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Aliénor
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E-book450 pagine5 ore

Aliénor

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Info su questo ebook

Il “Fortuna Uno” avanza lento nello spazio profondo. Trasporta l’unica apparecchiatura in grado di sterminare gli zombie e salvare il genere umano.
A bordo, però, sono tutti morti. Tutti, tranne lei, il capitano Aliénor, la responsabile dell’incidente che ha ucciso l’equipaggio e mandato fuori rotta la nave.
L’errore di Aliénor ha, di fatto, sancito l’estinzione del genere umano e a lei non resta che una lenta agonia spaziale. Un tempo infinito per riportare alla mente i suoi fallimenti, le occasioni mancate, le persone che ha amato, che ha deluso, che ha condannato a morte.
Ma non tutto è come sembra, Aliénor è all’oscuro di molte cose e, lontano dal pianeta Esperanza, dall’Anello Orbitale e da tutto quello che ha sempre considerato casa, una verità più antica di lei la aspetta.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ago 2018
ISBN9788866602712
Aliénor

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    Anteprima del libro

    Aliénor - Silvia Robutti

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    Prologo

    1

    Il capitano del Fortuna Uno

    2

    Hobbs

    3

    La divisa

    4

    Eragon

    5

    Astrolabe

    6

    La Promessa

    7

    Il Grande Incendio

    8

    Addii

    9

    Tag

    10

    Il sergente istruttore Taggart

    11

    La reale portata dell’obbedienza

    12

    Simulazione

    13

    Il bagno numero otto

    14

    Un po’ di sangue

    15

    Esperanza

    16

    Il prigioniero

    17

    Il cucciolo

    18

    Perdere la testa

    19

    Il segreto di Astrolabe

    20

    Il più grande successo dell’Umanità

    21

    Il Respiro di Dio

    22

    L’angolo sbagliato

    23

    La morte dei primi uomini

    Prologo

    24

    Il nativo

    25

    Manutenzione straordinaria

    26

    Sogni e deliri

    27

    La Visione

    28

    Piccolo Cervo Che Calcia

    29

    La strada da scegliere

    30

    Compagni di viaggio

    31

    Cavallo Pazzo

    32

    Spiriti

    33

    La fuga di Tuttomatto

    34

    La polsiera sinistra

    35

    Amore

    36

    Nausea

    37

    La scelta che non si sbaglia mai

    38

    Profughi spaziali

    39

    Zombie

    40

    La rabbia di Hobbs

    41

    Un seme e due baccelli

    42

    Animali

    43

    Materiale genetico unico

    44

    L’ultima missione

    45

    La colpa di Taggart

    46

    La verità

    47

    Il fattore limitante

    48

    La guerriera

    NOTA DELL’AUTRICE SUI LAKOTA:

    Un Romanzo Sci-Fi di:

    Silvia Robutti

    Aliénor

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-271-2

    ALIÉNOR

    Autore: Silvia Robutti

    © 2018 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di settembre 2018

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2018 CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: © 2018 Daniel Comerci

    Collana: Silver

    Editing a cura di: Pia Barletta

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l’Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ai miei genitori

    Prologo

    C’era una volta, tanto tempo fa, un pianeta chiamato Terra.

    Era un luogo felice, con alberi, laghi, mari e montagne. Era un luogo immenso e sterminato, c’era spazio per tutti; c’erano cibo, acqua e aria in abbondanza.

    Un brutto giorno però ci si accorse che il cibo era poco e non più buono da mangiare come una volta, che l’acqua era sempre più rara e cattiva e l’aria più fumosa e irrespirabile.

    Allora gli uomini, spaventati, interpellarono i migliori saggi e scienziati del pianeta per trovare una soluzione, per far tornare buoni come prima cibo, acqua e aria.

    Gli scienziati arrivarono, fecero le loro analisi, controllarono i loro dati, fecero esami ed esperimenti e dissero che ormai era troppo tardi. Che si sarebbe dovuto fare qualcosa prima, che non si poteva produrre più cibo di così, non si poteva far tornare pulita l’acqua e riavere la buona aria fresca di una volta. Dissero che ormai le persone erano diventate troppe e la Terra non riusciva più a farle vivere tutte quante bene e che non c’era soluzione.

    Uno scienziato diverso dagli altri però ebbe un’idea.

    Se il cibo era poco e non se ne poteva fare di più la soluzione era una sola: usarlo meglio. Così inventò un siero che rendeva le persone capaci di usare meglio il cibo e anche di bere l’acqua sporca e respirare l’aria impura senza ammalarsi.

    Qualcosa però non andò come avrebbe dovuto. Lo scienziato si era sbagliato: tutte le persone che prendevano il suo siero cominciarono a mangiare cibo sempre più particolare, cibo che fosse il più facile da utilizzare possibile. Prima smisero di mangiare le verdure, poi smisero di mangiare i cereali, poi smisero di mangiare le uova e il pesce e cominciarono a mangiare solo la carne che era la più facile da utilizzare. Ma ben presto anche la carne non andava più tutta bene, le persone che avevano preso il siero dello scienziato cominciarono a non volere più la carne di pollo, poi quella di coniglio, poi non vollero più quella di vitello e di cavallo e mangiarono solo quella di maiale, fino a che un brutto giorno smisero di mangiare anche quella.

    Quel giorno le persone che avevano preso il siero dello scienziato si resero conto che il cibo migliore, quello più facile da utilizzare, era la carne degli altri umani.

    Quel giorno nacquero gli zombie.

    Prima parte

    IL SOLDATO

    1

    Il capitano del Fortuna Uno

    I motori sono spenti. Fa freddo e c’è silenzio.

    Non dovrei essere sveglia: dovrei essere morta. Tutti gli altri lo sono. Invece io sento freddo, un freddo maledetto, e questo deve voler dire che sono viva. Che sto uscendo dalla quiescenza.

    Il computer di bordo ha avviato il mio risveglio. Ha avviato quello di tutto l’equipaggio, ma gli altri non ce l’hanno fatta. Capita spesso di morire in fase di rianimazione se si è stati in quiescenza più di sei mesi. Noi dormivamo ormai da più di un anno, dunque è normale che gli altri siano morti. La cosa strana è che non lo sia pure io. Ancor più strano è che io sia cosciente, che il computer abbia interrotto l’animazione sospesa.

    Perché? Era programmato per tenerci dormienti a meno di non transitare nei pressi di un pianeta abitabile o una nave che potesse darci appoggio. In questo quadrante di spazio non c’è nulla del genere. Non che ci sia da stupirsi: era impossibile imbattersi in una possibilità di salvezza. Lo sapevamo tutti, nessuno sano di mente avrebbe davvero nutrito speranze in merito. L’intento era quello di passare dal sonno alla morte in pace, senza accorgercene. Un sollievo di cui dovrò fare a meno. Se esiste un dio è chiaro che mi odia.

    Fa bene, me lo merito.

    Non sono morta, ma questo non significa che io mi senta granché viva. Insomma, penso e sento freddo, ma per il resto non provo nulla. Ciò è una fortuna, perché ho tubi che mi entrano da tutte le parti. Negli accessi venosi delle polsiere, nella vescica, nell’esofago… quest’ultimo sarebbe il più fastidioso se potessi deglutire, ma non posso, quindi per ora non è un problema.

    Il mio corpo è una specie di cadavere mummificato, incollato alla poltrona come se ne facesse parte. Non riesco a muovere nemmeno un dito. Anzi, per quello che ne so, in questo momento potrei non avere dita né altro.

    Gli unici muscoli del corpo che controllo sono quelli delle palpebre: così ho aperto gli occhi.

    Ci vedo ma, non potendo spostare la testa, posso guardare solo ciò che ho davanti: parte del monitor su cui ho letto le informazioni riguardo lo stato dell’equipaggio del Fortuna Uno e la postazione di quiescenza di Vegas.

    Vegas. Stando al computer è stato l’ultimo ad andarsene. È morto nella stessa posizione in cui era entrato in animazione sospesa un anno fa. Non si è mosso di un pollice. È solo dimagrito tanto da sembrare uno scheletro. Alla luce del mio monitor, l’unica luce in questo momento, sembra finto. Un fantoccio ricoperto di polvere.

    Io non devo essere molto diversa da lui. In effetti guardare il suo cadavere è come guardare il mio in uno specchio. Una vista poco edificante.

    Se chiudo gli occhi però è peggio.

    Se chiudo gli occhi vedo loro.

    Appena le palpebre scendono, loro compaiono nella mia mente, si accendono sulla mia retina, come se vi fossero rimasti impressi a fuoco.

    Loro: gli zombie.

    Pelle molliccia, pallida come quella di un cadavere. Occhi gialli, la pupilla verticale, tagliente. Li vedo che si muovono in quel loro modo ondeggiante, galoppando con braccia e gambe assieme, snodati come se non avessero giunture; il rosso ardente delle loro bocche mi lampeggia davanti nel buio.

    Ormai sarò a miliardi di miglia di distanza dallo zombie più vicino, eppure quel rosso disgustoso delle loro mucose, color sangue arterioso, è come se lo avessi davanti, come quei denti: denti sottili e affilati, traslucidi e quasi trasparenti, che praticamente non si vedono.

    Però ci sono, posso garantirlo.

    Una volta ero in missione su Esperanza con la Fanteria Semplice. Avevo fatto un prigioniero e cercavo di portarlo alla squadra corazzata perché ci riportassero sull’Anello Orbitale. Gli altri zombie mi circondarono. In meno di un minuto scaricai il fucile e mi furono addosso. Trapassarono le protezioni della mia divisa come fossero fatte di gelatina. E quei denti, li sentivo che mi strappavano la carne pezzo per pezzo. Che affondavano nei muscoli e torcevano, scuotevano, dilaniavano.

    Forse è per questo che li vedo a occhi chiusi. Gli zombie. Che li vedo così bene. Perché li conosco. Ho avuto modo di incontrarli nel simulatore e anche di persona, di sentirli di persona, ma li conoscevo già da prima. Da sempre.

    In fondo sono cresciuta con le immagini dei video della Seconda Epidemia. Quella che colpì Esperanza, anni dopo il Grande Esodo dalla Terra, quando ormai l’Umanità si sentiva in salvo. Esperanza che, nel giro di un paio d’ore, era passata da rifugio sicuro a orgia di sangue e zanne.

    Ho visto i filmati di come la gente si accalcava per raggiungere le navi dirette all’Anello Orbitale. Bambini calpestati, urla, soldati che sparavano a chi non aveva superato i test ematici, i latrati degli zombie. Li ricordo con precisione e dunque posso immaginare quello che è successo dopo che la mia nave è stata sparata nello spazio profondo.

    Mi basta chiudere gli occhi e lo vedo.

    Vedo gli zombie lanciati per gli spazi angusti dell’Anello Orbitale, che vanno di Cerchio in Cerchio alla ricerca di umani da dilaniare. Li vedo spingersi sempre più all’interno, vincere ogni resistenza, raggiungere i Cerchi Interni, quelli meglio protetti. Li osservo che frugano, battono il Corridoio Uno; oltrepassano la splendida vetrata che dà su Esperanza schizzata di sangue, fino a che non arrivano davanti alla porta della sua cabina.

    La cabina di Astrolabe.

    A questo punto devo riaprire gli occhi e tornare alla mummia di Vegas. Non voglio guardare oltre. Non posso guardare oltre.

    Ecco: pensando ad Astrolabe alla fine ho deglutito.

    Come previsto è stato orribile, ma va bene. Tutto va bene piuttosto che pensare a quello che le è successo. Qualunque cosa. Anche riflettere sul fatto che probabilmente questo tubo che mi scende in gola è ancorato da qualche parte là sotto, e che, se lo vomito, è probabile che il mio stomaco lo segua fuori dalla bocca. Non lo so.

    La procedura d’ingresso in quiescenza sarebbe stata di competenza del medico di bordo, che ovviamente è stato il primo a morire. L’unico dell’equipaggio a crepare nell’impatto. Dal suo punto di vista, un’ottima scelta: si è risparmiato un sacco di straordinari. È stato Vegas a riuscire a far funzionare le apparecchiature per l’animazione sospesa, ma non so se ha impostato il computer per eseguire le procedure di rianimazione in autonomia o se ha calcolato un intervento manuale di qualche genere. Con tutta probabilità, non essendo un pazzo, quello che ha calcolato era solo una morte incosciente.

    Pare che, per quanto riguarda me, si sia sbagliato.

    Dato come ho vissuto, è strano pensare che non creperò strappando la mia carne dalle fauci di uno zombie, o urlando con le gambe mozzate, o bruciata, esplosa o in qualche altro modo pirotecnico. È davvero strano pensare che me ne andrò seduta, comoda, muta. Che morirò di inedia nel tranquillo vuoto di quest’angolo indifferente di galassia.

    È l’esatto contrario di quello che capita ai soldati come me: l’antitesi della morte eroica. Ma riflettendoci bene, è la cosa più logica.

    In fondo lo so: è per questo che il computer mi ha risvegliata. È per questo che sono viva: devo pagare. E, visto quello che ho fatto, mi ci vorrà tempo per saldare il conto. Molto tempo. Forse troppo. Forse, anche quando avrò tirato l’ultimo respiro gorgogliante di sofferenza e angoscia, circondata dai cadaveri rinsecchiti e pieni di tubi del mio equipaggio, forse anche allora la punizione sarà stata troppo lieve.

    Unica consolazione: non ci sarà nessuno rimasto a rammaricarsene. Nessuno che potrà dispiacersi del fatto che io non abbia pagato di più. Sì, certo, è colpa mia se siamo qui. È colpa mia se l’equipaggio del Fortuna Uno è morto.

    È colpa mia se è morto Ophra Tango Tango, il mio copilota, che era ferito gravemente a un braccio e si è spento già da tre mesi. È colpa mia se sono morti Vegas Sierra Bravo e Rottemaier Delta Charlie che invece hanno resistito fino a due giorni fa. È colpa mia se è morto Doc e se, quando l’impatto ha surriscaldato gli scudi, le centinaia di soldati che trasportavamo nel gavone di carico sono bruciati vivi.

    È colpa mia. Sono io il capitano della nave. Io li ho sulla coscienza. Ovviamente non sono l’unico capitano stellare della storia ad aver condotto equipaggio e passeggeri alla dipartita. No, non sono il primo, il problema vero però è che sarò l’ultimo.

    Quando dicevo che non è rimasto nessuno a rammaricarsi che io non soffra abbastanza, non intendevo solo qui sul Fortuna. Intendevo ovunque nella galassia. Quando dicevo che gli altri sono morti tutti, intendevo tutti. Ogni singolo uomo, donna o bambino dell’universo.

    Ormai è passato più di un anno. Nessuno può essere sopravvissuto al mio errore.

    Nessuno, nemmeno mia madre che avevo giurato di proteggere, nemmeno Hobbs, l’uomo a cui devo tutto, nemmeno Astrolabe per la quale avrei dovuto sacrificare ogni cosa.

    Io: il soldato Aliénor Delta Echo, ho consegnato agli zombie l’ultimo Boccone di Umanità.

    Io ho ucciso tutti.

    2

    Hobbs

    Dunque, visto che pagare per questo non sarà uno scherzo, meglio cominciare subito.

    Come pagano i soldati? Ovvio: i soldati pagano col sangue. Il sangue è la loro moneta, quella che versano per riscattare ogni debito.

    Sangue. Non credo di averne in questo momento: ho le vene così secche che dentro ci scorre solo polvere.

    Come saldare allora questo conto astronomico?

    Con le lacrime? Assurdo. Oltre al fatto che al momento non possiedo nemmeno quelle, come potrei pagare per ciò che ho causato solo piangendo? Non ci riuscirei neanche dovessi allagare tutta l’astronave.

    Sangue, lacrime: liquidi comunque troppo nobili per me.

    L’obolo che potrei offrire al momento è molto più misero, fatto dei fluidi stagnanti che mi restano: vomito, bile, piscio. Certo, li verserò tutti, ma con quelli non andrò lontano.

    L’unica moneta di valore che mi resta è il ricordo.

    Pagherò rimembrando tutte le possibilità incredibili che mi sono state offerte, la fiducia che mi è stata accordata, le occasioni donatemi. Pagherò ricordando le molte persone a cui devo la pelle. Pagherò consumandomi nella consapevolezza di averle deluse tutte. Pagherò scendendo in profondità nella coscienza di non essermi dimostrata all’altezza. Pagherò con quello che sarà il più profondo e totale dei rimorsi possibili.

    Pagherò dunque con tutto ciò che mi rimane: l’anima.

    Fatto questo, anche se non avrò estinto il debito, spero che l’Universo ne abbia avuto abbastanza e chiuda con me, una volta per tutte, il capitolo Umanità.

    Non so da dove cominciare. Da chi cominciare.

    Probabilmente dovrei partire da Astrolabe. Ma davvero, non ce la faccio. Non ancora. Appena penso a lei mi viene da deglutire e poi da vomitare. Visto che ho tempo, per ora preferisco tenermi ancora lo stomaco in pancia. Poi, quando arriverà il momento, giuro che non mi tirerò indietro.

    Dunque se non da lei devo per forza cominciare da lui: suo padre, Hobbs.

    Non che il suo ricordo mi faccia stare meglio, ma al suo cospetto mi è sempre venuto naturale restare immobile: questo dovrebbe aiutare anche la mia glottide a starsene inchiodata ancora per un po’.

    Hans Cristiansen Monsanto Hobbs: l’uomo a cui devo tutto.

    Quando lo vidi dal vivo per la prima volta avevo otto anni. Mio padre, Erain Echo Bravo, era morto da meno di dodici ore.

    Ricevere la notizia della sua scomparsa fu la cosa più surreale che mi fosse mai successa.

    Quattro giorni prima era rimasto ferito: l’esplosione di una condotta del vapore nel Cerchio Due. Ero andata a trovarlo nel settore ospedale già due volte. Non ero preoccupata: per un soldato come lui farsi male era quasi routine. Una volta era rimasto in una capsula medica un mese con una gamba ridotta a brandelli. Rispetto ad allora la situazione non mi sembrava affatto grave. Era cosciente, sdraiato sul letto, il lato destro del corpo, quello ustionato, nascosto sotto delle bende.

    Il giorno del mio incontro con Hobbs andai a fargli visita per la terza volta. Non avevo idea che sarebbe stata l’ultima. Nulla mi fece pensare che stavo per perderlo. Mi pareva persino migliorato: stava quasi seduto, appoggiato contro il cuscino.

    «Senti male, papà?»

    «No, piccola. Non sento niente.»

    Lo considerai un buon segno. Gli sorrisi e lui sorrise a me. Uno di quei sorrisi tristi che ultimamente lo caratterizzavano. «Vieni più vicino, per favore.»

    «L’attendente d’ospedale ha detto di no, che è pericoloso starti troppo vicino, posso portarti delle infezioni.»

    «Ormai non c’è più pericolo, non ti preoccupare: vieni.» Mi avvicinai e lui mi prese una mano. «Aliénor, devi essere forte.»

    «Sì, papà.»

    «La mamma... la mamma ha bisogno del tuo aiuto.»

    «Sì» non sapevo bene cosa rispondere: la mamma ultimamente era molto strana: distante, lontana, come se nulla la interessasse. Quando le avevano annunciato il ferimento del marito non aveva avuto la minima reazione. Anche per quello io non sospettavo quanto la situazione fosse grave.

    «Promettimi che la proteggerai, Aliénor, promettimelo.»

    Mi sembrò strano: dover essere io a proteggere mia madre e non viceversa. E poi proteggerla da cosa? Ma papà stava male e per lui sembrava così importante.

    «Promettimelo!» insistette.

    «Lo prometto, Papà.»

    Fu per quella promessa a lui, credo, che poi le cose andarono come andarono.

    Ritornai da mia madre in sala d’aspetto, lei finì di compilare un modulo sulla schermata della propria polsiera. Stavamo per rientrare nei nostri alloggi quando l’attendente ospedaliero ci chiamò indietro.

    «La signora Aldera Delta Sierra?»

    «Sì?»

    L’attendente mi indicò: «Questa è sua figlia, Aliénor Delta Echo?»

    «Sì.»

    «Sono incaricata di comunicarvi l’avvenuto decesso di Erain Echo Bravo, suo marito.»

    Mia madre non batté ciglio e io pensai che decesso non doveva voler dire quello che pensavo. Eppure ero quasi sicura che significasse che uno era morto. Ma la mamma non aveva avuto la minima reazione alla notizia, quindi non poteva essere.

    «Devo prendere sua figlia in custodia.» Continuò l’attendente.

    A quelle parole, pur senza capire, mi aggrappai istintivamente a mamma. Lei non ricambiò la mia stretta ma, con voce piatta, snocciolò: «Mio marito è un soldato. Come tale è in settima categoria di utilità: il suo status si estende alla famiglia.»

    L’attendente fece un piccolo sorriso di cortesia: «Non è rimasto ferito in azione, signora, e a lei è stato diagnosticato il Mal Dell’Universo, non potrà rientrare in nessuna categoria di utilità, neanche nelle più basse: lo status di suo marito non può comprenderla più. Se lei avesse un genoma raro, o se suo marito fosse stato ferito sul campo di battaglia, forse...»

    «Lui lo sapeva? Sapeva che il suo status non mi avrebbe compresa?»

    «No, signora, abbiamo preferito non dirglielo.»

    «Avete fatto bene. È morto in pace.»

    «Morto?» gracchiai. «Papà è morto?»

    La mamma abbassò uno sguardo assurdamente distaccato su di me, poi con movimenti forzati si inginocchiò. Lentamente mi circondò con le braccia. Nemmeno ora, a un passo dalla morte, nel nulla gelato dello spazio siderale, sento tanto freddo quanto ne sentii in quell’abbraccio. Immobile in quella stretta priva di ogni calore umano, capii che ero rimasta sola.

    Papà era morto. E la mamma... la mamma era...

    «Ora devi andare con l’attendente, Aliénor.»

    «Perché?» esalai. «Tu dove vai?»

    Mamma non indugiò a rispondere: «Non rientro in categoria. Mi riformano. Tu andrai in orfanotrofio, è meglio così.»

    Non mi ribellai.

    Non sentivo ancora il dolore, quello sarebbe arrivato molto dopo. Non sentivo nulla. Ero solo svuotata, agghiacciata, incredula. Mio padre era morto e mia madre sarebbe stata riformata, il che significava soppressa. Certo, era quello che succedeva a chi non rientrava nelle categorie di utilità, ma io non avevo mai preso in considerazione che potesse capitare a uno di noi. Mio padre era un soldato. Era in settima categoria. Eravamo coperti. E mia madre era giovane, poteva reinserirsi anche lei in qualche modo, se solo le avessero dato il tempo, ma aveva il Mal Dell’Universo... avevo capito bene cosa aveva detto l’attendente?

    Non feci in tempo a raccogliere le idee che mi ritrovai in una cabina dalle pareti bianche.

    «Verranno a prenderti in carico quelli del centro orfani.» Mi disse l’attendente.

    «Mia ma...» non finii la frase perché la donna chiuse la porta e mi lasciò sola.

    Rimasi ferma.

    Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a provare dolore. Non riuscivo a capacitarmi. Non riuscivo a riscuotermi dal gelo assoluto in cui le braccia di mia madre mi avevano precipitato.

    Papà morto. La mamma impazzita. Malata.

    Papà: gli avevo parlato neanche un’ora prima, gli avevo promesso che... Fu attorno alla mia promessa a lui che in me si riaccese qualcosa: la mamma andava alla riforma, io avevo giurato a papà di proteggerla.

    Quell’idea mi strappò un gemito.

    Stranamente questo mi fece sentire meglio, ruppe la rigidità del congelamento, riportò un briciolo di calore dentro di me.

    Cominciai subito a piangere e poi a urlare. Urlare era perfetto perché riscaldava e tutto in me aveva bisogno di calore, di fuoco, per togliermi di dosso il gelido vuoto dell’impotenza.

    Così urlai a squarciagola e poi cominciai a distruggere tutto ciò che mi capitava a tiro.

    Anche distruggere riscaldava moltissimo.

    Cominciai a prendere a calci la porta, la parete, qualsiasi cosa, il tavolino e la sedia che erano l’unico arredamento della cabina, tutto. Feci un tale casino che, non ricordo neanche più come, riuscii a rompere una grata di areazione. Forse l’avevo colpita lanciando la sedia per aria, non lo so. La griglia si staccò e mi cadde vicino. Tremante, alzai gli occhi e vidi il buco nero della condotta dell’aria rimasta aperta.

    Non era altro che un modo per infrangere la legge e mettermi nei guai. Ma non presi neanche in considerazione l’idea di lasciare perdere: dovevo fare qualcosa. L’avevo promesso a papà. E siccome non potevo fare nulla di utile e furbo feci qualcosa di stupido e dannoso.

    Non è che avessi un piano. Che piano potevo avere? Ormai era stato già tutto deliberato, senza che nessuno si fosse sobbarcato la fatica di spiegarmi. Era questo a farmi sperare: non avevo capito davvero cosa stava capitando. Mi sembrava tutto assurdo, e quindi mi parve logico cercare qualcuno a cui chiedere aiuto. Qualcuno che avrebbe rimesso le cose a posto.

    Però doveva essere qualcuno di importante. Questo ce l’avevo chiaro mentre galoppavo a quattro zampe nella condotta lurida. Dovevo trovare qualcuno dei Cerchi Interni.

    Ovviamente si trattava di un’idea assurda. Nessuno aveva il potere di graziare mia madre, per di più l’essere scappata dalla custodia e aver rotto la grata di areazione erano passibili di punizioni pesantissime. E la cosa peggiore era che, per caso o per intuito, stavo davvero andando verso i Cerchi Interni. Era lì che stavano i dignitari, le industrie farmaceutiche, i laboratori di ricerca: nelle parti interne dell’Anello, affacciati su Esperanza. Era lì che risiedeva anche Hobbs. La loro violazione era punibile con la morte.

    Quando oltrepassai il primo cinto emettitore di campo urlai di dolore. Sentii come se mi stessero schiacciando le ossa in una pressa. Per fortuna stavo andando abbastanza veloce e superai il campo energetico di slancio, senza restare nel suo raggio, cosa che probabilmente mi avrebbe uccisa sul colpo.

    Passato il dolore lancinante non mi sembrò di aver riportato danni, così continuai, anche se con più cautela. Mi pareva di aver sentito da qualche parte che i campi di forza nei condotti di aerazione c’erano solo nei Cerchi più interni e che erano più potenti e numerosi man mano che ci si avvicinava alla residenza di Hobbs. Ero dunque sulla buona strada.

    Trovai altri cinti emettitori e li attraversai, questa volta conoscendo il dolore cui andavo incontro. Non mi fermai. Avanzavo il più velocemente possibile, spinta dalla disperazione.

    Poi d’un tratto sentii dei rumori, delle voci: «È qui sopra: il segnale indica qui.» Una grata si spalancò e qualcosa di pesante mi fu addosso. Cominciai a scalciare e urlare con tutte le forze. Qualcosa, o forse qualcuno, mi aveva afferrato una gamba e mi trascinava indietro, verso la grata. Rovinai giù e atterrai tra un gruppo di guardie armate.

    Cercarono di calmarmi, di tenermi ferma, ma io cominciai a urlare: «Devo parlare con Hobbs!» Hobbs era la prima persona importante che mi era venuta in mente. Niente di meno che il padrone di tutto l’Anello Orbitale in persona.

    Mi divincolavo così follemente che alla fine mi mollarono. Rimasi un secondo libera, prima che attivassero la contenzione elettrica. Mi sembrò che le polsiere avessero preso fuoco attorno ai miei avambracci. Mi sfuggì un gemito di sorpresa, ma mi ripresi in fretta. Tornai a urlare: «Devo parlare con Hooobbs!»

    Sentii la contenzione che saliva di livello e lame di dolore cominciarono a risalirmi le braccia fino alle spalle: «Devo... parlare... con Hobbs!» Ancora uno scatto. Le lame di dolore si unirono all’altezza del cuore facendomi cadere in ginocchio: «Devo... parlare...» Ancora uno scatto. I denti mi si serrarono mentre il petto cominciò ad andarmi a fuoco. Cercai di aprire la bocca e di far uscire il fiato, ma avevo la gola sigillata. Deglutii con violenza e fu come mandare giù un blocco di cemento, mi si diffuse in bocca il sapore del sangue, ma riuscii a cacciare fuori la voce: un unico lungo, ululato rauco: «Hoooobbbssss!»

    «Cos’è questo frastuono?» sentii la sua voce dal vivo la prima volta. «Fatela stare zitta.» Una guardia rispose qualcosa che non capii. «Alzatele la contenzione.»

    «È già a quattro, Signore, se la alziamo a cinque rimarrà fulminata.»

    «A quattro?»

    «Sì, Signore.»

    Avevo la testa china, schiacciata dal dolore, vidi l’ombra di qualcuno che mi si parava davanti, poi all’improvviso, come lavata via, la sofferenza si sciolse e mi abbandonò. Lentamente, molto lentamente, sollevai lo sguardo e andai a incontrare due occhi azzurrissimi che un sacco di volte avevo visto in video. Gli occhi di Hans Cristiansen Hobbs, ideatore, committente e padrone dell’Anello Orbitale Monsanto Imperion One su cui viveva tutto ciò che restava dell’Umanità.

    Mi stava scrutando con aria vagamente incuriosita.

    «Chiamavi me?» domandò limpido.

    3

    La divisa

    Hobbs.

    Se quel giorno un’assurda casualità non lo avesse portato nei dintorni di dove mi trovavo, scalciante e urlante, ora sarei solo un lontano ricordo. Sarei stata riformata, tritata e usata come substrato per la crescita dei lattobatteri. Se fosse andata così forse a quest’ora l’Umanità non sarebbe stata cancellata dalla faccia dell’universo. Forse avrebbe avuto la possibilità di riconquistare Esperanza. Invece io lo chiamai e lui, evocato come per magia dalle mie urla, venne.

    Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Certo, avevo gridato il suo nome, ma non mi ero aspettata sul serio che venisse. Mi sembrava impossibile averlo davvero di fronte in carne e ossa: la persona più importante dell’universo. Alto, dritto, severo ma al contempo leggermente beffardo.

    «Allora, ragazzina, urlavi così bene a quattro di contenzione, ora non dici niente?»

    Abbassai la testa di colpo, dischiusi le labbra e un piccolo rivolo di sangue mi colò lungo il mento. Deglutii sentendo male in gola. Non sapevo cosa dire.

    «Allora? Perché mi chiamavi? Cosa ci fai nei Cerchi Interni?» Ancora deglutii saliva e sangue, ma non trovai il coraggio di parlare. Hobbs si voltò verso la guardia più vicina: «Portatela via.»

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