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L'ultima battaglia dell'impero romano
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E-book273 pagine3 ore

L'ultima battaglia dell'impero romano

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Info su questo ebook

L’esercito del V secolo e la disfatta finale contro i vandali
Disegni di Giorgio Albertini

È difficile stabilire chi diede il colpo di grazia all’impero romano. Di sicuro, i vandali e il loro re Genserico sono tra i più accreditati. Soffiarono ai romani l’Africa e le isole, con la pirateria resero instabili le comunicazioni nel bacino mediterraneo, furono tra i primi barbari a violare l’Urbe e, con i loro raid, vessarono per decenni le città costiere dell’Italia. Nel 468 d.C., otto anni prima della sua fine ufficiale, l’impero compì un ultimo sforzo per debellare la minaccia vandalica. Ravenna e Costantinopoli, da tempo capitali, di fatto, di due imperi divisi e spesso in contrasto tra loro, collaborarono per allestire la più imponente spedizione anfibia della storia di Roma e portare la guerra in Africa. Ma l’intera flotta imperiale finì dissolta in un devastante rogo al largo di Capo Bon. La disfatta spazzò via ogni speranza di salvare la parte occidentale, già assediata da altri popoli e minata anche dalle rivendicazioni dei soldati, ormai in gran parte barbari anch’essi. Attraverso un ricco apparato iconografico, impreziosito da disegni e tavole inedite di Giorgio Albertini, questo volume rivela la profonda evoluzione delle forze armate romane, che, nell’ultimo secolo dell’impero, si discostano notevolmente dalle classiche figure di centurioni, legionari e tribuni fissate nell’immaginario collettivo da film e documentari.

Hanno scritto di Andrea Frediani:

«Frediani è un grande narratore di battaglie.»
Corrado Augias

«Fa conoscere una civiltà straordinaria. Senza perdersi in luoghi comuni e tenendo fede alla correttezza della ricostruzione storica.»
Matteo Nucci, Il Venerdì di Repubblica

«Il lettore, catturato da una piacevole scrittura, assiste a battaglie descritte con una minuziosa verosimiglianza storica.»
Giorgio De Rienzo, Corriere della Sera


Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica, I grandi generali di Roma antica, Le grandi battaglie di Giulio Cesare, Le grandi battaglie del Medioevo, Le grandi battaglie di Roma antica, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano, i romanzi storici 300 guerrieri, Jerusalem (tradotti in varie lingue), Un eroe per l’impero romano e la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare).
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854125278
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    Anteprima del libro

    L'ultima battaglia dell'impero romano - Andrea Frediani

    Parte prima

    Le guerre vandaliche

    I vandali

    Tenterò di render noti gradatamente e brevemente gli avvenimenti che si verificarono nelle contrade africane, quando vi impazzavano gli ariani.

    VITTORE DI VITA, Storia della persecuzione

    vandalica in Africa, Prologo, 4

    Se c’è un popolo per il quale, nell’era volgare, calzi alla perfezione il concetto di migrazione, ebbene, è quello dei vandali. Li ritroviamo, nell’arco di pochi secoli, dapprima in Scandinavia, poi in Germania, in Ungheria, in Francia, in Spagna, in Africa e infine, grazie a un clamoroso sviluppo delle capacità marinare e della propensione alla pirateria, dovunque nel Mediterraneo. Eppure, non è facile rintracciarne le origini e l’evoluzione. Che siano partiti dalla Scandinavia, e segnatamente dalla punta settentrionale dello Jutland, si evince da alcune prove indiziarie, come la presenza di toponimi, il ritrovamento di reperti archeologici simili a quelli rinvenuti più a sud, in zone dalla sicura presenza vandala, e la probabilità che abbiano seguito, almeno inizialmente, lo stesso itinerario di altri grandi popoli germanici migratori, come i cimbri e i goti.

    Grandi, i vandali lo erano di certo, non fosse altro che per il fatto di costituire un agglomerato di tribù, una sorta di confederazione che, sotto il nome di vandali o vandili attribuitogli da Plinio, indicava svariati popoli, tra i quali perfino i burgundi. A quell’epoca – e stiamo parlando del I secolo d.C. –, si erano già trasferiti sulla riva opposta del Baltico, dalle parti della Pomerania. In progresso di tempo, dovette verificarsi un principio di agglomerazione tra le varie tribù e una loro definizione politica, che al principio del Basso Impero, nella seconda metà del II secolo, portò alla formazione di due poli aggregativi definiti, rispettivamente, vandali asdingi e vandali silingi (un processo non inconsueto tra i barbari, se pensiamo ai goti tervingi e greutungi).

    Migrazioni e movimenti dei vandali.

    L’area di insediamento dei primi, secondo le indicazioni fornite da Dione Cassio, va rintracciata nella zona tra alto corso della Vistola e Dnestr, mentre i silingi, a quanto pare, lasciarono il loro nome alla regione nella quale li individuava il geografo Tolomeo, ovvero la Slesia. Le vicende dei vandali prima e dopo lo scoccare dell’era volgare si frammischiano a quelle di tanti altri popoli germanici, come cheruschi, suebi, marcomanni, che ebbero a più riprese a che fare con l’impero romano; c’erano dei vandali, tra l’altro, tra i guerrieri in gran parte suebi che Ariovisto condusse contro Cesare in Gallia.

    Tuttavia, a quei tempi i goti rappresentavano la forza barbarica più potente dell’area europea centro-orientale, e i vandali asdingi dovettero necessariamente contemplare ulteriori spostamenti, per non esserne assorbiti. Fu in quell’epoca che vennero in contatto diretto con l’impero romano, e non si trattò di rapporti pacifici: nel 171, durante i continui attacchi alle frontiere che caratterizzarono gran parte del regno di Marco Aurelio, gli asdingi furono tra quei popoli che cercarono di penetrare in Dacia, l’attuale Romania; ma allora l’impero era ancora vigile, e non ci riuscirono. Finirono per deviare verso sud-ovest, raggiungendo le pianure dell’Ungheria settentrionale, lungo il Tibisco, dove spazzarono via i costoboci insediandosi al loro posto. I silingi, da parte loro, raggiunsero alla fine del secolo il corso superiore del Meno, e nei nuovi settori i due popoli sembrarono trovare una collocazione stabile.

    Un secolo dopo, gli asdingi tentarono una nuova penetrazione in territorio romano, entrando in Pannonia, l’odierna Ungheria; ma furono ancora una volta respinti da Aureliano e costretti a cedere all’impero 2000 cavalieri, che andarono a costituire l’Ala VIII Vandalorum, di stanza in Egitto ancora all’inizio del V secolo; e forse, fin da allora presso il loro popolo si formò una tradizione che vedeva nel continente nero una sorta di terra promessa.

    I vandali in marcia durante una delle loro migrazioni.

    Pochi anni dopo, vi fu un altro tentativo di infiltrazione vandalica, lungo il Reno e insieme ai burgundi; anche in questo caso, i barbari si trovarono di fronte un imperatore capace, Probo, che li sconfisse e ne insediò una parte in Britannia. Poi lasciarono in pace l’impero per qualche decennio, almeno fino a quando i vicini goti non inflissero loro sonore sconfitte, tanto da indurli, stavolta richiedendone il permesso, a cercare riparo entro i confini di Roma. Costantino il Grande permise loro di stanziarsi in Pannonia, dove ci vengono descritti come un popolo tranquillamente soggetto all’autorità capitolina; almeno, fino all’avvento della marea unna.

    Ci sono gli unni all’origine di pressoché tutte le invasioni barbariche che accompagnarono, caratterizzarono e determinarono la fase finale dell’impero romano d’Occidente; furono loro, infatti, con lo spostamento verso ovest dalle loro sedi nelle steppe eurasiatiche, a provocare un fuggi fuggi generale verso occidente di tutti i popoli che li precedevano, e ai quali, stavolta, l’impero non seppe far fronte. Cominciò nel 375, quando i goti tervingi chiesero il permesso di varcare il Danubio e stanziarsi in territorio romano, per sfuggire alla morsa unna, che aveva già inglobato i loro confratelli di altre tribù; lo ottennero, ma a un prezzo che li spinse a reagire, e a sgominare tre anni dopo, ad Adrianopoli, un intero esercito imperiale. Si inaugurò così una lunga serie di infiltrazioni nell’area balcanica, che non si sarebbero più arrestate, per estendersi anzi, meno di un quarto di secolo dopo, ancor più a ovest, lungo il Reno.

    Allo scoccare del V secolo, quello fatale per l’impero d’Occidente, toccò anche agli asdingi togliersi di mezzo prima dell’arrivo degli unni. Ormai se li sentivano addosso, e non a caso i cavalieri delle steppe andarono a occupare le pianure pannoniche dove i vandali avevano vissuto per un secolo; questi ultimi migrarono quindi verso ovest costeggiando il Danubio, fino a riunirsi ai silingi. Dopo secoli, le due tribù erano di nuovo insieme, ma non potevano rimanere lì; c’era poco spazio, e un mucchio di popoli a disputarselo. Deliberarono pertanto di risalire il Reno e di tentare lo sfondamento, che ebbe luogo, secondo la tradizione, il 31 dicembre 406, con l’attraversamento del fiume ghiacciato insieme ad altre nazioni, in massima parte alani e suebi.

    Si trattò della più grande invasione barbarica verificatasi fino ad allora ai danni dell’impero; ne facevano parte, tra gli altri, anche alani e suebi, che avrebbero seguito le tracce dei vandali e in parte condiviso la loro epopea anche nei decenni successivi. L’amministrazione imperiale, che allora faceva capo proprio al mezzo vandalo Stilicone, non fu in grado di fronteggiarla con tutte le risorse disponibili, perché era alle prese con i goti, penetrati addirittura in Italia. Tuttavia vi fu una difesa strenua, ad opera dei popoli federati, ovvero i franchi e gli alamanni che avevano l’incarico di presidiare le frontiere in cambio dello stanziamento entro i confini imperiali. Nella lotta caddero il re degli asdingi Godigiselo e, si disse, 20.000 vandali, ma i superstiti, grazie soprattutto ai successi campali dei loro compagni alani, riuscirono alfine a passare all’altezza di Magonza e a penetrare in Gallia in profondità, condotti dal nuovo re Gunderico.

    In Gallia, i vandali rimangono tre anni, costruendosi la loro triste nomea con saccheggi, devastazioni e massacri.

    Non è possibile mettere a fuoco la vicenda dei vandali nel periodo trascorso in Gallia, durante il quale si produssero in quella serie di razzie e devastazioni che sono all’origine della loro sinistra nomea: un cronista minore, Orenzio, annotò che «tutta la Gallia fu attraversata dal fiume di un’unica pira funebre». Di certo, nessuno riuscì a mettergli paura prima di un triennio, al termine del quale, nell’ottobre del 409, si risolsero a passare in Spagna; alla fine, infatti, qualcuno era accorso in difesa dei gallo-romani: non Stilicone, morto l’anno prima, bensì l’usurpatore Costantino III, che dalla Britannia, dove aveva deciso autonomamente di rappresentare un impero ormai latitante su quello scacchiere, si era preso la briga di sbarcare sul continente e sconfiggere sul campo gli invasori.

    Lo stesso Costantino, però, aveva tolto di mezzo i responsabili delle difese ispaniche, Vereniano e Didimo, incrinando così le capacità di resistenza dei territori a sud dei Pirenei. Le condizioni di estrema confusione politica, nonché di debolezza militare, in cui versava la Penisola Iberica consentirono ai barbari di impossessarsi facilmente delle province che ai romani era costato tanto conquistare, nei secoli della repubblica. I vandali tornarono a dividersi, con lo stanziamento dei silingi in Baetica, ovvero nel settore meridionale corrispondente all’attuale Andalusia – e qualcuno ritiene che il nome derivi proprio dalla loro occupazione –, degli asdingi e dei suebi in Galizia, degli alani in Lusitania, ovvero in Portogallo.

    Il tutto fu sancito da uno di quei trattati che i romani si obbligavano a stipulare con i barbari insediatisi nell’impero, per conferire un valore giuridico al loro insediamento e farne dei dipendenti dell’amministrazione imperiale; per l’esattezza, lo status di foederati – diffusosi nel V secolo come l’unica soluzione individuata dai responsabili dell’impero per sopravvivere – prevedeva l’acquartieramento dei nuovi venuti sulla terza parte delle proprietà degli abitanti della regione; in cambio, i barbari erano tenuti allo svolgimento di compiti militari, che andavano dalla difesa del territorio alla fornitura di contingenti per campagne di guerra, su richiesta della corte di Ravenna. Non è affatto detto, comunque, che in Spagna sia andata proprio così, e non è da escludere che gli occupanti abbiano semplicemente sottratto all’impero tutte le fonti di reddito.

    Tuttavia, soprattutto in questo caso, i capitolini ritenevano che si trattasse di uno stanziamento solo temporaneo; tanto è vero che, ci informa Procopio¹, nel prendere atto dell’occupazione delle terre dei cittadini dell’impero, l’imperatore Onorio cancellò il termine di un trentennio oltre il quale, secondo la legge romana, un proprietario perdeva definitivamente i propri possedimenti se non li reclamava con un ricorso.

    Ma pur avendo ottenuto ciò che andavano cercando da tempo, i vandali scoprirono ben presto che lo stanziamento entro i confini imperiali non li emancipava dalle lotte per la sopravvivenza, sostenute per secoli nell’Europa orientale. La convivenza con i suebi, pur collaudata da tempo, finì infatti per diventare difficile, «perché vivevano troppo vicini» (in Galizia), sente il bisogno di sottolineare una delle nostre fonti, Gregorio di Tours; inoltre, ben presto essi dovettero fare i conti con un nuovo popolo.

    I visigoti infatti, anch’essi dopo decenni di peregrinazioni e dopo il sacco di Roma ad opera di Alarico nel 410, erano finiti in Gallia, dove la loro lotta contro Roma, rappresentata dall’insipido magister militum Castino, si era conclusa con un altro foedus. Si formò pertanto un regno visigoto autorizzato in Aquitania, nella Francia meridionale, con capitale Tolosa. Il problema, per i vandali, fu che il primo compito che l’amministrazione imperiale assegnò al re goto Vallia fu di liberare la Spagna.

    Ora, i vandali avevano sempre patito la vicinanza dei goti, e pare che la loro vita, dall’arrivo dell’altro popolo barbaro – che pure derivava probabilmente da un ceppo comune –, divenisse molto dura. Da sempre, i goti si erano dimostrati più potenti di loro, e in quella circostanza, per di più, potevano fruire del sostegno imperiale; la lotta si rivelò pertanto impari, tanto che nell’arco di pochi anni i visigoti assunsero il controllo di una vasta porzione di territorio a sud dei Pirenei, e lo stesso sovrano dei silingi finì loro prigioniero, per essere spedito a Ravenna. Almeno un cronista, lo spagnolo Idazio, afferma esplicitamente: «Nella Baetica i vandali silingi furono tutti sterminati dal re Vallia»².

    Asdingi, silingi e alani finirono per fare fronte comune; sempre Idazio riporta: «Gli alani, che signoreggiavano sui vandali e sugli suebi, subirono una tale disfatta ad opera dei goti, che, alla morte del loro re, i pochi superstiti rinunciarono a costituire un regno e si posero sotto il comando di Gunderico, re dei vandali, che si era stabilito in Galizia»³. Ma anche gli stessi asdingi, che pure erano stati meno vessati dai goti, continuavano ad avere il loro daffare con i suebi, sempre meno disposti a dividere con loro il poco spazio al di fuori del controllo goto; verso il 420 i vandali, pressati dai visigoti e dal governatore romano Asterio, finirono per ritirarsi nell’estremo meridione della penisola, occupando nuovamente la Baetica.

    A quel punto, l’amministrazione imperiale decise di farla finita con loro, e nel 422 gli mandò contro il magister militum Castino, alla guida di un esercito imponente, di cui faceva parte, come comandante in seconda, un ancor giovane Bonifacio. I due finirono per litigare e, anche se in un primo momento le armi romane sembrarono prevalere, i dissidi tra i comandanti, riflesso della crisi istituzionale in atto allora a Ravenna, vanificarono la campagna; Bonifacio se ne andò in Africa, dove di lì a poco avrebbe influito in maniera determinante sul destino dei vandali, Castino tornò in Italia senza aver nulla concluso.

    Tuttavia, c’erano sempre i goti a minacciare i vandali, per non parlare degli suebi. Pressati da popoli apparentemente più potenti, e sempre più schiacciati verso il meridione della penisola, non sembrava che vi fosse futuro per loro; parevano destinati a scomparire o, nella migliore delle ipotesi, a essere inglobati da qualche nazione più rilevante, come era accaduto ad altri barbari nel corso delle migrazioni. I visigoti, d’altronde, erano in grande ascesa, ed erano assai determinati a mettere le mani sull’intera Penisola Iberica, il cui possesso, peraltro, avrebbero poi conservato per tre secoli, fino all’invasione araba.

    Eppure, i vandali seppero cambiare il loro destino, che pareva segnato, modificando le loro abitudini in un modo talmente radicale da trovare pochi riscontri nella Storia. Erano cresciuti a ridosso delle steppe russe, e i popoli con cui erano stati in contatto nel corso dei secoli ne avevano fatto dei combattenti a cavallo e a piedi. Era dai tempi dello stanziamento in Pomerania, decine di generazioni e quattro secoli prima, che non vivevano a ridosso del mare, e pertanto non avevano maturato alcuna esperienza marinara – al contrario dei goti, che per lungo tempo avevano vissuto sul Mar Nero. Ciononostante, negli anni venti del V secolo i vandali si trasformarono in marinai e pirati, portando sull’acqua la loro endemica vocazione alla razzia e allo sfruttamento delle risorse altrui.

    Del pericolo che i barbari sommassero le conoscenze marinare alle loro proverbiali capacità belliche l’amministrazione imperiale era pienamente consapevole; non a caso, esistevano delle leggi che vietavano espressamente agli abitanti delle regioni oggetto di foedus di insegnare la carpenteria agli occupanti. La pena, per la cronaca, consisteva nell’essere bruciati vivi. Ma l’impero era ormai latitante in Baetica, e i vandali in grado di imporre la loro volontà ai romano-ispanici. Così, nel 426 i barbari erano pronti per il gran salto di qualità: le prime vittime dei loro raid per mare furono le Baleari, ma anche la Mauritania, ovvero la costa africana prospiciente. Quando poi, nel 428, rientrarono in possesso di Cartagena, una delle basi navali più importanti dell’impero nell’intero bacino mediterraneo, i vandali ebbero a disposizione anche cantieri navali, carpentieri e manodopera specializzata, attrezzature e vascelli, che una mente ambiziosa poteva considerare come strumenti utili per imprese più consistenti delle semplici razzie di piccolo cabotaggio.

    Una volta giunti in Spagna, i vandali sono costretti a disputare i territori a goti e suebi.

    E la mente ambiziosa ce l’avevano, eccome. Anzi si trattava, probabilmente, dell’intelletto politico più geniale della sua epoca: un sovrano zoppo, schivo, «rapido nell’agire più di quanto gli altri lo fossero nel pensare», secondo la definizione di Giordane, questi era il figlio bastardo di Godigiselo, asceso al trono alla morte del fratellastro, caduto davanti a Siviglia nel 429; il suo nome era Geisarix, latinizzato in Genserico, o Gaiserico, e si trattava dell’uomo in grado di trasformare un popolo perdente da secoli e su tutti i fronti, nel regno barbarico più prospero della seconda metà del V secolo.

    I barbari, ormai, avevano raggiunto pressoché tutti i territori dell’impero: la Gallia, la Spagna, la Britannia, le province balcaniche erano occupate, e perfino l’Italia non era rimasta inviolata, sebbene sul suo suolo non fosse stato ancora concesso alcuno stanziamento. Rimaneva solo un settore ancora libero: la diocesi africana. Per giunta, si trattava di uno dei territori più prosperi dell’impero, e segnatamente quello che dava da mangiare a Roma, con i suoi invii di grano – per un totale di 500.000

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