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Terroni al nord
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E-book226 pagine3 ore

Terroni al nord

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Voglio raccontare la mia storia così com’ è andata realmente, perché è la pura verità. È quello che mi è successo, e quello che leggerete è ciò che si subisce quando una donna si separa, quando cerca lavoro, quando si perde il lavoro pur di non scendere ad orribili compromessi.

Perciò, alla luce di quanto mi appresto a raccontarvi, vorrei che nessuno ricada negli stessi errori che ho compiuto io. Se al mio tempo avessi avuto qualche avvertimento del genere, forse la mia storia sarebbe stata ben diversa da com’ è andata, e oggi è tardi per dirlo.

Francesca è nata nel 1970 in provincia di Caltanissetta. Dopo la breve carriera come artista, lavora come impiegata in Lombardia.
Terroni al nord è la sua prima opera letteraria.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2022
ISBN9791220123525
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    Terroni al nord - Francesca Muscia

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    Francesca Muscia

    Terroni al nord

    © 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-1744-9

    I edizione dicembre 2021

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Terroni al nord

    Prologo

    Voglio raccontare questa storia, la mia storia, non perché credo sia più speciale di altre ma perché, guardando indietro a quella che è stata la mia vita, oggi posso affermare con certezza che il mio percorso non è stato propriamente normale. Sono ben conscia del fatto che magari esistono storie peggiori o più avvincenti della mia, ma dopo cinquantuno anni passati a vivere e ripensare a quello che mi è successo, sono oggi arrivata alla conclusione che non è giusto tenermi tutto dentro e rischiare persino, un giorno, di dimenticare quanto accaduto. Desidero che la mia esperienza possa essere d’aiuto a quanti, come me, si sono trovati in difficoltà, senza avere qualcuno con cui parlare, senza sapere cosa fare in momenti non facili da raccontare, né da rivivere.

    Voglio prenderne atto il più possibile e far sì che il mio dolore non sia stato vano.

    Più di tutto, quello che mi spinge a scrivere e a concretizzare tutto ciò è il mio desiderio di dare un messaggio di speranza in particolare alle donne come me, a chiunque possa sfortunatamente comprendere il mio dolore. Il dolore di essere state maltrattate in passato o di esserlo tuttora silenziosamente, dai propri mariti o da coloro i quali professano amore nei loro riguardi. Per questo, ciò che mi sento di dire, e che purtroppo ho avuto modo di costatare nella mia esperienza, è che il silenzio non è affatto un rimedio alla violenza: se un uomo compie un abuso anche una sola volta, psicologicamente o fisicamente, si sentirà in diritto di farlo sempre. Più volte tollererete e più grande e importante si sentirà lui stesso pur nella sua miseria; più volte lo farà e più piccole vi sentirete voi nella vostra sofferenza. Eventi di questo genere sono in grado di spazzare via il coraggio e l’autostima, fino a far diventare invisibile la persona che accetta o non comprende subito la gravità della propria situazione.

    Voglio raccontare la mia storia così com’è andata realmente, perché è la pura verità. È quello che mi è successo, e quello che leggerete è ciò che si subisce in Sicilia quando una donna si separa, quando cerca lavoro, quando perde il lavoro pur di non scendere a orribili compromessi.

    Perciò spero che quanto sto per raccontare eviti a qualcuno di ricadere negli stessi errori che ho commesso io: se a mia volta avessi avuto un avvertimento del genere, forse la mia storia sarebbe stata diversa, ma oggi è tardi per dirlo. È per questo che, senza la pretesa di insegnare a qualcuno cosa fare, vorrei limitarmi a dare un consiglio da amica a chiunque intraprenderà questa lettura: è meno doloroso, alle volte, prendere provvedimenti sin da subito che peggiorare delle situazioni già spiacevoli. E questo vale ancora di più se si hanno dei figli: i bambini assorbono tutto come una spugna, non è vero che non capiscono cosa succede ai propri genitori o tra i genitori. Qualsiasi pediatra o psicologo infantile potrà dire lo stesso; soprattutto se i bambini sono spettatori di eventi infelici, loro stessi possono subire danni a lungo termine e trovarsi persino a ripetere gli errori dei genitori. Pochi si salvano, e io ne so qualcosa. I bambini sono la rappresentazione dell’innocenza, e in nessun caso dovrebbero vivere un’infanzia infelice, perché non hanno scelto loro né il momento né il luogo in cui nascere. Perché non esistono la fortuna o la sfortuna, ma sicuramente esistono le coincidenze... a partire dal luogo in cui si nasce.

    Capitolo 1 - Nascere a Grammichele

    Sono nata in un piccolo paese in provincia di Catania, nell’ormai lontano 1970. Della mia città, una delle cose che ricordo con più gioia, che vedo ancora come un grande pregio che caratterizza il sud Italia, è il calore della gente. Ricordo tutti miei vicini e le vicine di casa, in quel senso ho sempre avuto molta compagnia. Quasi ogni giorno mi piaceva molto ricevere ospiti – preferivo un po’ meno recarmi io stessa da loro – proprio perché la mia porta era sempre aperta per tutti. Ero allegra per questo, specialmente quando venivano a trovarci i molti bambini del vicinato.

    D’altra parte, però, fino all’età della mia adolescenza non sapevo di vivere in una famiglia non facile. Posso dire solo oggi, con l’esperienza che ho maturato e con le cose che ho appreso nel tempo, che nella casa in cui sono nata e cresciuta non c’era davvero niente di facile, né di normale.

    Vivevo per lo più con mia madre, che la mattina andava a lavoro a scuola, e molto meno mio padre, che purtroppo non è stato in nessun modo un padre esemplare. Lui lavorava nei campi a quaranta chilometri da casa, perciò tornava solo una volta ogni quindici giorni, quando non capitava che lo vedessimo solo un paio di volte volta al mese, finché non cominciò a scomparire sempre di più. Per questo sin da quando io e le mie sorelle eravamo piccole, i miei genitori ci apparivano come due persone totalmente incompatibili – oltre ad essere ben diversi dalle classiche coppie di innamorati. Non ci poteva essere alcun affiatamento o amore, visto che non erano nemmeno mai andati d’accordo. E quando mio padre era in casa, si vedeva che non era felice di stare con la propria famiglia e, per di più, ci teneva moltissimo a farcelo sapere. Dunque, da che ho memoria della mia infanzia, ho sempre percepito entrambi come molto distanti e ben lontani dall’essere dei genitori modello.

    Anche se avevamo rapporti cordiali e pacifici con tutti i nostri vicini, la mia famiglia non frequentava molte persone, pur non avendo strane amicizie; forse, vedendo la mia famiglia dall’esterno, era mio padre quello strano. Essendo abbastanza poveri, non uscivamo molto... anzi, non uscivamo proprio. Non era concepibile per noi fare qualche attività tutti insieme; non esisteva andare in paese a mangiare qualcosa fuori o a fare delle compere in centro. Finché non ebbi una mia vita da adulta, non vidi mai una pizzeria. E, allo stesso tempo, non vidi mai mia madre e mio padre uscire insieme a prendere qualcosa, o banalmente a fare una passeggiata.

    Io ero la terza di quattro sorelle: la maggiore aveva sei anni più di me; con la seconda avevo solo tre anni di differenza, mentre sette anni dopo di me nacque mia sorella minore. Ed è stato in quel momento che, forse, è cominciato ad andare tutto male.

    I nostri genitori erano, dunque, persone molto diverse tra loro, e con una famiglia molto impegnativa a loro carico. Noi sorelle non sentivamo di avere un padre; nostra madre faceva una gran fatica a gestire noi, la scuola e tutta la casa. Forse anche per questo non ho mai visto serenità né gioia tra quelle mura: mia madre rideva solo quando era con le amiche, mai in presenza di nostro padre. Già lì io vedevo la sua tristezza, non tanto per colpa nostra, ma probabilmente per l’aura di quella casa... gli unici momenti felici che se mi sforzo riesco a ricordare erano quelli in cui mio padre era a lavoro, quando potevano venire le nostre vicine o quando eravamo in compagnia di nostra zia e della nostra cuginetta. Quando lui tornava a casa era come risprofondare in un silenzio tombale, non c’era alcun segno di letizia.

    Mi torna spesso in mente un ricordo di quando avevo quattro o cinque anni. Ero ai piedi delle scale, nella nostra casa, e indossavo un vestitino bianco. In quel momento, prima di salire la scalinata, avevo molta paura, come tutte le altre volte. Sapevo cosa mi aspettava e non era un momento che vivevo con gioia o attesa, anzi... già dalla prima volta fui molto spaventata, ma non potevo tirarmi indietro – sarebbe stato peggio opporsi a quella pratica e al volere di mio padre. Nella stanza in cima alle scale c’era un signore che mi aspettava al buio, con una candela accesa, che si spegneva non appena scavalcavo l’ultimo gradino.

    L’uomo in questione era un mago che mio padre chiamava spesso, a cui chiedeva qualsiasi cosa, qualsiasi consiglio e che frequentava casa nostra soprattutto in occasione di riti magici di quel genere. Circa una volta al mese, non appena mio padre tornava dal lavoro, veniva a compiere questo rito della candela che, per quel po’ che ci raccontavano, dicevano essere una specie di protezione dal male. Noi tre figlie, dunque, dopo mia madre, dovevamo andare una a una al piano di sopra da sole, e aspettare pazientemente che finisse quando lui lo diceva. Quando la fiamma della candela si spegneva, immersi totalmente nel buio, il mago cominciava a farfugliare una preghiera incomprensibile: dovevamo fare il segno della croce e rimanere lì fermi nelle ombre.

    Ricordo che in quei momenti avevo tantissima paura, per il buio e per quello sconosciuto che professava!

    Anche mia madre, pur essendo una ferma credente in Dio e nella religione cristiana, non poteva opporsi a queste cose, anche perché, come sempre, avrebbe avuto la peggio. Era costretta a sottoporsi a quello strazio lei per prima; dopo di che mandava noi in fila, dalla più grande alla più piccola, finché non siamo state abbastanza grandi da rifiutarci. Per cui lei, quando sapeva che era arrivato quel fatidico giorno, con rassegnazione ci vestiva a festa e ci obbligava a fare quel teatrino, solo per tenere buono nostro padre.

    Lui stesso, purtroppo, era stato cresciuto con queste convinzioni... credeva più alla magia che a Dio, per questo faceva moltissimo affidamento su quel suo mago personale: era un vero e proprio idolo per lui, e doveva essere così anche per noi. Nonostante anche lui andasse in chiesa ogni tanto, forse solo per apparenza, noi sapevamo che preferiva andare dal suo mago. Tant’è vero che dopo qualche anno seppi addirittura che lui era il mio padrino di battesimo!

    Purtroppo per noi, mio padre era stato educato così da sua madre. Della nonna, che io non ho conosciuto bene perché è morta quando ero piccola, mi hanno sempre detto che a sua volta credeva solo nella magia e usava sui suoi figli quelle stesse pratiche, ma che in confronto al trattamento che riservava a suo figlio, noi nipoti eravamo state fortunate. Ci raccontavano che la nonna, per scacciare i malefici dal corpo di suo figlio, nostro padre, lo picchiava con un legno tante volte finché il legno non si spezzava sulla sua schiena. Per fortuna noi non abbiamo mai dovuto subire quello stesso rito, ma nostro padre non aveva comunque intenzione di interrompere la tradizione della magia a cui nonostante tutto era molto legato: non capiva che anche lui era stato una vittima e che, così facendo, non avrebbe mai spezzato quella catena di superstizioni che facevano solo del male... inoltre, ci costringeva sempre a mettere una canottiera, benedetta dall’amico mago. Era un maglioncino speciale, che quando mio padre andava via per lavoro mia madre ci toglieva immediatamente.

    Già da bambina ricordo di essere stata molto scettica riguardo a tutto quelle pratiche che, oltretutto, mi terrorizzavano. Ho capito solo con gli anni che si trattava di una credenza che a mio padre era stata letteralmente inculcata da sua madre e che, probabilmente, lui non aveva molte colpe, oltre quella di continuare a credere fermamente che il mago detenesse tutta la verità! Io stessa ho sempre dubitato del fatto che per scacciare i malefici bisognasse stare al buio: di fatto, il Signore non agisce alla luce e per il bene? E se mio padre voleva una sorta di purificazione o scacciare i demoni e gli spettri, perché continuava a trattarci così male durante la nostra quotidianità?

    Per me erano cose inspiegabili allora e lo sono tuttora, ma capisco che forse non era proprio sintomo di sanità mentale.

    La mia fortuna è stata che mia madre diceva sempre di non credere mai a quelle cose, ma solamente in Dio. Non so le mie sorelle, ma io, da bambina abbastanza ubbidiente nei suoi confronti, l’ascoltavo più che volentieri piuttosto che confidare in quelle pratiche così sospette. Dentro di me sapevo che la preghiera era l’unica cosa giusta da fare, come una cosa innata, e fu solo grazie a mia mamma se ebbi una vera educazione alla religione cristiana. Tutte quelle cose che gli vedevo fare non le ho mai più volute ripetere, e quando potei scegliere di non farle non andai mai più di tanto a informarmi meglio. Non volevo più saperne di candele, di bruciare l’incenso per scacciare gli spettri, ma lui era fissato – lo è tutt’oggi, che io sappia. Ovviamente col tempo la cosa è andata peggiorando, e credo fermamente che sia subentrata la follia, che mio padre non abbia più cognizione di ciò che è vero e di ciò che è solo una credenza.

    L’ultima volta che l’ho rivisto, quando ero ormai grande, è stato il momento in cui forse ho capito la gravità della situazione. Mi disse, convintissimo delle sue parole: «Io ogni notte do da mangiare al cavallo bianco, se gli do da mangiare lui mi dà i poteri! E se non gli do da mangiare, lui muore».

    Un altro avvertimento che volle darmi era di non prendere una determinata strada perché era stata maledetta. Da quel che sapeva, delle persone avevano buttato lungo tutta la strada delle cose maledette e ormai la situazione era irreparabile, bisognava evitarla a tutti i costi. Dovevamo quindi fare un giro più lungo per arrivare in un semplice punto, non dovevamo assolutamente passarci perché chi passava da lì moriva.

    Anche se per tanti anni avevo intuito dalle parole di mia madre che lui non stava bene, lì ho avuto un riscontro personale. Era inoltre fissato sul fatto che qualcuno volesse ucciderlo, ma rimaneva sempre sul vago, dicendo a ripetizione che loro volevano fargli del male. Quando ho capito cosa stava succedendo, non ho potuto fare a meno di ammettere che davvero era una persona che non stava bene, ma nonostante ciò, mia madre non ha mai denunciato nulla. Ha preferito sopportare tutto per una vita intera, finché non se n’è andata. Ha preferito sacrificare la sua vita, ma anche quella di noi figlie, perché insieme a lei abbiamo subito tutto e siamo state spettatrici, e poi vittime, di tutto.

    All’epoca ero solo una bambina e seppur già allora quei fatti mi segnassero, pensavo che fosse tutto normale, che in tutte le famiglie puoi vedere così poco tuo padre, che è normale stare sempre a casa. Che è normale se un giorno all’improvviso tuo padre dà un pugno in testa a tua madre.

    Purtroppo ricordo ancora quel momento come se lo stessi vivendo adesso. Avevo sette anni. Vedendo nostra madre accasciarsi e piangere da sola sui gradini della cucina, cominciai a capire che forse lei stava subendo, soffrendo in silenzio tutto quello strazio; ma ad oggi ancora non so il perché.

    Quella non fu l’unica volta... anzi. Ce ne furono molte altre in seguito, puntualmente ogni volta che lui rientrava a casa, forse perché non ci sopportava. Se non erano botte, si sentivano sistematicamente urla e litigi tra di loro.

    E da allora in poi tutto quello che mi sono sempre ripromessa, il mio pensiero fisso per molto tempo è stato: non voglio finire come mia madre. Quella donna è stata tutta la vita, fino alla sua morte, a subire, senza mai osare nemmeno pensare di lasciarlo.

    E invece, purtroppo, la mia realtà è stata ben diversa dal mio auspicio. Ho avuto modo di capire, anche grazie alla mia psicologa, che certe cose ti si radicano dentro talmente a fondo che è come se te le andassi a cercare col lanternino. Non si può sfuggire dai propri traumi solamente perché lo si pensa o se si vuole, ecco.

    Tornando alla mia famiglia, io nemmeno mi ricordo come una bambina allegra. Quando arrivò la nostra ultima sorellina cominciò la mia vera tristezza. Fino ad allora ero stata sempre io la più coccolata, quella che aveva più attenzioni di tutte... dopo di che mi sono sentita come un vecchio giocattolo, sostituito da uno più nuovo e bello. Mia madre doveva naturalmente dedicare anima e corpo a quella creaturina appena nata, ma io ovviamente mi sentivo solo a disagio nei loro confronti. Sentivo e vedevo che mia madre non mi guardava più, non mi chiedeva più nulla e aveva occhi solo per lei.

    Avevo appena sette anni quando provai per la prima volta quella sensazione di vuoto assoluto, un senso di abbandono che mi ferì molto.

    Poi fui abbandonata veramente, perché in quello stesso periodo, mentre ero in seconda elementare, andai a vivere da mia nonna materna. Già la mia seconda sorella era stata in quella casa per qualche tempo; dovevamo stare con lei per farle compagnia, forse perché era vedova e dovevamo prendercene cura a turno. Infatti, quando dopo due anni mia sorella tornò, mandarono me a darle il cambio.

    Quando mi mandarono lì mi sentii incredibilmente meglio, come se fino ad allora in casa mia, fossi stata un po’ ingombrante... come se fossi stata di troppo. Come può essere ingombrante una bambina?

    Ma da quel momento inizio il mio isolamento vero e proprio dal mondo. A casa mia almeno avevo una mia compagna di classe che mi abitava vicino, con la quale tornavo insieme da scuola e ogni tanto nel pomeriggio ci rivedevamo per giocare; da quando mi trasferii sentii di aver perso anche la mia unica amichetta. Mi rifugiavo nei cartoni animati e nei miei giochi solitari. Fortunatamente avevo dei pupazzetti e potevo giocare anche con quelli. Per tutto il resto del pomeriggio mi sentivo un po’ alienata e isolata dagli altri, ma la cosa più sconvolgente per me fu prendere coscienza del fatto che stavo bene. Stavo bene con me stessa, mi divertivo in quella enorme casa! Mi piaceva un sacco stare da sola in quel periodo. Il problema si presentò dopo, quando mi resi conto che non avevo mai socializzato con nessuno e di quanto fossi diventata timida.

    Al piano terra c’era il divano, dove sedevo davanti alla tv a vedere i cartoni animati; li ricordo tutti. Certe volte giocavo con i pupazzetti e null’altro: ero molto fantasiosa nel creare per loro le storie divertenti che avrei voluto vivere io. Era divertente vedere la nonna la sera, prima di andare a letto, togliersi la dentiera e riporla nel bicchiere trasparente sul comodino.

    Vissi lì con lei finché non ebbi undici anni e cominciai le scuole medie. Un giorno, però, mia nonna venne ricoverata per un problema al cuore. Quando ci era possibile andavamo a trovarla in

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