Caccia ai pentiti

    18. Il blitz di San Crispino

    19. La cambiale di Moncada

    Lo Stato a Corleone

    1. Chìnati alla tempesta

    2. Il papa nella rete

    3. Mafia alla deriva

    4. La giustizia della mafia

    5. Nel nome del popolo italiano

    6. È primavera a Palermo

    7. Settembre nero a Palermo

    8. Il patto scellerato

    9. Guerre sotterranee

    10. Colpire al cuore dello Stato

    11. La strategia della iena

    12. Una morte inutile

    13. Cadaveri molto eccellenti

    14. 1992, l’anno della rivoluzione

    15. I preparativi dell’attentatuni

    16. La scelta dell’ingegnere

    17. Qui muore la speranza…

    18. 57 giorni di agonia

    19. L’orgia dei pentiti

    Il vendicatore

    1. La milizia armata

    2. La morte al citofono

    3. Sei bare d’estate

    4. Palermo come Beirut

    5. Il grande architetto

    6. Una semplice domanda

    7. Vogliamo trattare?

    8. La squadra di Ultimo

    9. ’U papellu di Raìno

    10. Catturate la belva

    11. Fuga dai corleonesi

    12. Una vita borderline

    13. Il patto scellerato

    14. La resa dei conti

    15. Affari di Stato

    16. Menti raffinatissime

    17. La fine del corleonese

    1856

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1744-3

    www.newtoncompton.com

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Foto: © Shutterstock.com

    Vito Bruschini

    Il romanzo del boss dei boss

    Da Corleone alla conquista del potere

    Disclaimer

    Il presente romanzo, seppur prenda spunto da fatti di cronaca, è un’opera di mera fantasia.

    Pertanto, qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone reali è puramente casuale.

    L’ascesa dei corleonesi

    1

    Corleone animosa civitas

    Corleone, Sicilia, maggio 1943

    Giovanni spingeva il suo vecchio carretto, risalendo la polverosa Strada provinciale che, subito dopo la Villa comunale, s’immetteva tra le prime casupole di mattoni e fango alla periferia del paese. A quel tempo Corleone era un abitato desolato, popolato da anziani, donne e pochi uomini. La fame atavica, il lavoro mal pagato nei campi, le ingiustizie dei gabellotti e dei padroni, il peso del potere mafioso, avevano spinto i più giovani e ardimentosi a emigrare a nord, in Liguria e Piemonte, dove c’era bisogno di braccia per lavorare la terra e muscoli per spalare la sabbia dei fiumi.

    Eppure Corleone era pur sempre una capitale. Adagiata in una conca naturale dominata dalle Rocche Soprana e Sottana e dalle balze della Montagna Vecchia, sorgeva nel cuore delle pianure della Sicilia occidentale e sin dai tempi più antichi, in quel territorio abbandonato dagli uomini e da Dio, era assurta a capitale della mafia del feudo del Principe Licata.

    Risalendo la Provinciale, senza stancarsi mai di spingere il carretto carico di paglia e ortaggi, Giovanni passò davanti alla chiesa Matrice, caratterizzata dalle due lunghe scalinate che confluivano, come una

    V

    rovesciata, al grande portale, e arrivò a Piazza Garibaldi, l’ombelico del paese. Qui, all’ombra della chiesa Madre si apriva uno slargo dove era riconoscibile il palazzo del Comune con la scritta di vernice nera. Di lato, a chiudere la piazza, c’era la tenenza dei carabinieri e di fianco i locali del Banco di Sicilia. Accanto c’era il bar Centrale. Qui gli uomini si ritrovavano la sera per bere un bicchiere di vino e giocare a carte, prima di ritirarsi a casa per andare a cena.

    Nella piazzetta, poco più di uno slargo rettangolare, erano dunque riuniti i poteri che dominavano la vita di quei poveri cristiani: il potere della Chiesa, quello dello Stato e quello economico.

    L’antico palazzo a due piani dove si trovava la tenenza dei carabinieri, era abitato dal dottor Nazzaro, il mammasantissima che imperava su Corleone. Cosicché nella piazzetta era rappresentato anche il potere mafioso che, per una incredibile beffa del destino, in paese sovrastava fisicamente, e anche psicologicamente, quello dello Stato.

    Giovanni era un contadino e neppure il più povero tra i suoi compaesani. In Sicilia le classi sociali erano costituite dai nobili latifondisti, dai professionisti, dai gabellotti, dai campieri e ai gradini più bassi, dai mezzadri, che operavano sui terreni dei latifondisti e infine dai braccianti che lavoravano, quand’erano fortunati, a giornata. La maggioranza della popolazione apparteneva alle due ultime categorie. Non la famiglia di Giovanni però perché il padre gli aveva lasciato in eredità quattro tumuli di terra distribuiti in diverse contrade intorno a Corleone. Così Giovanni trascinava la sua vita correndo dall’uno all’altro terreno, spezzandosi la schiena per coltivare un po’ di frumento, fave, patate e verdure che, oltre a sfamare la famiglia, utilizzava per barattare un sacco di lana di pecora per i maglioni invernali o con qualche attrezzo per il lavoro dei campi.

    Aveva cinque figli Giovanni, tre maschi e due femmine e un sesto era in arrivo. Il più grande, che tutti chiamavano Saro, era un ragazzo robusto, mani forti e un carattere estroverso… ma era piccolo di statura. Aiutava il padre nei campi fin dall’età di sette anni. E non era un’eccezione perché a quel tempo a Corleone i figli maschi dei contadini e dei pastori, dopo la seconda o terza elementare, il periodo necessario per imparare a vergare la propria firma, erano costretti ad abbandonare la scuola per aiutare la famiglia.

    A chi faceva notare alla mamma quanto il figlio maggiore fosse corto, lei ribatteva piccata che il ragazzo aveva soltanto tredici anni e che doveva ancora sviluppare. Il tempo le avrebbe dato torto perché Saro tale restò anche dopo l’adolescenza.

    Il ragazzo non lo dava a vedere, ma soffriva per la condizione di estrema indigenza in cui versava la sua famiglia. La madre, malgrado l’ultima gravidanza avanzata, continuava a recarsi alle fontane per lavare i loro poveri panni, raccoglieva cicoria, erbe e carrube per la minestra e la sera faceva consumare l’olio della lucerna filando la lana per i maglioni invernali.

    La guerra volgeva al suo terzo anno e l’insipienza e la codardia dei pubblici amministratori, avevano esasperato la popolazione che ormai si lamentava apertamente e inveiva contro Mussolini e i suoi gerarchi, senza più preoccuparsi delle rappresaglie delle Camicie nere del paese. L’illuminazione, l’acqua, i trasporti, il rifornimento alimentare, niente più funzionava da quando le incursioni dei bombardieri americani sulle città siciliane avevano seminato lutti e rovine.

    I corleonesi erano da sempre gente agguerrita e ostinata. Questo loro carattere derivava da una lunga serie di violenze e ingiustizie che avevano dovuto subire del corso dei secoli. Più volte riuscirono a riscattare l’indipendenza feudale, tanto che il comune fu insignito dal titolo di Animosa Civitas, attribuitogli dall’imperatore Carlo

    V

    .

    Dopo che a maggio le basi nazifasciste nordafricane erano state conquistate dagli eserciti alleati ed erano cadute anche Pantelleria e Lampedusa, la Sicilia stava per diventare il nuovo teatro di guerra, in previsione dell’imminente invasione.

    A difendere l’isola erano rimasti pochi aerei da caccia e una contraerea del tutto inefficiente. Senza più nessuno in grado di contrastarle, le squadriglie dei bombardieri anglo-americani scorrazzavano nei cieli siciliani anche di giorno.

    Saro aveva imparato a riconoscere il ronzio dei motori quand’erano ancora sulla linea dell’orizzonte e indicava al padre le formazioni alte nel cielo. Un reduce della campagna d’Africa gli aveva insegnato a riconoscerli. I B-24 Liberator erano quelli con i doppi piani di coda, mentre i P-38 Lightning avevano la doppia fusoliera. I Wellington erano inglesi e avevano due motori. Nel cielo sembravano tante croci nere, ma nel momento che passavano sopra le teste erano ben riconoscibili nei loro colori di guerra.

    A volte si dirigevano verso Agrigento, altre volte tornavano dai bombardamenti di Palermo dove alcuni compaesani aveva raccontato storie tremende di morte e disperazione.

    La madre di Saro ringraziava il Signore che li aveva fatti nascere a Corleone, dove non c’era niente da bombardare e pregava di preservarli ancora da quegli orrori.

    Ma le preghiere non sempre vengono ascoltate.

    ***

    Soluq, Libia, maggio 1943

    Il capitano pilota Ralph Jackson, un giovane californiano di Riverside, sentiva la responsabilità del comando in modo esasperato. Aveva fama di essere molto prudente e qualcuno mormorava «forse nemmeno troppo coraggioso», ma non si trattava di avere più o meno ardimento, a lui stava a cuore sopra ogni cosa la vita dei suoi uomini. Più volte aveva dichiarato di preferire tornare da una missione a mani vuote, piuttosto che lanciarsi in imprese disperate, confidando soltanto nella fortuna. Ralph Jackson aveva raggiunto i trent’anni, e non dimenticava che gli altri nove membri del suo equipaggio erano tutti ragazzi dai ventidue ai ventisei anni, in pratica poco più che adolescenti.

    Apparteneva al 512° Squadrone del glorioso 376° Gruppo di bombardamento pesante, il primo ad aver sganciato una bomba in Europa e in Italia.

    Alla testa del suo equipaggio si stava recando nell’hangar dove era stato convocato il briefing per la missione del giorno. Erano le prime ore dell’alba e il freddo notturno del deserto li costringeva a coprirsi con i pesanti giubbotti di pelle foderata.

    Il comandante del 376°, colonnello Keith K. Compton, come al solito era stato tra i primi ad arrivare all’appuntamento. Sorseggiava una tazza di caffè in compagnia dei suoi luogotenenti. Sulla parete alle loro spalle era stata affissa la grande cartina del Mediterraneo meridionale dove al centro era ben visibile la Sicilia.

    La sala era gremita dai capi squadriglia, piloti, bombardieri e navigatori. C’era un’atmosfera rilassata, sembrava più una riunione tra amici che un meeting per organizzare un bombardamento a tappeto.

    Il brusio fu interrotto dall’entrata del comandante della base.

    Il colonnello Theodor Brandon si recò a passo spedito verso la cartina geografica. Rispose al saluto del comandante del Gruppo e, rivolgendosi agli equipaggi disse: «Il nostro obiettivo è Palermo», si voltò verso la carta e segnò con l’indice la città a nord ovest dell’isola. «Oggi sono stato autorizzato a comunicarvi che lo sbarco delle nostre truppe in Sicilia è imminente», un mormorio di soddisfazione si alzò nell’hangar. Il colonnello riprese a parlare: «Prima di ora lo Stato maggiore aveva mantenuto segreta l’Operazione Husky per il timore che italiani e tedeschi rafforzassero questo quadrante di guerra. Abbiamo fatto di tutto per ingannare il nemico. I nostri uomini dell’

    OSS

    hanno persino abbandonato in mare il cadavere di un uomo con un biglietto crittografato nascosto nei risvolti della giacca, dove si annunciava che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia o in Sardegna. Il riserbo sembra aver avuto successo. Hanno lasciato a difendere la Sicilia quattro divisione italiane dotate di pochi pezzi di medio calibro, e due tedesche composta da veterani dell’Africa senza nessuna voglia di combattere ancora. Le loro aeronautiche sono a pezzi. Poche decine di caccia funzionano ancora. In queste settimane i vostri raid hanno distrutto sulle piste oltre duecento velivoli. Ottimo lavoro! I bombardamenti sulle città hanno piegato il morale della gente. Dobbiamo portare l’Italia fuori dal conflitto o con una pace separata o con una sollevazione popolare che costringa i tedeschi a un’occupazione totale della penisola, così da obbligarli a spostare le truppe dagli altri fronti. Dai nostri agenti segreti abbiamo saputo che la popolazione è stanca della guerra e di Mussolini. L’Office of Strategic Services ha spianato la strada ai due contingenti che sbarcheranno sull’isola. Hanno preso accordi con i boss mafiosi per non avere intralci durante l’avanzata. Noi dovremo continuare a martellare il nemico fino al giorno dello sbarco. Il vostro comandante vi comunicherà i piani di volo. Signori, vi auguro buon lavoro».

    Al suo saluto tutti scattarono sull’attenti, mentre il comandante iniziò a fare l’elenco delle squadriglie che, a gruppi, sarebbero decollate in testa allo stormo.

    Il B-24 Liberator di Ralph Jackson prese il volo dopo il quarto squadrone. I ragazzi scherzavano e prendevano in giro i superstiziosi. Non c’era l’atmosfera cupa delle missioni sulle città tedesche. Sapevano che non avrebbero avuto un forte sbarramento contraereo, anche se il pericolo poteva concretizzarsi da un momento all’altro nel moderno caccia italiano, il Macchi 205, veloce come lo Spitfire, molto manovriero, ma soprattutto dotato di due micidiali cannoni da 20 mm e due mitragliatrici da 12,7.

    Tre ore e mezzo dopo il decollo la formazione arrivò in vista dell’isola. La squadriglia virò sulla sinistra e iniziò il periplo della costa occidentale. Il loro obiettivo era il porto di Palermo ed Ernest Clark, il navigatore, doveva dirigerli sulla città dalla direzione nord-nord-ovest. Spettava poi a Denton McAfee, il bombardiere, centrare il bersaglio.

    Jackson e il copilota, John Crosby, identificarono la rocca di San Vito Lo Capo. Si diressero sull’isola delle Femmine, l’altro riferimento visivo. La lasciarono alla loro destra, quindi iniziarono un’ampia virata di novanta gradi verso sud ed entrarono nel corridoio disegnato da Clark. L’obiettivo era stato raggiunto senza alcuna reazione da parte del nemico.

    «Bombardiere, stiamo arrivando su Palermo», avvisò il comandante con largo anticipo.

    Denton Mc Afee si chinò sul mirino di puntamento, il nuovissimo Sperry. Liberò dalla sicura il pulsante rosso, lo impugnò e si concentrò sul visore.

    La contraerea italiana era entrata in azione e gli spostamenti d’aria delle esplosioni faceva sobbalzare il B-24.

    Il loro Liberator arrivava dopo altri quattro squadroni che, sganciato il loro carico di bombe, si trovavano già sulla rotta di casa.

    Il fumo e il polverone provocato dalle deflagrazioni ricopriva totalmente la città e la periferia come un grigio sudario.

    McAfee, il bombardiere, non riusciva a individuare il porto.

    «Non vedo niente», urlò.

    Da dietro Ernest Clark ad alta voce gli disse: «Ci sei! Secondo i miei calcoli sei sull’obiettivo. Sgancia!».

    I proiettili della contraerea continuavano a esplodere sempre più vicini.

    «Chi ha detto che doveva essere una passeggiata?», si lamentò il secondo pilota.

    «C’è troppo fumo. Non vedo niente!», urlò McAfee. Il pollice fremeva sul pulsante, ma non osava sganciare così, alla cieca. Per quanto ne sapeva potevano trovarsi su un ospedale.

    «Sgancia! Sgancia!», gridò il navigatore. «Ci hanno preso di mira!».

    Jackson, il comandante, continuava a mantenere la rotta. Parlò nell’interfono: «Denton, vuoi mollare quelle cazzo di bombe?»

    «Comandante il fumo e la polvere mi impediscono la visuale. Non percepisco niente», replicò il bombardiere con l’occhio incollato al mirino dello Sperry.

    «Siamo fuori, siamo oltre l’obiettivo!», gridò Clark misurando con il regolo velocità e rotta sulla cartina.

    «Ok, ho capito», disse risoluto il comandante. «Facciamo un altro passaggio».

    L’ennesima esplosione fece sbandare paurosamente l’aereo. L’equipaggio, al colmo della tensione, ebbe un soprassalto.

    «Ci hanno colpito?», domandò Clark, guardandosi intorno per scoprire se c’erano fiamme nella carlinga.

    «Calmati Clark, è tutto sotto controllo», gli rispose uno dei mitraglieri. «Ci hanno solo sfiorato. Forse il prossimo sarà quello buono», sorrise sarcastico.

    Il navigatore lo mandò a quel paese.

    John Crosby, il secondo pilota, strinse la cloche per assecondare l’imminente manovra. «Jackson, riproviamo il passaggio?», domandò inutilmente.

    «Non hai sentito?», rispose nervoso il suo comandante.

    «Ma se non vedeva il terreno prima, non lo vedrà neppure ora», commentò concentrandosi sugli strumenti il secondo.

    Ma Jackson non lo stava più a sentire, preso com’era a virare. «Ernest, dammi le coordinate per il rientro. Facciamo una manovra a 360 gradi».

    Jackson prima del B-24 aveva pilotato i B-17, le Fortezze volanti. Non c’era paragone con la facilità d’impiego del Liberator. Quell’aeroplano era in grado di operare manovre molto strette, ottime per sfuggire agli assalti dei caccia nemici e della contraerea.

    Al termine della virata il navigatore gli comunicò la nuova direzione da tenere per incrociare il porto.

    «Occhio, Denton, perché tra trenta secondi dovresti avere nel mirino le murate dello scalo», gli comunicò Ernest Clarke.

    Denton McAfee era rimasto attaccato al mirino. Il vento stava spostando verso l’entroterra le nubi delle esplosioni. Finalmente riusciva a vedere porzioni di terreno. Riconobbe le strutture di uno stadio, poi alcuni palazzi… erano di nuovo sulla città. Il fumo si era diradato e lo Sperry inquadrò le inequivocabili strutture del porto. McAfee aspettò che le linee del mirino inquadrassero il molo centrale, poi schiacciò con tutta la forza il pulsante. I portelloni si aprirono automaticamente e le rastrelliere si liberarono del carico.

    Il Liberator ebbe un sussulto. Jackson era abituato a quel sobbalzo. Voleva dire che le bombe stavano andando a segno e che la missione era compiuta: potevano tornare a casa. Sentì alle sue spalle le urla di gioia dei ragazzi.

    «Presto, si rientra!», urlò di gioia John Crosby, il suo secondo. Ma l’entusiasmo dell’equipaggio fu gelato dalla voce del bombardiere.

    «Comandante! Emergenza!», disse nel laringofono.

    «Che succede adesso, McAfee?»

    «Il portellone del vano delle bombe è rimasto aperto».

    «Sento una turbolenza. Vai a vedere cos’è successo e cerca di chiuderlo. Porta William con te», ordinò il comandante.

    McAfee chiamò l’ingegnere, si fece aiutare ad aprire la botola e insieme si calarono nel pozzetto che comunicava con il deposito. Quella via era anche l’uscita d’emergenza in caso d’incidente.

    Presto l’arcano fu svelato. Una delle bombe era rimasta incastrata nella paratia di destra e impediva ai portelloni di chiudersi.

    McAfee e William si guardarono preoccupati. Non c’era modo di arrivare alla bomba e comunque era molto pericoloso muoversi con il vuoto sotto i piedi. William Linton, l’ingegnere dell’equipaggio tentò di aprire manualmente il portellone forzandolo dalle scanalature sul fianco della fusoliera. Ma era un’impresa impossibile in quelle condizioni. Il vento che entrava nel vano creava dei vortici che costringeva i due a sorreggersi per non precipitare nel vuoto.

    La rotta del Liberator scendeva perpendicolarmente all’isola per arrivare alla costa meridionale. «William, aggiornami», s’informò Jackson.

    «Comandante, dobbiamo trovare il modo di disincagliare quella maledetta bomba. Non possiamo atterrare in queste condizioni», rispose l’ingegnere. «La spoletta sporge verso il basso. Come tocchiamo terra saltiamo tutti in aria».

    «Non voglio sentir dire queste cazzate! Ingegnere, ingegnati! Trova una soluzione!», ordinò perentorio il comandante.

    William si avvicinò al collega. «Denton, l’unica soluzione è che uno di noi si cali fino alla bomba e la liberi dal portello. La lasciamo cadere fuori dall’aereo».

    «Ma sei pazzo! Rischiamo di precipitare anche noi!»

    «No, se ti lego».

    Bestemmiando Denton McAfee si lasciò legare con una cima attorno alla vita. Il capo della fune fu fissato a un robusto corrimano, poi William lo aiutò a calarsi fino al vano delle bombe, tenendo la corda per non farlo cadere.

    «Non mi mollare!», gli gridò per superare l’ululato del vento.

    «Pensa alla bomba. Io penso a te!», gli rispose l’amico.

    McAfee raggiunse finalmente l’ordigno. Sull’ogiva qualcuno dell’equipaggio aveva scritto con la vernice bianca «Hallo Mussolini!». McAfee continuò a borbottare contro tutto il mondo e in particolare contro Mussolini. Provò a muoverla con le mani, ma i pannelli scorrevoli la serravano.

    «Quei maledetti si aprivano e si chiudevano in automatico. Questa volta dovevano essersi chiusi prima del previsto», pensò McAfee. Stramaledisse i congegni non comandati dalla mano dell’uomo. Continuò a tentare di smuoverla con tutte le forze, ma quella non si spostava di un millimetro. Allora al colmo della disperazione, cominciò a prenderla a calci. Dopo un po’ di quella ginnastica, allo stremo delle forze, finalmente la sentì spostarsi. Moltiplicò le forze e alla fine la bomba scivolò sulla lamiera e precipitò nel vuoto. Istantaneamente i portelloni si richiusero e il bombardiere McAfee poté tirare un sospiro di sollievo.

    Questa volta, per molti giù in basso, il destino piombò dal cielo.

    2

    Palermo o cara

    Quella mattina del 9 maggio il podestà di Palermo aveva deciso di insignire la città della medaglia di mutilata, per le distruzioni subite durante il bombardamento di tre settimane prima. Furono sganciate 1200 bombe che avevano devastato corso Vittorio Emanuele e via Cavour, gli scali ferroviari di Brancaccio e piazza Ucciardone. Alcune bombe avevano centrato il deposito dei tram mettendo in crisi i trasporti cittadini.

    Nei mesi precedenti, Palermo aveva subito numerosi raid aerei. Ma le missioni avevano sempre preso di mira le postazioni strategiche come il porto, la ferrovia, le fabbriche. Quello del 18 aprile invece era stato diretto volutamente contro la popolazione. Per questo molte famiglie di palermitani avevano deciso di lasciare la città e di sfollare nei paesi vicini.

    In tutti c’era lo scontento di una guerra che non sentivano propria, di una guerra che stava portando via le forze migliori.

    Il palco per la cerimonia dell’assegnazione della medaglia alla città martire era stata organizzata in piazza Bologni, ma sin dalla mattina Radio Londra aveva avvisato la popolazione che Palermo stava per subire una nuova e più massiccia incursione. Consigliava di disertare la cerimonia e di andare a ripararsi nei ricoveri antiaerei.

    I rifugi, come in tutte le città italiane, erano dei ripari improvvisati: palestre, cantine dei palazzi, gallerie stradali, depositi merci. Queste trappole fecero più morti delle stesse bombe. Quello di via Monte Pellegrino fu centrato in pieno nel bombardamento del 15 aprile e in un istante morirono le 98 persone che vi si erano rintanate.

    Quel giorno le prime formazioni di bombardieri arrivarono a mezzogiorno e trentacinque minuti, puntuali come aveva predetto Radio Londra. Erano così tanti da oscurare il sole: 222 aerei sganciarono sulla città 1500 bombe. Palermo subì, tra tutte le città italiane, il primo bombardamento a tappeto avvenuto sul suolo italiano. Furono colpiti molti quartieri, monumenti, scuole, ospedali. Non si salvarono neppure le chiese. In via Candelai fu preso l’Oratorio della Compagnia di S. Francesco di Paola. In piazza Ponticello, la Chiesa della Madonna di tutte le Grazie. In via Maqueda, la Chiesa di S. Croce.

    Il cielo luminoso di quella giornata primaverile fu oscurato da una massa impenetrabile di fumo e polvere. All’improvviso si fece buio. Da mezzogiorno si passò in un baleno all’oscurità della mezzanotte. E lo scempio non finì lì perché, dodici ore dopo, una seconda ondata di 23 bimotori Wellington completarono il lavoro dei loro colleghi, gettando bombe a grappolo e due ordigni da 1814 chilogrammi che distrussero quel poco ancora rimasto in piedi.

    I palermitani si stancarono di contare i morti. Forse erano tremila o forse più. Nessuno dimenticò più quell’infausto giorno.

    ***

    A Corleone, a soli sessanta chilometri dal capoluogo della regione, gli echi della guerra arrivavano appena riverberati. Nelle campagne la miseria si annusava nell’aria.

    Principi, baroni e aristocratici avevano affidato la gestione dei loro latifondi alla cura dei gabellotti, i quali a loro volta per lavorarli si avvalevano di braccianti e contadini stringendo con loro patti di mezzadria assolutamente esosi.

    Chi, come Giovanni, aveva appezzamenti propri, anche se di dimensioni ridotte, era considerato fortunato. Ma, con sei bocche da sfamare, stentava ugualmente a portare a casa di che nutrire i propri cari. Saro, che era un ragazzino attento e acuto osservatore, aveva notato che più di una sera il padre trovava scuse per allontanarsi dalla tavola. Questo lo faceva soffrire, ma non poteva rinunciare a quel boccone in più che l’uomo si toglieva di bocca per offrirlo ai suoi figli.

    Saro insieme agli altri due fratelli, Gaetano e il piccolo Francesco, di appena sette anni, accompagnavano tutti i giorni il genitore nei campi per aiutarlo a dissodare, zappare, seminare, innaffiare.

    A volte, per raggiungere l’appezzamento più lontano, Giovanni si faceva prestare da un suo compare un mulo sul quale caricavano gli attrezzi e al ritorno Francesco e Gaetano litigavano per chi doveva cavalcarlo.

    Nei giorni liberi Saro aveva cominciato ad avvicinare un certo Antonino Rizzo, che gli amici chiamavano Ninuzzu, un ragazzo di diciotto anni, ma lui non si accorgeva neppure della sua presenza. Ninuzzu era una testa calda. Litigava con tutti e non aveva paura di nessuno, nemmeno delle Camicie nere della locale sezione della Milizia. Saro ammirava quel suo modo di fare spavaldo. Da grande voleva diventare così, non come suo padre che, appena incrociava un cappeddu, si chinava fino a terra per ossequiarlo.

    Ci fu un episodio in particolare che innalzò definitivamente Ninuzzu sugli altari degli eroi di Saro e fu quando un pomeriggio il giovane mostrò a tutti i ragazzini della compagnia una vecchia Mauser C96, che aveva rubato in casa di un ex marinaio. La pistola, con il caratteristico serbatoio delle munizioni anteriore al grilletto e il calcio tondeggiante con l’anello per il coreggiolo, era un vero gioiello ed era carica. I ragazzini, attirati come api al fiore, gli si fecero intorno per vederla da vicino e poterla almeno toccare, ma Ninuzzu li scansò con il braccio aprendosi un varco. Infilò la pistola nella cinghia dei pantaloni come fanno i briganti.

    «State lontani, scimuniti. È pericolosa». Aggiunse poi: «Ma se state buoni e fermi, vi faccio sentire come canta».

    Saro e gli altri ragazzi di Corleone, si misero a sedere nella polvere, eccitati di poter assistere a quell’improvvisato spettacolo. Ninuzzu raccolse da terra un ramo e lo portò al centro della piazzetta. Poi arretrò di qualche passo. Estrasse la Mauser dalla cinghia, mirò con calma e sparò. Il proiettile centrò in pieno il ramo che saltò in aria diviso in due. I ragazzini esplosero in grida di gioia e batterono le mani al loro beniamino che gonfiò il petto di orgoglio. Ma l’allegria si spense con l’arrivo dei tre giovani della milizia: Damaso, Toni e Salvatore. Erano poco più grandi di Ninuzzu, avevano vent’anni o poco più, ma si davano arie di eroici condottieri. Per la verità era la divisa che indossavano a dar loro una sicurezza e un’arroganza che nella vita civile non si sognavano di avere. I tre infatti erano figli di poveri bovari e contadini che si erano convertiti al fascismo quando qualcuno, anni prima, spiegò loro i vantaggi che avrebbero ottenuto da una simile posizione. S’infilarono la camicia nera e non se la tolsero più. In paese però erano in netta minoranza. Chi comandava veramente era il dottor Nazzaro, i gabellotti Salvatore Malta e Vanni Sacco e non certo tre ragazzini vestiti da pagliacci. I mafiosi gliel’avevano fatto capire e loro avevano accettato il consiglio di non strafare e di non intralciare i traffici degli uomini d’onore, e così avevano indirizzato la loro frustrazione contro i ragazzini e i picciotti come Ninuzzu.

    «Quella pistola è requisita, Ninuzzu. È proibito sparare dentro il paese», disse il capo dei tre, Damaso. Si avvicinarono al giovane fendendo la folla dei ragazzini. Toni e Salvatore gli camminavano ai lati con aria truce. Ma secchi com’erano, i pantaloni corti e la camicia sbrindellata, sembravano la parodia dei film di gangster. Ninuzzu infilò la pistola nella cinghia. «Damaso, dovrai venire a prendertela».

    Damaso fece un cenno ai camerati e Toni e Salvatore si lanciarono contro Ninuzzu per immobilizzarlo. Il giovanetto fu svelto e schivò la presa. Riuscì a dare una gomitata a Toni che cominciò a sanguinare dal naso. Ma Damaso, che dei tre era il più robusto, lo caricò di corsa e gli diede una gran spinta che sbilanciò Ninuzzu facendolo cadere a terra, nella polvere. Salvatore approfittò della sua posizione svantaggiata e gli sferrò un calcio che lo prese alla gamba. La pistola si sfilò dalla cinta e scivolò lontano. Damaso seguì l’esempio di Salvatore e lo colpì con una serie di calci, mentre l’amico si chinò per colpirlo in faccia con una scarica di cazzotti. Ninuzzu si chiuse a riccio, ma dalle spalle arrivò Toni, con il volto inondato di sangue, inferocito per il naso rotto. Lo colpì alla schiena con tutta la sua forza. La massa dello scarpone fece il resto. Ninuzzu cadde a faccia in giù tra la polvere, dolorante e disorientato. Saro fissò la pistola che era scivolata a un passo da lui. Uscì dal cerchio formato dai compagni e le diede un calcio per avvicinarla a Ninuzzu. Lui vide l’azione e quando la Mauser fu a portata di mano, l’impugnò come un fulmine e la puntò su Damaso che stava tornando alla carica insieme ai due camerati.

    «Vuoi assaggiare un po’ di piombo?»

    I tre si bloccarono. Respiravano con affanno.

    «Ninuzzu, stai attento a quello che fai perché ti potremmo denunciare ai carabinieri», lo avvisò il capo manipolo.

    «Comincia a darmi i tuoi calzoni. E anche voi!», urlò a Salvatore e a Toni che continuava a tamponarsi il naso sanguinante.

    «Non fare minchiate, camerata. Te ne potresti pentire», continuò conciliante Damaso.

    «Ho detto i calzoni e poi anche le camicie!». Sottolineò l’ordine sparando a un palmo dal piede di Damaso. Una fontanella di terra gli sferzò le gambe e il giovane si affrettò a sfilarsi i pantaloncini, imitato dagli altri due. Poi fu la volta delle camicie. Erano rimasti praticamente soltanto con un paio di mutande lerce e mille volte rammendate, tra le risate volgari e le battutacce dei ragazzini di Corleone.

    Ninuzzu ordinò infine ai tre di tornare a casa, poi accese un fiammifero. Lanciò un’occhiata a chi gli aveva avvicinata la Mauser. Riconobbe Saro, il figlio di Giovanni. «Noi due dobbiamo parlare, ragazzino».

    «Non sono un ragazzino», rispose risentito Saro. «Ho tredici anni e lavoro da sette».

    Ninuzzu sorrise a tanto orgoglio, e gettò il fiammifero sul cumulo degli stracci che in un baleno presero fuoco tra il tripudio della giovane teppaglia.

    Ninuzzu non sapeva di aver fatto un bel favore ai tre miliziani, perché, in mancanza di altre camicie di colore nero, tornarono a vestire panni civili e quando, qualche settimana più tardi il fascismo cadde, nessuno si ricordò più di loro e così evitarono le rappresaglie che invece in quei drammatici giorni molti fascisti dovettero subire dalle loro vittime.

    3

    L’eredità della guerra

    Corleone, settembre 1943

    Il mondo continuava a girare vorticosamente in quella caldissima estate del 1943. La vita si alternava alla morte, la guerra in qualche regione era finita, in altre divampava più dolorosa che mai.

    Dove tutto era immobile e statico come dall’inizio dei tempi, era proprio a Corleone.

    Giovanni continuava a spostarsi da un appezzamento all’altro delle sue terre. La mattina si recava a Marabino, dove possedeva due tumuli. Poi si spostava a San Cristoforo dove lo aspettava la cura di tre tumuli, nel frattempo lasciava i suoi figli a Frattina, qui i tumuli erano quattro. Infine, se c’era tempo, si spostava ai quattro tumuli di Mazzadiana. Era una vita di dolore, di grandi sacrifici, non c’era niente che potesse alleviarla, nessuna speranza, nessun sogno, nessuna aspettativa. Ma a volte la fortuna si ricordava anche di lui. Nel campo di Frattina, Giovanni sentì il chiodo dell’aratro infrangersi contro qualcosa di molto resistente. Pensò subito a una roccia. Ordinò al figlio maggiore, a Saro, di trattenere il mulo, mentre lui tentava di sbloccare il ferro. Sfilò da terra il vomere e nell’eseguire la manovra una zolla saltò via e scoprì un cilindro color del bronzo. Giovanni gridò al figlio di andarlo ad aiutare, aveva trovato qualcosa. Scavarono con le mani nude l’arida terra del campo e a poco a poco fecero tornare alla luce una bomba. Si trattava di un ordigno di duecento libbre. Giovanni non ce la faceva a sollevarlo da solo. Chiamò anche gli altri due figlioli, Gaetano e il piccolo Francesco.

    Sull’ogiva c’era una scritta di vernice bianca. «Qui cosa c’è scritto?», chiese a Saro.

    Il ragazzo, che aveva completato soltanto la seconda elementare, faticava a leggere. Cercò d’ignorare la richiesta del padre. «Che vuoi che ci sia scritto, saranno i numeri di matricola».

    «Questi non sono numeri, li so riconoscere i numeri. Dài, leggi cosa c’è scritto», si ostinò il padre.

    Saro si avvicinò di malavoglia all’ordigno. Con l’indice seguì l’andamento circolare della scritta e lesse: «Hallo Mussolini!».

    «Perché lo hanno scritto?», domandò candidamente Giovanni.

    «È come un saluto», s’intromise Gaetano.

    «Qui dentro c’è tanta polvere da sparo da riempire migliaia di cartucce per la caccia. Siamo stati proprio fortunati. Dopo averla svuotata potremo rivendere la bomba ai ferri vecchi». Saro non aveva mai visto tanta felicità negli occhi del padre.

    Decise che per quel giorno il lavoro dei campi poteva aspettare. A fatica sollevarono la bomba e la caricarono sul carretto. Giovanni fremeva dal desiderio di aprirla per raccogliere la polvere nera.

    La parte alta di Corleone, dominata dal Castello soprano, è una ragnatela di stradine e vicoli che rinserrano le povere abitazioni ammassate l’una all’altra, un po’ per conservare il calore nei lunghi inverni, un po’, specialmente nei tempi antichi, per rendere la vita difficile agli ipotetici invasori. La casa della famiglia di Giovanni si trovava proprio nel cuore di questo rione formato da case con poche suppellettili, i muri miseramente intonacati e le finestre spesso senza vetri, e rattoppate con cartoni e teli. Qui in via Rua del Piano, in due stanze, abitavano in sette, per non contare l’ottavo neonato in arrivo e il mulo che, quando il compare glielo faceva usare, aveva la sua stalla nella corte prospiciente all’abitazione. Giovanni e i figli depositarono la bomba sul terreno del cortiletto e, mentre Saro scioglieva i finimenti del mulo, Gaetano andò a prendere uno scalpello da muratore e un mazzuolo. Giovanni si chinò sulla bomba per cercare la filettatura che bloccava il cilindro che consentiva di accedere alla carica esplosiva. Il piccolo Francesco osservava ogni mossa del genitore, ammirandone l’abilità e gli faceva mille domande alle quali il padre rispondeva distrattamente.

    Per coinvolgerlo nel lavoro, il padre gli chiese di accovacciarsi sull’ordigno per non farlo oscillare. Il bambino fu felice di sentirsi utile e abbracciò la bomba per bloccarla. Gaetano intanto aveva portato gli attrezzi al padre, poi cercò di accostare il carretto al muro.

    Giovanni puntò lo scalpello sulla filettatura e assestò un colpo secco al mazzuolo, senza però alcun risultato. Ripeté l’operazione più volte, nel tentativo di smuovere i cilindri.

    Saro spingeva il mulo verso l’angolo del cortile dove si trovava il cesto con le carrube, ma l’animale non ne voleva sapere di muoversi. Allora Saro lo prese per il collo e con tutte le sue forze lo tirò a sé.

    L’esplosione fu devastante. Il boato fece oscillare e crollare alcune delle povere case della strada. Sventrò diverse pareti e rese pericolanti le abitazioni confinanti. Fiamme e una colonna di fumo nero si sollevarono dal cortiletto di via Rua del Piano.

    Tutti gli abitanti accorsero con brocche e secchi d’acqua e, dopo aver domato l’incendio, agli occhi dei primi testimoni si presentò una scena raccapricciante. Le donne costrinsero Maria Concetta, la moglie di Giovanni e le altre due figlie ad allontanarsi dal luogo del disastro per non vedere lo scempio dei corpi. I pochi resti del piccolo Francesco furono ricomposti nel cassetto di un comodino. Anche il corpo di Giovanni era stato dilaniato. I carabinieri del paese lo chiusero in un lenzuolo. Gaetano, l’altro figlio giaceva in un angolo del cortile. Fu trovato disteso sotto il carretto che continuava a bruciare. Le schegge della bomba l’avevano colpito alla gamba, al volto e alla gola, ma era salvo. I soccorritori cercarono Saro, ma non lo trovavano. Poi qualcuno si avvicinò al mulo che giaceva a terra con il collo e il dorso squarciati dall’esplosione. Saro giaceva schiacciato a terra, sotto la carcassa dell’animale. Sembrava respirare ancora, anzi, si lagnava per il dolore. Si affrettarono a spostare l’animale e sollevarono il ragazzo. Il ragazzo era annerito dalla vampata dell’esplosione, ma non aveva un graffio. Il mulo gli aveva fatto da scudo, salvandogli la vita.

    Due giorni dopo furono celebrati i funerali di Giovanni e di suo figlio Francesco. La vedova era l’immagine della disperazione. Stringeva le mani delle due ragazze. Tre settimane più tardi avrebbe dato alla luce la sua terza figlia femmina. Gaetano giaceva in ospedale. La responsabilità della famiglia ora ricadeva sul figlio maschio più grande, su Saro.

    Malgrado i soli tredici anni, il ragazzino sentì subito su di sé la gravità del ruolo. Da quel momento, lui che aveva un carattere sempre aperto e disponibile allo scherzo, divenne taciturno e sfuggente. Pochi poterono dire, a partire da quel giorno, di averlo mai visto sorridere o piangere.

    Dopo l’episodio della Mauser, Ninuzzu lo era andato a cercare e gli aveva fatto un ragionamento molto semplice: «Ho bisogno di gente sveglia come te. Ho in mente dei progetti e, se vuoi, potrai fare parte della mia banda».

    Saro gli rispose con un laconico: «Qui sono».

    Ma non fece molto affidamento su quella vaga promessa, infatti continuò a lavorare nei campi, aiutato da Gaetano, il fratello minore azzoppato dalla scheggia della bomba.

    In quei primi anni del dopoguerra la gente di Corleone, come in gran parte della Sicilia, si affannava a cercare di che sfamare i propri figli. I braccianti, quelli che non avevano terreni propri e si assoggettavano a lavorare quelli degli altri, erano piegati sulle zappe e spingevano gli aratri per dodici ore al giorno. Tutto per un pugno di frumento. Partivano dal paese con il buio e si ritiravano con il buio. Portavano con loro i figli, nella speranza di aumentare il salario della giornata. Tra questi c’era un certo Angelo con i suoi due figli Piddu e Salvatore. Spesso incrociavano Saro, anche lui in cammino con il fratello Gaetano per raggiungere i campi da lavorare. Ma la fatica era enorme e il risultato sconfortante.

    Osservare i terreni giù a valle abbandonati, infestati da gramigna e cardi spinosi era insopportabile. Erano anche terre grasse, per niente argillose. Qualcuno cominciava a parlare di riforma agraria, di terre ai contadini, ma erano soltanto chimere. La realtà era il pugno di grano che si riusciva a racimolare alla fine della giornata.

    Ninuzzu un giorno incontrò Saro al ritorno dai campi.

    Ninuzzu, anche se era figlio di contadini, non aveva mai preso in mano una vanga in vita sua, non aveva mai arato un campo. Eppure non se la passava male. I guadagni arrivavano dalla sua abilità a sparare con la pistola. Questa prerogativa a Corleone era più che sufficiente per ottenere il rispetto della gente.

    «Questa notte ho un affare in contrada Manganelli», gli disse Ninuzzu dall’alto del suo morello, razziato in una delle incursioni ai pascoli vicini al bosco della Ficuzza. «In un’ora ti farò guadagnare quanto in un mese a spaccare le pietre della tua terra».

    Saro non volle sapere neppure in cosa consisteva l’affare. Accettò senza fiatare.

    Quella notte in contrada Manganelli, Saro arrivò su un carretto, scortato da Ninuzzu. Nella spianata i fasci degli steli di grano, legati e impilati tre a tre per arieggiare la granella e favorire il suo essiccamento, erano allineati, pronti per essere trebbiati.

    Saro cominciò a caricarli sul carretto, mentre Ninuzzu, senza scendere dalla cavalcatura, accese un toscano e restò a fare la guardia. Per Saro, abituato a ben altre fatiche, fu uno spasso impossessarsi di tutto quel ben di dio. Rappresentava il raccolto di un anno, per la sua famiglia. Poche nottate così e poteva poi fare la bella vita…

    Da quella notte i due divennero inseparabili.

    Ninuzzu aveva cominciato a razziare capi di bestiame, che pascolavano allo stato brado, nelle vicine contrade di Corleone.

    Non bisognava essere un genio per capire che un solo bovino rendeva dieci volte più di un carretto di covoni di grano. La sola incombenza era quella di portare la bestia al mattatoio clandestino che in quegli anni, all’interno del bosco della Ficuzza, lavorava a pieno ritmo.

    Il bosco della Ficuzza è la superficie boschiva più ampia della regione. Qui, tra lecci, sughere e roverelle, i banditi della Conca d’oro nascondevano il bestiame rubato agli allevatori delle vicine contee. Era un luogo sconsigliabile da frequentare perché vi si nascondevano i briganti e i latitanti braccati dalle forze dell’ordine.

    I carabinieri non osavano penetrare nell’intrico dei sentieri della Ficuzza per non cadere in rischiosi tranelli. La foresta era dominata dai bastioni rocciosi della Rocca Busambra. Un rilievo molto frastagliato, con pareti a strapiombo di altezza impressionante. Il terreno era costellato di forre e inghiottitoi profondissimi. Secondo le voci dei bene informati, quelle gole erano state usate in passato come tombe della malavita. Vista da lontano la rocca suggeriva l’idea di un’isola galleggiante sulle verdi colline della Ficuzza.

    Nel bosco l’animale veniva macellato e poi portato al mercato di Palermo dove la domanda sopravanzava di molto l’offerta. Chi guadagnava più di tutti in questo traffico erano i trasportatori che si assumevano il rischio di essere intercettati dai carabinieri prima di arrivare a Palermo.

    Gli allevatori tolleravano queste rapine e sapevano perfettamente che tra i responsabili c’era Ninuzzu. Ma lo lasciavano fare perché sapevano che era una testa calda e che usava la pistola e il fucile come pochi, con una disinvoltura inquietante.

    La fama di Ninuzzu affascinava le giovani menti dei ragazzi. Il lavoro nei campi non dava loro dignità e rispetto. L’onore invece veniva riservato a uomini come lui.

    Anche Saro, da quando aveva cominciato a seguirlo, aveva abbandonato il lavoro nei campi. A poco a poco, intorno alla figura di Ninuzzu si formò una corte di giovani corleonesi che avevano visto nel suo esempio un modo per evadere dalla loro vita di povertà e umiliazioni.

    In quegli anni la condotta medica del paese se l’era aggiudicata il dottore Michele Nazzaro. Corleonese purosangue, il medico era di estrazione piccolo borghese, ma aveva una grande volontà di raggiungere i gradini più alti della scala sociale.

    Nazzaro badava alla sostanza delle cose. Aveva un abito per tutti i giorni e uno per le feste comandate. Una corporatura robusta, un folto paio di baffi alla Stalin e uno sguardo che incuteva soggezione. Nella sua professione aveva fama di abile diagnostico.

    Ma la sua fortuna ebbe inizio grazie a un incontro con il governatore Charles Poletti. Il colonnello, che nei primi anni del dopoguerra gestì il potere politico e amministrativo dell’Italia occupata dagli Alleati, gli accordò l’autorizzazione a raccogliere tutti gli automezzi militari utilizzati per l’invasione dell’isola. Il dottore fece gestire questa attività dal fratello Peppuccio. I due fratelli trasformarono i camion militari in autobus, rimodernarono le vecchie corriere d’anteguerra e crearono un’azienda di trasporti, chiamata in onore degli amici americani «International Transport» che per molti anni facilitò gli spostamenti della gente da un paese all’altro.

    Il colonnello Poletti, che non aveva rinunciato a entrare nell’affare, qualche anno dopo fece acquistare l’azienda alla Regione. Inutile dire che l’International fu valutata molto più del suo valore reale.

    Michele Nazzaro aveva tutto per essere felice, se non fosse stato per un unico sogno che ancora non riusciva a concretizzare: la direzione dell’ospedale di Corleone.

    Quel posto era occupato da un suo valente collega, il dottor Carmelo Nicolai. Da dieci anni Nazzaro rincorreva quel disegno e il Nicolai non ne voleva sapere di andare in pensione.

    Un giorno Ninuzzu si recò alla sua condotta medica perché accusava dei lancinanti dolori alla colonna vertebrale che lo facevano zoppicare. Il dottore lo sottopose alle analisi di rito e gli comunicò il responso.

    «Purtroppo non ho buone notizie, Ninuzzu», esordì guardando in controluce la lastra radiografica. «Le tue vertebre sono state aggredite dal morbo di Pott».

    «E chi sarebbe questo fottuto bastardo?», domandò Ninuzzu.

    «È un bacillo. Ti darà dolore alla schiena e alle gambe. Però si può guarire, se lo curiamo in tempo». Gli prescrisse alcune medicine, segnandole sul ricettario. «Prendi queste pasticche per venti giorni. Poi torni e controlliamo se hanno fatto effetto. Altrimenti gli americani hanno una nuova medicina che fa miracoli. Però è difficile da ottenere».

    «Dottore, non c’è problema che non si possa risolvere. Mi dica dove si trova e la vado a prendere».

    «Non è così facile. Purtroppo c’è un ostacolo, caro Ninuzzu», disse con tono di complicità. «Si chiama Carmelo Nicolai. È il direttore del nostro ospedale. Lui ha questa medicina. Ma lo conosci Nicolai, non guarda in faccia nessuno. Se potessi essere al suo posto, quella medicina la distribuirei a tutti. Invece lui la tiene gelosamente nascosta come se fosse una sua proprietà».

    Ninuzzu era un giovane smaliziato e comprese perfettamente l’allusione del dottor Nazzaro. «Ammettiamo che quel dottore decida di scomparire, il suo posto chi lo prenderebbe?», domandò per essere sicuro di aver capito bene le sue intenzioni.

    «Quel posto spetterebbe a me. Senza alcun dubbio», rispose Nazzaro con decisione.

    Dopo una giornata d’ospedale, il dottor Nicolai aveva preso l’abitudine di tornare a casa a piedi. Scendeva fino alla piazza del Comune dove spesso incontrava gli amici con cui si intratteneva a scambiare qualche chiacchiera sulle notizie del giorno.

    Quel 29 aprile del 1946 il vento fresco portava dalla Conca d’oro il profumo delle zagare. Ormai la temperatura preannunciava l’arrivo dell’estate. In quelle tiepide serate la gente si tratteneva fuori casa più a lungo. Frotte di ragazzini rincorrevano vecchi cerchioni di auto militari o giocavano con le trottole di legno che facevano roteare strattonando uno spago attorcigliato al cilindretto. Il dottore li osservava benevolo, andando con il pensiero al suo nipotino di pochi mesi.

    Stava per arrivare alla piazza, quando un bambino gli si avvicinò e lo tirò per i pantaloni. «Dottore, una donna sta male. Lì in cima a via Roma», indicò la strada e scappò via senza dargli il tempo di domandargli chi fosse.

    Il dottor Nicolai era un professionista scrupoloso, molto amato dai corleonesi per la sua umanità. Si avviò dove il bambino gli aveva indicato. Sulla destra della piazzetta del Comune, via Roma si arrampicava lunga e stretta circondata da un bastione di casette grigie a un piano con i balconcini di ferro battuto. Dopo poche decine di metri in una rientranza della strada si trovava la facciata della cappella del vicino collegio con l’edicola del Gesù Incoronato. Un’immagine sacra molto venerata dalle donne del rione.

    Dietro l’angolo c’era qualcuno ad attenderlo. Una figura coperta da un lungo mantello nero, la raffigurazione perfetta della morte.

    Il dottor Nicolai spuntando dalla via notò che all’improvviso la strada si era svuotata. Vide l’uomo, ma l’imbrunire e il cappuccio calato sugli occhi non gli consentirono di riconoscerlo.

    «Dottor Carmelo Nicolai», disse il misterioso figuro.

    «Sono io», rispose ingenuamente il dottore, che non poteva pensare mai di avere nemici sulla faccia della terra. «Sei tu il marito della donna che sta male?», chiese all’uomo.

    Ninuzzu fece uscire dal pastrano la mano che impugnava la Mauser e la puntò contro il dottore. Sparò. Il colpo entrò e uscì dalla spalla sinistra dell’incredulo dottore. Il secondo lo centrò al cuore. Nicolai cadde a terra senza rendersi conto perché moriva. Nessuno poté dirgli che il suo posto di direttore dell’ospedale di Corleone da quel giorno sarebbe stato occupato dal dottor Michele Nazzaro.

    4

    Come nasce un padrino

    Quelli del dopoguerra furono gli anni dell’assalto al latifondo. Il clima di anarchia, tipico di

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