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Banditi e briganti d'Italia
Banditi e briganti d'Italia
Banditi e briganti d'Italia
E-book464 pagine6 ore

Banditi e briganti d'Italia

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Info su questo ebook

La storia, le imprese e la vita violenta dei fuorilegge più famosi, tra leggenda e realtà

La storia di un fenomeno controverso come quello del brigantaggio in Italia, tra mito e realtà

Il termine “brigante” indica qualcuno che opera al di fuori della legge e nel linguaggio comune ha assunto una connotazione fortemente negativa.
Tuttavia la storia del brigantaggio in Italia è antica e controversa e non mancano gli aspetti affascinanti che riguardano le storie di chi, a partire dal XVI secolo, ha compiuto eclatanti gesti di protesta violenta. Questo libro vuole raccontare la controstoria di quegli uomini e quelle donne che, come antieroi del passato, hanno scelto di combattere le autorità del loro tempo in nome di interessi personali, ideali politici o, in alcuni casi, persino rivoluzionari. L’intento non è quello di assolverli per i crimini commessi, ma conoscere meglio un fenomeno la cui narrazione è stata unicamente veicolata dalle autorità che l’hanno combattuto. Ricostruire la storia del banditismo è essenziale per comprendere eventi che hanno avuto forti ripercussioni sulla storia del nostro Paese.
Adriano Sconocchia
È autore, regista e interprete di testi teatrali. Si è laureato in Lettere a Roma presso la Sapienza, specializzandosi nello studio della Venezia del Seicento e successivamente dello Stato Pontificio. Nel 2009 ha tenuto un seminario sul brigantaggio presso l’Università di Roma Tre. Ha pubblicato un romanzo storico e diversi saggi, tra cui per la Newton Compton I grandi personaggi del Risorgimento e Banditi e briganti d’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2020
ISBN9788822745385
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    Anteprima del libro

    Banditi e briganti d'Italia - Adriano Sconocchia

    La nascita del banditismo moderno

    e la sua affermazione nei secoli xvi e xvii

    Banditismo e brigantaggio furono due fenomeni simili ma non uguali tra di loro, che attraversarono la storia della nostra penisola per diversi secoli, dall’epoca romana fin quasi ai giorni nostri.

    Il primo potremmo definirlo come un fatto di delinquenza comune che interessò diverse aree della penisola italiana, endemico nella storia del nostro Paese fin dai tempi dell’Impero romano.

    Il secondo, invece, fu più che altro una reazione violenta nei confronti del potere centrale, o locale, e più in generale contro i potenti, attuata da soggetti espulsi dalle comunità cui appartenevano, sia per essersi ribellati a leggi ritenute vessatorie che per motivi di pura opposizione politica. Tali soggetti tendevano a organizzarsi in masnade che, nel Sud del Paese durante il xix secolo, vennero utilizzate sia per la riconquista di un regno perduto che, successivamente, per contrastare l’avvio di una nuova nazione.

    I banditi erano coloro che subivano un provvedimento di bando per i reati commessi (da cui, appunto, deriva il termine bandito) e venivano allontanati dal proprio luogo di residenza, subendo simultaneamente la confisca dei beni.

    Si trattava, per lo più, di ladri comuni o ex soldati di ventura sbandati e senza più una paga, oppure di assassini preterintenzionali oppure avvezzi all’omicidio a causa della loro indole violenta. A volte potevano essere anche nobili o notabili che venivano espulsi dalla propria città di residenza per ordine della fazione politica avversa.

    L’azione delinquenziale dei soggetti banditi, oltre a colpire i rappresentanti del potere che li aveva emarginati, era rivolta contro i ricchi possidenti, che potevano garantire un buon bottino, cosa che talvolta li faceva apparire agli occhi del popolo come dei redivivi Robin Hood. Tuttavia, neanche la gente più povera, pastori, contadini o artigiani, poteva dormire sonni tranquilli se intorno alle loro abitazioni si aggirava una conventicola di banditi.

    Il primo personaggio a iscriversi nel novero dei briganti, intesi nel senso moderno di capobanda, fu il famoso Ghino di Tacco, cui venne attribuita anche una patente di ladro generoso. Ghino era il rampollo della nobile famiglia feudale dei Cacciaconti, di fede ghibellina, che alla metà del xiii secolo sconvolse il territorio della patria natia, la Val di Chiana, combattendo contro i guelfi senesi. Passò quindi a operare al confine con lo Stato Pontificio, dopo essersi arroccato nel maniero di Radicofani, quando, oramai, si era dato al brigantaggio puro.

    Il banditismo del xvi secolo, invece, venne alimentato principalmente dalle cicliche crisi economiche che avevano investito l’Europa intera. Uno dei fattori scatenanti era stato il crollo dei prezzi dovuto all’inflazione, causata dall’immissione massiccia di oro dalle colonie americane. Ciò aveva provocato una crescita della ricchezza e l’aumento della richiesta di beni, facendo lievitare i prezzi.

    E se c’era chi si era arricchito proprio grazie ai benefici dell’oro americano, le classi meno abbienti, al contrario, non riuscivano più a far fronte al pagamento dei canoni dovuti per i terreni, mentre poveri e miseri aumentavano a dismisura e sempre più gente non riusciva a sbarcare il lunario.

    Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento iniziarono a sorgere le milizie mercenarie private, che si mettevano al soldo (da cui il mestiere di soldato) delle potenti famiglie signorili o baronali.

    Si assistette, soprattutto nel Seicento, alla nascita dei primi eserciti al servizio di una nazione, secondo il concetto che se ne aveva in quei secoli, ma ancora su base mercenaria.

    Tuttavia, la guerra dei trent’anni, dal 1618 al 1648, può essere considerata lo spartiacque tra l’arruolamento di milizie mercenarie e la composizione dei nascenti eserciti nazionali, perché per la prima volta si combatté, oltre che per la paga, anche per affermare il principio di nazione. Fu il caso dell’esercito svedese, condotto in prima persona dal re Gustavo Adolfo, o dell’effimero tentativo messo in atto dall’ex mercenario Wallenstein di creare un proprio Stato con una milizia permanente.

    Il problema principale, legato alle formazioni mercenarie, sorgeva quando una di quelle veniva sconfitta, liberando così i soggetti vincolati che ne facevano parte, i quali finivano per sbandarsi commettendo ruberie e crimini.

    Tra il xvi e il xvii secolo, l’Italia intera venne investita dal fenomeno del banditismo. In Calabria troviamo personaggi quali Marco Berardi, detto re Marcone, che formò una banda sui monti della Sila; in Sicilia c’erano Rizzo di Saponara e Antonio De Blasi; la Lombardia, invece, fu infestata da un tal Giovan Battista Gatto.

    Ma il territorio italiano dove agirono le bande più organizzate ed efferate tra gli ultimi trent’anni del xvi e gran parte del xvii secolo fu lo Stato Pontificio.

    Il banditismo pontificio tra Cinquecento e Seicento

    Nei secoli precedenti a quelli appena citati, inclusa l’epoca dell’Impero romano, il fenomeno del banditismo era sempre stato una piaga endemica nelle campagne intorno all’Urbe, prima, e nelle province pontificie poi.

    Già dalla fine del xv secolo, la via Cassia (in particolare l’area denominata Valle del Baccano) a nord, e le vie Appia, Prenestina e Collatina, a sud-est della Città Eterna, nonché l’area della provincia di Roma (che nell’Ottocento sarebbe stata denominata Comarca), vennero infestate dalle scorrerie dei briganti.

    Il fenomeno si estese progressivamente a quasi tutto lo Stato della Chiesa, includendo le province ancora più a nord, quelle che in seguito sarebbero state denominate le Legazioni di Romagna. Anche la Maremma, la Marca (le attuali Marche), l’Umbria e il reatino furono infestati da quella piaga, e stessa sorte toccò al cosiddetto Patrimonio di San Pietro¹ e alle province di Marittima e Campagna (cioè l’ampia zona compresa tra il Velletrano, il Frusinate e il litorale meridionale fino a Terracina).

    Per quanto riguarda il Patrimonio, la Marca, l’Umbria e le Legazioni, il fenomeno venne alimentato dai contrasti fra le diverse fazioni feudali, guidate da nobili quali i duchi Alfonso Piccolomini o Paolo Giordano Orsini, che si diedero a vere e proprie azioni di brigantaggio.

    Nella provincia di Marittima e Campagna, la cui area si estendeva fino ai confini montuosi con il Regno di Napoli, prevalsero, invece, motivazioni legate al perenne dissidio tra l’autorità papale e i governatori locali. Questi ultimi appartenevano a famiglie di stampo prettamente feudale che detenevano il controllo sia del potere politico che di quello amministrativo-giudiziario, e non avevano alcuna intenzione di perderlo a favore del potere centrale. Tale dissidio, oltretutto, coinvolgeva anche la popolazione rurale, legata al destino del proprio signore.

    I primi bandi che iniziarono a inasprire le pene per i reati legati al brigantaggio risalivano a Pio ii, il quale ruppe la consuetudine della pacificazione tra bande e famiglie offese, prassi che prevedeva la cancellazione delle pene previste per i crimini commessi.

    Sulla stessa linea di condotta proseguirono anche Giulio ii, Leone x e Clemente vii, sotto il pontificato dei quali venne delegato ai signori locali il potere di giudicare i rei.

    Ciò, ovviamente, comportava in maniera inevitabile l’insorgere di abusi legati all’arbitrarietà di giudizio, che spesso veniva condizionato da fattori di rivalità, invidie, o inimicizie ataviche tra chi doveva giudicare e chi subiva le sentenze. Soltanto i casi più gravi venivano avocati dal Governatorato di Roma.

    Nella Roma pontificia di quei secoli, la massima autorità nella lotta alla criminalità era il Cardinal Camerlengo che, nel xvi secolo, ottenne una serie di ampliamenti della sua sfera d’azione a scapito dei tribunali locali, divenendo, alla fine, un potere giudiziario inappellabile.

    Il processo a un malvivente poteva iniziare per una denuncia della parte lesa, per un’accusa da parte di terzi o per l’inquisizione d’ufficio. Se l’accusato era contumace e non si presentava in tribunale, dopo un certo numero di citazioni veniva bandito e i suoi beni confiscati. Per i reati più gravi era previsto anche il bando capitale, per mezzo del quale chiunque poteva uccidere il reo senza rischiare alcuna pena.

    Papa Giulio iii, nel 1554, conferì al Governatore di Roma il potere di procedere contro banditi e ricattatori, dando facoltà ai giudici del tribunale di poter sentenziare anche in loco, cioè in trasferta, assumendo così il ruolo di Corte suprema itinerante e sottraendo in questo modo, in maniera definitiva, il potere ai tribunali periferici.

    Con il lievitare del numero dei delitti, i magistrati inviati da Roma furono invitati a procedere contro i banditi e i loro fiancheggiatori (i manutengoli) per via diretta, cioè emanando la sentenza, inclusa la sua esecuzione, senza neanche istruire un processo.

    La spettacolarità delle sentenze, che spesso prevedevano mazzolamenti e squartamenti del giustiziato, oltre a essere percepita dalla gente comune come un severo monito, assumeva l’aspetto di una rappresentazione a metà tra il sadico e il ludico, tale da soddisfare la sete di violenza insita nelle popolazioni di quell’epoca (e non solo, purtroppo).

    Una legislazione molto più coercitiva contro il banditismo prese forma sotto il pontificato di Pio iv (1559-65), che con una bolla del 6 gennaio 1561 confermò e rafforzò le pene in vigore contro banditi e ricettatori.

    Sotto Pio v (1566-72) il banditismo iniziò ad assumere un aspetto decisamente più allarmante e papa Ghislieri pretese che venissero applicate, con maggior rigidità, le norme già esistenti, colpendo con severità anche i parenti dei malviventi, spesso collusi con questi ultimi.

    Tuttavia, l’intransigenza di questo papa spinse definitivamente alla macchia molti dei banditi che ancora non avevano fatto una scelta così drastica.

    Tra il 1560 e il 1580, nella zona dell’ascolano, scoppiarono diversi tumulti soprattutto a opera della banda di un tale Mariano Parisani, personaggio che rappresentava una sintesi tra il fuoriuscito politico e il bandito comune.

    Il potere centrale, tuttavia, appariva comunque debole nel contrastare questo tipo di violenza e ciò facilitò la conquista del territorio da parte di quei signorotti locali, ancora di stampo feudale, che acquisirono sempre più potere. Tra questi, uno dei più famosi fu il capitano Odoardo Odoardi, reduce dall’esaltante vittoria di Lepanto, il quale rappresentava una sintesi, non rara, di militare, nobile e bandito.

    I reati tipici connessi al banditismo erano il latrocinio (furto e rapina con violenza), l’abigeato (furto di bestiame), l’incendio doloso, le minacce e il ricatto, l’assassinio o l’aggressione su commissione, il rapimento e il sequestro di persona e, ovviamente, l’omicidio. Ma perché questi reati configurassero l’accusa di banditismo era necessario che venissero commessi da una conventicola, o banda armata, che ci fosse un legame con l’ambiente rurale o che avvenissero in luoghi selvaggi, impervi o montuosi o, ancora, che le attività delittuose si compissero lungo le grandi vie di comunicazione.

    In sede di giudizio, poi, diventava fondamentale il fatto che l’imputato fosse conosciuto con dei nomignoli, perché ciò rafforzava la validità del reato, che veniva riconosciuto con ancora maggior certezza.

    La pena prevista per questo tipo di delinquenti era l’ultimo supplizio al quale si aggiungeva, a seconda dei reati commessi, la mazzolatura con, o senza, squartamento, che doveva servire, come accennato in precedenza, da monito per il popolo. Nel primo caso «il boia si limitava, servendosi di una mazza di ferro o mazzola, a sferrare un violento colpo sulla testa del condannato, in posizione eretta o con il capo appoggiato sul ceppo, per fracassargli il cranio»². Nel secondo caso quella stessa procedura era «seguita dallo squarto del cadavere e dall’esposizione della testa e dei quarti sul patibolo o alle porte delle località in cui era avvenuta l’esecuzione»³.

    Le ultime macabre esecuzioni di questo tipo avvennero sotto Annibale della Genga, Leone xii, che si rese piuttosto impopolare per il modo inflessibile con cui fece applicare la giustizia durante il suo pontificato. Quando questi morì, la voce parlante di Roma, cioè la statua che i romani chiamavano Pasquino, lasciò uno dei suoi proverbiali epigrammi che recitava così: «qui della Genga giace, per sua e nostra pace».

    I banditi erano spesso protetti dalle comunità rurali, dal clero e, come si può facilmente intuire, dai signori feudali cui prestavano la loro mano d’opera e quindi, come analizzeremo più avanti, a volte accadeva che un bandito riuscisse a evitare la forca grazie alle protezioni di cui lui stesso, o magari la sua famiglia altolocata, godeva.

    I dieci anni che sconvolsero lo Stato della Chiesa

    Verso la fine del Cinquecento Roma aveva raggiunto i 100.000 abitanti ma la povertà aumentava sempre di più a causa della sopraggiunta crisi economico-agraria. I contadini avevano iniziato a riversarsi in città e, parallelamente, si moltiplicarono le confraternite per l’assistenza ai poveri, come quella del presbitero fiorentino Filippo Neri.

    Anche molti di coloro che esercitavano dei mestieri presso le corti di cardinali e nobili, come staffieri, sarti o cuoiai, persero il lavoro e furono costretti all’elemosina.

    Dopo il 1580, la nuova fiscalità voluta dai diversi pontefici che si succedettero, accentrata e più oppressiva, si sommò alla crisi economica e alla carestia dei successivi anni Novanta, creando una situazione esplosiva che favorì il fenomeno del banditismo. Quest’ultimo conobbe una forte escalation proprio nel decennio di fine secolo, assestando un duro colpo all’economia agricola della campagna romana e dei suoi dintorni. Oltretutto, quelle zone, nel biennio 1589-90, furono ulteriormente provate dalle piene eccezionali del Tevere. Si calcolò che ci furono quasi duecento giorni di pioggia continua, tanto che la bonifica delle paludi a sud di Roma, voluta da Sisto v (tre anni di duri lavori) venne completamente azzerata.

    Anche l’eccessiva lievitazione delle tasse divenne causa ed effetto del fenomeno del banditismo, spingendo i contadini, già affamati dalla carestia, a darsi definitivamente alla macchia. Si assistette così all’abbandono della terra coltivata e all’estendersi dei terreni messi a pascolo e sottratti, perciò, all’agricoltura.

    Masse di soldati sbandati, prevalentemente ex-mercenari, erano rimasti sul territorio italiano fin dal 1559, dopo la fine della guerra tra Francia e Spagna conclusasi con il trattato di Cateau-Cambrésis. A quelli si erano aggiunti, appunto, anche i contadini rimasti senza terra e datisi al vagabondaggio, oltre ad alcuni elementi del basso clero, riottosi nei confronti delle nuove direttive imposte dalla Controriforma e volute dal Concilio di Trento, conclusosi nel 1564.

    Tutta questa massa di persone andò a ingrossare le numerose bande, nelle quali militavano, e spesso ne erano addirittura i capi, nobili feudatari ostili al rafforzarsi del potere centralizzato rappresentato dal pontefice.

    Il fenomeno malavitoso iniziò letteralmente a dilagare quando papa Gregorio xiii sottopose a verifica tutti i titoli di proprietà feudali ai fini di un controllo fiscale, perché erano molti i feudatari che non pagavano i canoni dovuti o che avevano alienato, senza alcun titolo, terreni concessi in feudo ad altre casate.

    L’azione giudiziaria, seguita alla stretta fiscale voluta da papa Gregorio, spinse la piccola nobiltà, spodestata dai suoi possedimenti, a ingrossare le fila del banditismo, come testimonia l’azione delittuosa di banditi-nobili come Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, che dal 1578 continuò a delinquere per circa tredici anni.

    Piccolomini fu un temutissimo signore e brigante d’Italia, che godeva degli appoggi e delle protezioni di altre famiglie nobili, come ad esempio i Colonna, gli Orsini, gli Sforza e i Cesarini, colpite dalla dura repressione fiscale attuata dal pontefice.

    Anche il nobile Orazio Savelli, appartenente a un’altra antichissima famiglia romana, si unì alla banda del Piccolomini, insieme ad altri piccoli feudatari della Marca e delle Romagne. Ma non fu l’unico della sua schiatta a darsi al banditismo, perché un altro Savelli, Troilo, signore di Palombara, terrorizzò con la sua masnada il territorio pontificio nell’ultimo decennio del Cinquecento.

    Tra gli appartenenti alla nobiltà romana, che salirono all’onore delle cronache giudiziarie in quegli anni, ci fu anche Ramberto Malatesta, irrequieto signorotto romagnolo.

    Anche alcuni personaggi piuttosto pittoreschi, se possiamo usare tale termine per degli assassini, alimentarono il fenomeno del brigantaggio, come il cosiddetto Prete di Guercino, un religioso datosi al banditismo che agì sotto i pontificati di Gregorio xiii e Sisto v. Ma mentre il primo lo perdonò, nonostante le decine di omicidi commessi, il secondo lo fece uccidere da un compagno, in un’azione concordata con i birri.

    Tra i banditi di estrazione più popolare, infine, si possono annoverare i famigerati Leoncillo da Spoleto e il Pallante.

    Le orde di malviventi potevano arrivare a raggruppare fino a quattrocento o cinquecento elementi, dei veri e propri piccoli eserciti. Per tentare di arginare il fenomeno malavitoso, il solito Gregorio xiii proibì ai nobili, con la minaccia di pene severe, di dare ricetto ai ricercati nei loro palazzi (pratica piuttosto usuale). Nel 1579, lo stesso pontefice inviò un contingente di 400 soldati nella legazione di Campagna e nella Marca, con l’intento di dare un colpo mortale a quella piaga.

    Comandanti, allora piuttosto noti, come Retica, il Fata o Latino Orsini, incaricati delle missioni di giustizia, avevano pochi mezzi economici a disposizione per assoldare gli uomini necessari e, anche quando promettevano paghe alte, gli elementi locali si rifiutavano di seguirli.

    A volte, oltretutto, molti dei soldati defezionavano dai loro ranghi passando nelle file dei banditi, sia perché diffidavano in generale del potere costituito, che emanava leggi a loro estranee o incomprensibili, oppure per paura di vendette da parte dei loro compatrioti che si erano dati al banditismo. Entrare nelle fila delle milizie di giustizia, agli ordini del bargello⁴, veniva considerato un tradimento nei confronti della propria comunità.

    Il 5 luglio 1580, Gregorio xiii, che non ne poteva più di quei banditi, nominò il cardinale Alessandro Sforza legato di tutto lo Stato Pontificio, eccetto la città di Bologna che venne assegnata al cardinale Cesi. Inoltre, affidò ai cardinali Latino Orsini e Giacomo Boncompagni, figlio del papa, la responsabilità della lotta contro i banditi.

    Comminò, inoltre, una punizione severa contro il borgo di Montemarciano, vicino ad Ancona, la base del famigerato Piccolomini, e fece disboscare le zone cespugliose della campagna romana.

    L’azione energica del papa tosto

    Recita un antico proverbio popolare «meglio un morto in casa che un marchigiano dietro la porta», detto con cui si evidenzia la caparbietà di quella popolazione nel sapere affrontare con costanza e determinazione la vita, senza arrendersi mai.

    E tale fu il carattere che mostrò il marchigiano Felice Peretti, nativo di Grottammare, dal momento in cui salì al soglio pontificio con il nome di Sisto v.

    Religioso di umili origini, regnò dal 1585 al 1590, e fece della lotta al banditismo un suo chiodo fisso, inasprendo fin da subito le pene: «Fin dal 1585 il papa aveva promulgato editti contro il banditismo. Abbassava a quattordici anni l’età a partire dalla quale si poteva essere dichiarati colpevoli. Soprattutto, rendeva i comuni responsabili dei danni causati dai banditi»⁵.

    Il nuovo papa, in materia di prevenzione della criminalità, arrivò al punto di recludere i mendicanti sparsi per Roma nell’ospizio di San Michele. Rafforzò l’apparato di polizia urbana, imperniandolo sulla figura del bargello e dei birri, i quali, tuttavia, erano quasi sempre persone poco affidabili, perché il più delle volte si trattava di ex banditi, soldati disoccupati e d’indole aggressiva, prepotenti e violenti, che spesso abusavano di coloro che avrebbero dovuto difendere.

    Sisto v, per il suo carattere determinato, era soprannominato dai romani er papa tosto. Nel suo animo c’era una forte volontà di dimostrare al popolo come la sua azione contro il banditismo fosse più incisiva rispetto al recente passato, come lo era stata, ad esempio, quella di Gregorio xiii.

    Sisto stigmatizzò il suo predecessore definendolo un papa debole e titubante, al cui confronto si riteneva un intransigente nei confronti dell’illegalità, avendo come obiettivo primario la sicurezza del suo popolo.

    Sotto la guida di papa Peretti, il brigantaggio venne sicuramente ridimensionato anche se non del tutto debellato, perché ancora nel 1587 risultava che su ventisettemila banditi ne era stato annientato solo un quarto.

    Tuttavia, considerati i risultati positivi ottenuti nei primi anni del suo pontificato, Sisto v, per rendersi ancor più popolare, decise di abolire la carica del poco amato bargello di campagna, istituita dal suo predecessore, ritenendola inadeguata. Ma così facendo, favorì il riemergere del fenomeno, che si manifestò in tutta la sua crudezza, soprattutto nella periferia dello Stato.

    Già fin dall’estate del 1585, pochi mesi dopo la sua elezione, il pontefice marchigiano aveva emanato una raffica di nuove disposizioni e norme contro il brigantaggio. Anzitutto aveva esteso la possibilità della remissione della pena anche per i congiunti dei briganti, che si fossero resi complici dei banditi e che intendessero collaborare con la giustizia, e, come già detto, aveva abbassato a 14 anni l’età minima per essere giudicati in un processo.

    Aveva stabilito, inoltre, delle taglie che andavano dai 400 scudi per l’uccisione di un capobandito ai 600 per la sua consegna da vivo, e quelle taglie dovevano essere pagate dai parenti degli stessi malviventi.

    L’utilizzo dell’indulto, con la remissione della pena per chiunque avesse collaborato con la giustizia, comportò, come prima conseguenza, una serie di tradimenti e delazioni. Ebbe così inizio una catena di vendette e faide tra bande, il tutto con il placet dell’autorità papale che contava sull’eliminazione a vicenda dei malviventi.

    Sisto v pose anche alcune severe restrizioni, come si poteva leggere su un «Avviso di Roma» del primo marzo 1587, in cui era riportato il bando del governatore di Roma, monsignor Benedetti, con cui «vengono vietate le Osterie di campagna, senza il permesso; la sera tutte le barche devono stare nel porto; i Padroni delle tenute e dei casali sono tenuti a denunziare nominativamente tutto il personale addetto alle loro aziende»⁶.

    Tuttavia, l’eccessiva rigidità e intransigenza del pontefice spinse ancora di più alla macchia una massa di disperati e diseredati, tanto che, alla fine, si decise di conferire poteri speciali, in materia di giustizia, ai cardinali Albani, Carafa, Salviati, con quest’ultimo che venne nominato coordinatore per la repressione del banditismo.

    Il 29 luglio 1585, con la bolla Multa et gravia, papa Peretti istituì il Monte della Pace, con un capitale di 300.000 scudi e un tasso al 5,25 per cento annuo, che aveva come scopo proprio quello di finanziare la lotta al banditismo.

    Quattro mesi più tardi, il governatore di Roma, Pierbenedetti, pose l’obbligo di esibire il certificato (una specie di buona condotta) in cui si attestava che il soggetto in questione non era un bandito.

    L’azione drastica di Sisto v contro i briganti sembrava non conoscere soste, anche perché il fenomeno continuava a infestare, soprattutto, i confini dello Stato, principalmente quelli meridionali con il Regno di Napoli.

    Perciò, il pontefice decise di stipulare una serie di accordi con i governi di Napoli, Ferrara, Urbino, Venezia e Firenze. Tuttavia, per ottenere l’estradizione dei banditi, dovette spesso fare pressione su quegli stessi governi perché ottemperassero agli impegni presi.

    Nel 1586 vennero rafforzate le pene contro i messi e i manutengoli dei banditi e si stabilì che i proprietari di casali e procoi⁷ dovessero fornire liste aggiornate dei loro lavoranti. Fu anche emanata una absolutio et gratia generalis per gli eventuali pentiti, nella speranza che delatori e traditori crescessero di numero.

    Papa Sisto, che proveniva dall’ordine dei francescani, si avvalse delle capacità politiche e militari di un suo ex discepolo, di cui era stato padre spirituale, divenuto poi cardinale, il nobile Marcantonio Colonna. L’azione intrapresa dal Colonna contro il banditismo fu intensissima ed esiziale nei confronti del fenomeno criminoso e durò per tutto il pontificato del Peretti.

    Un esempio pratico dei metodi di quel cardinale fu quello che mise in atto contro il presunto bandito Fabio di Giovanni de’ Ricci da Cori, il quale, esaminato in prima istanza, aveva dichiarato di non aver mai avuto contatti con i briganti. Ma, in virtù delle nuove disposizioni emanate dal cardinale stesso, che stabilivano una robusta ricompensa per chi ammazzasse i banditi, il de’ Ricci iniziò a collaborare e aiutò a scovare diversi malviventi, consegnandoli alle autorità per intascarsi, così, il premio stabilito.

    Grazie al cardinal Colonna la piaga venne circoscritta e le teste dei molti fuorilegge giustiziati vennero esposte su Ponte Sant’Angelo.

    Per chi in quegli anni entrava a Roma non era raro trovare appesi alle porte della città gli organi dei manigoldi giustiziati, quali testa, braccia o mani.

    Tra i tanti banditi eliminati sotto il pontificato di Sisto v ce ne fu anche uno molto particolare, Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano, che era stato un grande condottiero militare. L’Orsini si rese autore di molte malefatte, tra cui una che gli fu fatale: l’uccisione di Francesco Peretti, nipote del papa quando quest’ultimo era ancora un cardinale. Quell’omicidio fu compiuto per sottrarre a Francesco la bella e giovanissima moglie (oltretutto consenziente) Vittoria Accoramboni.

    Giordano Orsini, a un certo punto della sua vita, aveva anche ottenuto l’immunità da Gregorio xiii, mettendosi al suo servizio proprio per dare la caccia ai banditi (nel 1579 fallì per un soffio l’arresto del noto malvivente Vallante, detto Catena).

    Grazie agli accordi col precedente pontefice, il delitto di Francesco Peretti era rimasto impunito. Ma una volta eletto papa, lo zio cardinale, che non aveva certo dimenticato quell’assassinio, cancellò dalla faccia della terra l’Orsini, disperdendone la banda che aveva la sua base nel castello avito di Bracciano.

    Sisto v non diede mai quartiere ai banditi, e proverbiale è rimasto un avviso che venne affisso a Roma in quegli anni: «Quest’anno si son viste più teste sul ponte Sant’Angelo che meloni al Mercato». La sua determinazione travalicò i confini dello Stato Pontificio e sotto sua esplicita richiesta il governo veneziano fece arrestare e strangolare un altro nobile della famiglia Orsini datosi al banditismo, Ludovico.

    Anche il granduca di Toscana fu costretto a piegarsi alla volontà di quel pontefice, consegnandogli il capobanda Ramberto Malatesta, che venne giustiziato nel 1587.

    L’energica azione di Sisto v contribuì a recidere il legame di complicità tra i proprietari feudali e i banditi, che in seguito non fu più così solido come lo era stato prima di lui; anche se, alla sua morte occorsa nel 1590, il banditismo si rianimò comunque e tornarono alla ribalta personaggi come Piccolomini e Sciarra.

    Nella prima metà dell’ultimo decennio del xvi secolo, le campagne nei dintorni di Roma si svuotarono di contadini i quali, anche per la sopraggiunta penuria di grano, andarono a ingrossare le conventicole.

    Il fenomeno continuò a dilagare fino al 1595, nonostante l’impiccagione a Firenze del Piccolomini nel 1591, e l’assassinio dello stesso Sciarra, avvenuto vicino ad Ascoli nel 1593.

    Dal 1592 in poi, il nuovo papa Clemente viii Aldobrandini impegnò fino a 2000 soldati nella lotta al banditismo, la cui guida fu affidata al nipote Gian Francesco.

    Dopo il 1595 il brigantaggio andò scemando, soprattutto a causa dello scoppio della guerra d’Ungheria, che attirò molti mercenari e, nel 1597, per le conseguenze della battaglia di Ferrara, che fu causa della morte del duca Alfonso ii d’Este e il passaggio della città allo Stato Pontificio.

    Il conflitto ungherese, e quello scoppiato con la Chiesa per l’opposizione del figlio di Alfonso, Cesare, alla cessione del ducato, comportarono un arruolamento in massa che tolse linfa al brigantaggio.

    I banditi nelle grandi famiglie feudali

    Negli ultimi decenni del Cinquecento un ramo della nobile famiglia Caetani, quello di Maenza, salì alla ribalta della cronaca nera in virtù delle azioni criminali commesse dai suoi principali esponenti. Tali delitti però non furono mai severamente perseguiti, grazie alle protezioni di cui i Caetani godevano presso la corte pontificia, soprattutto da parte di tre influenti cardinali appartenenti a quella stessa famiglia, Nicolò, Enrico e Luigi.

    Pur essendosi macchiati di molti crimini, i Caetani coinvolti in atti di banditismo comparvero poche volte come imputati nei processi. Tuttavia, alcuni elementi della casata non poterono evitare di finire sotto giudizio, come Cesare Caetani nel 1565, processato per vari delitti ma assolto pienamente dal papa nel 1570, con il decisivo intervento del cardinale Nicolò.

    Nel 1571, Cristoforo Caetani venne processato e assolto dall’accusa di ricevimento di banditi e, nel 1582, di nuovo Cesare fu coinvolto nell’assalto al corriere di Napoli, che venne svaligiato.

    Fortemente irritato per quei comportamenti malavitosi, Gregorio xiii ordinò il sequestro dei feudi dei Caetani di Maenza e Cesare venne rinchiuso in Castel Sant’Angelo. Dopo un tentativo di fuga di quest’ultimo la pazienza del papa si esaurì e, nel 1583, il bandito duca venne giustiziato e i suoi feudi incorporati dalla Camera Apostolica.

    A Sermoneta, dove risiedeva l’altro ramo dei Caetani, il duca Onorato, che combatté con onore a Lepanto, aveva sempre osteggiato con determinazione il brigantaggio nei suoi feudi. Ma quando questi morì nel 1592, lo stesso anno dell’elezione di Clemente viii, gli succedette Pietro Caetani, il quale, al contrario del suo predecessore, non rifiutò mai di accordare protezione ai banditi, soprattutto per compiere vendette e omicidi. E alla fine fu proprio papa Clemente che mise sotto accusa l’intera comunità di Sermoneta, incluso un luogotenente della milizia, Cesare Scatucci, accusato di favoreggiamento del brigantaggio.

    Durante il pontificato di Clemente viii, a Roma era in voga il detto che le carceri di Tor di Nona erano piene di sermonetani, ma a Pietro Caetani toccò l’esilio nel suo castello di Cisterna, sebbene, questa volta grazie alle pressioni del cardinale Enrico Caetani, l’esilio venne revocato nel 1593.

    Anche i figli di Cesare Caetani, Antonio e Scipione, signori di Filettino, Trevi e Vallepietra, compirono atti di banditismo, scorrazzando per le campagne con l’intento di vendicare l’esecuzione del loro genitore avvenuta sotto Gregorio xiii. Antonio uccise il nipote del vescovo di Anagni, reo di aver favorito la cattura di suo padre che lo aveva condotto verso l’esecuzione capitale. Per questi misfatti Scipione e Antonio Caetani vennero condannati in contumacia nel 1592, ma successivamente, nel 1596, furono assolti dal cardinale Pietro Aldobrandini, nipote del papa, ancora una volta per merito di un provvidenziale intervento sempre del cardinale Enrico, che riuscì anche a far riottenere loro la restituzione dei fondi che erano stati confiscati.

    Un altro Caetani, Pompeo, per vendetta contro il podestà di Veroli, fece addirittura saltare in aria il palazzo comunale con l’intero consiglio in seduta. Venne inseguito dai cittadini e ucciso.

    Quando Sisto v nominò il cardinale Marcantonio Colonna governatore di Campagna e Marittima, le cose per i Caetani cambiarono. I Colonna, pur avendo da tempo un rapporto di amicizia e connivenza con la famiglia sermonetana, cambiarono atteggiamento dopo il nuovo incarico ottenuto da Marcantonio, e le relazioni tra le due nobili famiglie romane si deteriorarono.

    Il governatore pretese che venissero frenate le intemperanze di alcuni appartenenti a quella casata e quando nel 1594 Filippo Colonna fu aggredito a Sezze, salvandosi per miracolo ma perdendo tutto il denaro che aveva con sé, la famiglia Caetani non godé più di alcuna protezione.

    Un’altra grande famiglia, quella degli Orsini, nell’ultimo ventennio del xvi secolo fu protagonista di atti, se non proprio di puro banditismo, quanto meno di anarchia e violenza.

    Due dei principali esponenti di quella famiglia, Paolo Giordano i e Ludovico, si ritrovarono al centro di episodi criminali sfidando l’autorità pontificia.

    Paolo Giordano fu il mandante dell’omicidio di Felice Peretti, nipote del futuro Sisto v, delitto pianificato per potersi unire in matrimonio con la vedova Vittoria Accoramboni, con cui l’Orsini era già in combutta e che alla fine rapì e sposò in gran segreto.

    Il cugino Ludovico, alla testa di una cricca di personaggi violenti, cui occasionalmente si aggiungeva anche il bandito Sciarra, si oppose al suo arresto asserragliandosi nel palazzo di Monte Giordano a Roma, nei pressi di piazza Navona, scatenando, contro il bargello e i suoi birri, una vera e propria battaglia con morti e feriti.

    La repressione del banditismo da Gregorio xiv a Clemente viii

    Il nuovo papa Gregorio xiv, eletto il 5 dicembre 1590 (regnerà meno di un anno) aveva deciso di appoggiare la spedizione di Alessandro Farnese e della Lega cattolica contro Enrico iv di Borbone. Per questa ragione, nell’aprile del 1591, aveva emanato un motu proprio con cui garantiva la remissione della pena a tutti i banditi, compresi i loro parenti compromessi, che avessero deciso di arruolarsi per combattere contro il re di Francia, sostenuto dagli Ugonotti. Tra i crimini condonati erano compresi anche quelli di lesa maestà (cioè contro gli uomini di Chiesa e contro lo Stato).

    Il colonnello Odoardo Odoardi venne incaricato dal cardinal Benedetto Giustiniani (1554-1621), di reclutare alcune bande e di metterle al servizio della Lega. Tra queste furono assoldate quella del famigerato Marco Sciarra e del suo luogotenente Battistella da Monte Guidone (oggi Monte Vidone) e di Pietro Angelo da Petralta, anche se poi, in

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