Mongolia: La terra degli inseguitori di nuvole
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Anteprima del libro
Mongolia - David Bellatalla
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2017 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
ISBN 9788899932220
Collana *PBS
Titolo originale dell’opera:
Mongolia
la terra degli inseguitori di nuvole
di David Bellatalla
con 11 illustrazioni di Beppe Mecconi
in copertina: da un quadro di Andrew Tosh
David Bellatalla
David Bellatalla è docente di antropologia alla Università di Ulan Bator - Mongolia, ricercatore e studioso di nomadismo che da oltre vent’anni svolge ricerche in ambito antropologico–culturale. Ha compiuto spedizioni scientifiche in Asia e America del Sud, realizzando libri, articoli, documenti filmati e immagini relativi a numerose realtà etniche del pianeta.
Dal 1992 ha iniziato un costante lavoro di investigazione scientifica sul nomadismo in Mongolia. Ha condotto ricerche antropologiche sulle popolazioni Aghin-Buriati, Tsaatan, Darkhat, Toba e Uriankhai per conto di Accademie delle Scienze e atenei di diversi paesi delmondo.
Nel 2008 è stato insignito della Medaglia d’Argento per meriti umanitari dalla Croce Rossa della Mongolia e attualmente è impegnato nella realizzazione di una casa della speranza
per bambini di strada nel Gheer District della capitale Mongola, per dare rifugio a coloro che non hanno un tetto sulla testa, in una regione dove in inverno si sfiorano i 50 gradi sotto zero.
Indice
Autore
Introduzione
A caccia dell’eroe
Il filo di Arianna
La macchina del tempo
L’alternativa nomade
Il mondo alla rovescia
Lo specchio di Alice
Verso una nuova monade
INTRODUZIONE
Che senso ha scrivere un libro sul nomadismo quando a scriverlo è un sedentario? Quanto può essere pretenzioso e letterariamente arrogante voler scrivere un libro che non vuole essere un racconto di viaggio, un saggio, un romanzo, una guida per turisti, un testo di antropologia culturale o un diario personale, per sfuggire a qualsiasi tipo di classificazione libraria?
Non ho la risposta, ciò che posso dire è che cercare di interpretare e tradurre ciò che per sua stessa natura è irrazionale, attraverso un testo scritto che risulti comprensibile e fruibile a qualsiasi categoria di lettore, conservando quella freschezza e essenzialità del messaggio di cui vorrei farmi latore, è un’impresa veramente ardua.
Ho presto abbandonato l’idea del saggio, per la mia incapacità di non saper far emergere l’aspetto emotivo e profondo che il confronto e l’esperienza vissuta mi avevano lasciato, quale territorio letterario sul quale poter elaborare i dati raccolti, per cercare altri modelli letterari a cui potermi ispirare.
Anche l’idea del racconto di viaggio mi poneva il costante limite della comparazione e dei parametri spazio-temporali impedendomi di muovermi liberamente attraverso la trama e l’ordito delle esperienze vissute, delle riflessioni e delle inevitabili comparazioni, necessarie a fare luce sul modello nomade in modo più oggettivo ed olistico.
Da qui l’idea di sezionare lo scritto utilizzando schemi più dinamici che meglio si potessero adattare alle esigenze dell’argomento trattato e allo sviluppo in chiave narrativa, con continui rimandi e richiami a riferimenti storici e scientifico-letterari, per poi riaprirsi all’aspetto emotivo e interiore con riflessioni che emergono sovente dai taccuini e dai personaggi coinvolti nel testo.
Ho scelto dunque il tema del viaggio in modo non-formale e a-temporale sul quale vengono trattati gli aspetti più importanti del nomadismo.
Nel primo capitolo emerge l’inafferrabilità del significato più profondo del mito nel mondo nomade. L’eroe e le sue continue mutazioni ci mostrano un aspetto del tutto sbalorditivo sulla natura della mitologia, sfuggente e travolgente al punto di far perdere le proprie tracce all’interno dell’epopea e delle sue molteplici varianti. Così sconvolgente e affascinante che per molti aspetti persino ribalta il significato stesso della sua creazione. Infatti nel modello sedentario il mito si concentra sulle storie di eroi che nel corso della loro vita si svincolano continuamente dal contesto rituale e formale mentre nel modello nomade ne testimoniano il continuo e progressivo asservimento, dove al gesto rituale si associa la complessa e operosa simbologia per dare vita ad un nuovo implicito messaggio che sovente viene solo accennato; si tratta di un messaggio indirizzato per coloro che già ne conoscono il significato.
Il secondo capitolo esplora gli aspetti e i legami tra l’ambiente naturale e il nomadismo, cercando di andare ben oltre le semplicistiche e riduttive risposte che troppo spesso hanno ricondotto la scelta del modello pastorale itinerante ad una inevitabile conseguenza di adattamento al territorio e ai mutamenti climatici. La nostra capacità di poter ripensare le società viaggianti in modo veramente olistico, evitando le semplicistiche generalizzazioni, ci potrà aiutare a scoprire gli aspetti più intimi e significativi del rapporto uomo-ambiente nelle società nomadi.
La storia è sempre stata scritta dai vincitori, mai dai perdenti. Nel capitolo la macchina del tempo
cerco di rileggere gli episodi salienti della conquista dei territori nomadi da parte dei sedentari, attraverso una lente che possa darci un’idea del complesso processo di trasformazione delle comunità nomadi che nel corso dei secoli hanno dovuto rimodellare con dinamiche sociali, culturali ed economiche, il loro ruolo e soprattutto il loro rapporto con il mondo dei sedentari. Nel capitolo si evince la condizione centrale della necessità dell’interscambio, della reciproca funzionalità sociale tra i due modelli prima ancora dell’antagonismo, della rivalità e persino dello scontro.
L’alternativa nomade è il capitolo nel quale cerco di esplorare gli aspetti più significativi del nomadismo attraverso l’esperienza emotiva prima ancora che quella scientifico-investigativa. I personaggi del racconto diventano latori del messaggio culturale nomade che necessariamente passa attraverso il confronto, l’esperienza concreta del rapporto umano e lascia a margine l’indagine tecnica e speculativa. Un’esperienza che richiede al lettore sedentario un distacco, un momento di riflessione, una lacerazione formale dalla propria cultura, uno sforzo quasi autolesionistico per potersi spogliare dei preconcetti e delle valutazioni speculative acquisite. Per questo motivo l’aspetto emozionale e affettivo diventano la nuova condizione indispensabile attraverso la quale vivere-partecipare (non solo osservare), un modello culturale e sociale, troppo spesso giudicato ancor prima di essere conosciuto o peggio ancora, valutato attraverso parametri e logiche mono-referenti.
Il mondo alla rovescia è il quinto tassello del mosaico nomade. Riguarda la sfera del sacro, la religiosità e la spiritualità dei nomadi attraverso l’esperienza vissuta con le comunità Buriate della Mongolia Orientale. Episodi, personaggi, appunti dei diari e riflessioni personali, raccontati nel presente capitolo, aiuteranno il lettore a varcare la soglia del sacro e entrare nel mondo dello sciamanesimo e del suo incontestabile fascino. Il testo rimbalza continuamente tra esperienza vissuta, dati scientifici e differenti interpretazioni culturali degli episodi narrati, lasciando il lettore continuamente sospeso tra due mondi paralleli, spingendolo ad una continuo ribaltamento di giudizio, di coinvolgimento e distacco dal mondo degli sciamani.
Il sesto capitolo esamina i limiti del linguaggio culturale e le difficoltà di comunicazione e giudizio tra individui appartenenti a differenti culture. Episodi e personaggi del racconto offrono al lettore la possibilità di esplorare, su differenti piani speculativi, le dinamiche di relazione e interscambio tra individuo e società diverse tra loro, evidenziandone la plurivalenza (molteplice lettura interpretativa) e di conseguenza il limite dell’interpretazione uniformale e uniformata che limita l’individuo ad un unico modello referenziale. Nello scritto si evince che alla radice di tale difficoltà interpretativa, culturale e quindi relazionale, rimane nell’ambito nomade la consapevolezza della necessità dell’Altro per l’arricchimento e la comprensione di sè. Ciò avviene in modo del tutto irrazionale, privo di qualsiasi speculazione logica e interpretativa, emerge spontaneo e viene universalmente riconosciuto dal singolo individuo e dalla collettività.
L’ultimo capitolo sfugge alle più ovvie aspettative. Lontano anni luce dal voler trarre conclusioni e speculazioni scientifico-formali, si allontana sempre di più dall’ambito culturale per ritornare a quello personale, usando ancora una volta un ventaglio di personaggi e vicende per riportare alla luce la necessità di un cambiamento socio-culturale che possa scongiurare la scomparsa definitiva del modello culturale nomade, lasciando noi tutti con una ricchezza in meno ed una colpa in più. Nessun dato scientifico servirà a suffragare la mia tesi, nessun percorso storico-antropologico verrà illustrato per giustificare le mie previsioni, sarà ancora una volta la sfera emotiva, plasmata dalle esperienze vissute a fornire le ragioni delle mie conclusioni, ringraziando infine il lettore per avermi ascoltato.
A CACCIA DELL’EROE
Immagina, esci dalla realtà contingente e riduttiva dei tuoi sensi e lascia che le visioni emergano spontanee, lasciale fluire, senza costrizione alcuna. Ecco allora gli eventi comparirti dinanzi, non come chiare e specifiche immagini, relazionate allo spazio e al tempo conosciuto, ma come effimere e fugaci figure. Percezioni pregne di un’inequivocabile verità, che ti attraversa e ti pervade, come una forza possente e gentile, di cui ti senti parte. Lontano e vicino, prima e dopo, mutevoli compaiono i 55 spiriti dell’Ovest, benevoli e generosi figli di Baronye Tabin Tabun Tengher, emanazioni e realtà contingenti provenienti da Delquen Tzaagan Burkan, che tu chiami Esege Malan Tengher, il Dio Bianco dell’Universo. E con loro compariranno i 44 spiriti dell’Est, figli di Zuni Dishin Dirlun Tengher, dall’essenza malvagia, invidiosi, infidi e provocatori. Immagina il momento dell’eterea creazione della terra e, per volere dei Signori dell’Ovest, il concepimento del genere umano prendere forma dalla loro volontà. Un tempo aureo dove non c’è morte, malattia, sofferenza e dolore, dove la vita è solo eterna consapevolezza del tutto. Ma ecco che la crudele mano degli spiriti dell’Est scatena il susseguirsi di disastri, malattie e morte. La pace scompare, la sofferenza incalza, un tremito ti pervade le membra. Solo l’intervento benevolo dei Signori dell’Ovest può risanare l’insopportabile pena del genere umano. Eccoti sulle Pleiadi, lassù al riparo da occhi indiscreti, osservare l’insolita riunione dei figli di Baronye Tabin Tabun Tengher, che confabulano assorti, per mitigare i dolori degli uomini. La loro scelta ricade sull’aquila, il sacro animale, il cui compito è portare la saggezza, il sapere divino dello sciamano, al genere umano per alleviarne le pene, la sofferenza inflitta dagli spiriti agli uomini. Quando l’aquila arriva maestosa e pronta a svolgere il suo incarico, qualcosa sembra mutare, una nuova nota colora la visione. L’aquila deve volare, deve comunicare, trasmettere il sapere, ma di mezzo c’è il tempo. Vorresti che già l’opera si fosse conclusa, che l’ordine cosmico fosse ristabilito. Osservi ansioso la trasformazione del nuovo evento, e non ti accorgi che il tempo è divenuto tuo nemico. Non sai aspettare ciò che non può essere, perché è già. Ed allora ti accorgi che il lungo viaggio del sacro volatile si perde nell’incapacità di comunicare tra uomini assetati di sapere e saccenti animali; il segreto portato al genere umano è lì, ma nessuno è in grado di comprenderlo, afferrarlo e farne utile tesoro. È il primo grande distacco che tu, spettatore, vivi e fai rivivere, dandone ragione di essere e affermandone la grave realtà. Ma ancora i Signori dell’Ovest, compassionevoli e partecipi dell’umano patire, istruiscono l’aquila per la sua nuova missione, imponendole l’unione carnale con l’essere umano, al fine di portare direttamente nelle membra dell’uomo l’arcano e sublime sapere. All’ombra di un albero, nel torpore del sonno, sarà la donna giacente a ritrovarsi madre prescelta per la salvezza degli uomini, portatrice di un nuovo uomo che nelle sue carni e nel suo spirito porta in sé qualcosa di divino; la capacità di comunicare con l’invisibile, di vivere in modo nuovo la finitudine dell’umana esistenza, per realizzare il proprio destino. Immagina per un attimo di poter cogliere l’essenza di uno dei 55 figli del Tengher Tabin, uno dei 55 spiriti supremi dell’Ovest e del suo continuo divenire, della sua essenza che pervade le cose, gli oggetti, l’aria stessa. Immagina la sua essenza divenire persino parte di un chicco di grandine scagliata dall’ira della tempesta sulla nostra terra. Ed ecco una giovane fanciulla, tredicenne graziosa di nome Meluk Shin, che sorpresa dalla pioggia improvvisa, lontano dalla propria gheer, dapprima corre impaurita, poi si sofferma mentre la pioggia e la grandine le bagnano le vesti battute dal vitale vento dell’ Ovest. Ora non è più impaurita, sembra quasi giocare con la pioggia sottile che in mille piccole perle lucenti le corre sul viso. Apre le braccia, solleva lo sguardo al cielo ed inghiotte il piccolo chicco di grandine. Ora qualcosa è accaduto in lei ad ogni passo del suo lento cammino, Meluk Shin impara qualcosa di nuovo, con altri occhi scorge il suo mondo che adesso le pare diverso, trasformato e infinitamente più vero. Osserva il sorgere del sole lontano sopra le alture e lo segue nel suo percorrere l’intera volta celeste fino a tramontare senza provare sconforto. Ora vede alberi, stelle, animali, fiumi, arcobaleni, e fiori, percependone il profumo, il colore, il linguaggio, lo spazio, il legame, la transitorietà e l’eternità, insita in ogni cosa, nello stesso medesimo istante. Il tempo sembra non trascorrere più e Meluk Shin è già madre. Trecento anni sono passati e suo figlio, Mindiù Qubun Iryil Tonkoy, sta ancora insegnando agli sciamani buriati il suo arcano sapere. Osserva, per un attimo soffermati ancora; e già ti accorgi che appena la tua mente cerca di afferrarlo, immediatamente il mito si espande come un ventaglio multicolore dalle mille sezioni. Ogni episodio dell’origine del mondo, avvenne in questo modo, oppure in quest’altro, oppure in un altro ancora. E ti accorgi che ciascuna di queste storie si riflette nell’altra e contiene le altre dentro di sé. Ecco perché non trovi una ed una sola storia della creazione, che faccia ordine nella tua mente; che rassicuri il tuo intelletto. Sarebbe un corpo senz’ombra, elemento immobile, privo di vita, fermo, ossidabile dal tempo, contenuto in un suo spazio definito. Invece non è così, non può esserlo. Ancora osservi smarrito, incapace di cogliere il messaggio, avvolto ed arso nella voluttà del tuo raziocinio, nel voler tradurre, comprendere e raccontare ciò che puoi solo intuire. Non capisci che viaggiare nel mito della creazione significa penetrare nei recessi dell’animo umano scoprendo l’arte segreta della consapevolezza e dell’armonia della quale non si può parlare. È il viaggio che...
Tac!
E tutto si interrompe. È lo scatto automatico del tasto di arresto, del mio piccolo walkman. Il nastro è finito e il racconto di Namjil Utgan rimane sospeso nella stanza, così come sospesi rimangono i miei pensieri. È la parte finale della preziosa intervista che registrai anni or sono nella gheer (tenda dei nomadi mongoli) di Namjil e che sempre porto in viaggio con me. Mai sazio, continuo ad ascoltare e riascoltare soprattutto quando rimango intrappolato nei vicoli ciechi dei miei pensieri.
Quella voce roca, appena sussurrata e senza tempo di Namjil, l’anziana sciamana aghin-buriate, sembra ogni volta lasciarmi intuire, intravedere la luce attraverso una porta socchiusa. È qualcosa che sa di arcano sapere, che ogni volta ricompare rassicurante, portando con sé le grandi risposte, per poi dissolversi fugace come un soffio di vento che per un attimo attraversa la stanza avvolgendo all’unisono gli oggetti che mi circondano e il mio corpo, il tutto nello spazio di un solo istante. Così come improvviso e inatteso è arrivato, altrettanto repentino lo sento sfuggire, da sotto la porta, dalle finestre, dalla mia mente. Riascoltando la voce di Namjil, ripenso alle sue parole, a quale messaggio segreto sia celato in quella preziosa testimonianza. Appoggio il taccuino degli appunti, dove le tante versioni del mito della creazione del popolo buriate sono annotate, scritte con inchiostri russi e cinesi, dalle inusuali e annacquate tonalità azzurro-violacee, e dove le macchie del tempo sulle pagine ingiallite, mi ricordano quanto confuse siano ancora le mie idee, quanto la mia ricerca, fatta di infinite annotazioni ed appunti, continui a sfuggirmi; come il piccolo girino nelle pozza d’acqua inseguito dalle dita bramose e eccitate di una bambina che cerca di afferrarlo. Così le risposte sembrano giocare con la mia avidità di sapere, di voler cogliere il nesso, la ragione ultima, la risposta risolutiva. Per un attimo mi sembra di rivedere nei racconti mitologici del popolo buriate, le tante rincorse e fughe dell’eroe, lotte e dispute per ottenere l’appagante ricompensa tanto desiderata. Un altro rumore rompe il silenzio nella casa. Si apre la porta d’ingresso. Sento il passo sicuro di Dino che dal corridoio si avvicina alla porta dello studio.
– Olà Bt, guarda un po’ cosa ho trovato sull’Arbat!
Esclama entusiasta mentre solleva due bottiglie di vino bianco georgiano dalla borsa di plastica ormai consunta, dove ancora si riconosce l’ormai sbiadito volto della cantante americana Madonna.
– È vino georgiano! Un bianco secco, my friend; non quel vinaccio turkmeno che hai comprato tu, buono solo per condire la macedonia.
Il suo smagliante sorriso, rinvigorito dal