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Falsi dei: Universo senza sonno 2
Falsi dei: Universo senza sonno 2
Falsi dei: Universo senza sonno 2
E-book456 pagine6 ore

Falsi dei: Universo senza sonno 2

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Info su questo ebook

ROMANZO (319 pagine) - FANTASCIENZA - Il seguito di Ferro Sette. La lotta contro i Longevi continua nell'Universo senza sonno

Dopo la rivolta su Harris IV narrata in "Ferro Sette" per Tobruk Ramarren si è aperto uno scenario su scala galattica. Nell'Universo senza sonno, in cui la maggior parte dell'umanità è stata provata della possibilità di dormire, solo un'élite ha ancora questa facoltà: i Longevi. Sull'astronave Hebron dello  Stato Libero di Haddaiko, diretta verso un lontano sistema ai confini della Galassia, Tobruk Ramarren è a capo di un Corpo di spedizione di "dormienti", in stato di ibernazione, che avrà il compito di insegnare il sonno alla popolazione indigena: tra loro anche il presidente Hobbes. Ma qualcosa accade, l'astronave è costretta al naufragio su un pianeta sconosciuto. Sarà qui però che Ramarren potrà scoprire la verità che ha sempre cercato.

Francesco Troccoli, nato a Roma nel 1969, si è imposto sulla scena della fantascienza nel 2012 con l'uscita del romanzo "Ferro Sette", edito da Curcio, al quale è seguito l'anno dopo per la stessa casa editrice "Falsi Dei". I due romanzi sono ambientati nel cosiddetto Universo Insonne, per i quali l'autore ha scritto anche un piccolo prequel, "Hypnos", uscito nella collana Robotica.it, mentre è prossima, nella collana Odissea Digital Fantascienza, l'uscita del terzo romanzo. Del 2012 è "Domani Forse Mai" (Wild Boar), raccolta di racconti a cura dell'associazione RiLL. Ha curato con Alberto Cola l'antologia "Crisis" (Dalla Vigna 2014) ed è membro della Carboneria Letteraria, con cui ha pubblicato il romanzo collettivo "Maiden Voyage" (Homo Scrivens 2014).
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2016
ISBN9788865306246
Falsi dei: Universo senza sonno 2

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    Anteprima del libro

    Falsi dei - Francesco Troccoli

    a cura di Silvio Sosio

    Francesco Troccoli

    Falsi dei

    Romanzo

    Prima edizione marzo 2016

    ISBN 9788865306246

    © 2013 Francesco Troccoli

    Edizione ebook © 2016 Delos Digital srl

    Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano

    Versione: 1.0

    Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI

    Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.

    Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria

    Indice

    Il libro

    L'autore

    Falsi dei

    Dedica

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Delos Digital e il DRM

    In questa collana

    Tutti gli ebook Bus Stop

    Il libro

    Il seguito di Ferro Sette. La lotta contro i Longevi continua nell'Universo senza sonno

    Dopo la rivolta su Harris IV narrata in Ferro Sette per Tobruk Ramarren si è aperto uno scenario su scala galattica. Nell'Universo senza sonno, in cui la maggior parte dell'umanità è stata provata della possibilità di dormire, solo un'élite ha ancora questa facoltà: i Longevi. Sull'astronave Hebron dello  Stato Libero di Haddaiko, diretta verso un lontano sistema ai confini della Galassia, Tobruk Ramarren è a capo di un Corpo di spedizione di dormienti, in stato di ibernazione, che avrà il compito di insegnare il sonno alla popolazione indigena: tra loro anche il presidente Hobbes. Ma qualcosa accade, l'astronave è costretta al naufragio su un pianeta sconosciuto. Sarà qui però che Ramarren potrà scoprire la verità che ha sempre cercato.

    L'autore

    Francesco Troccoli, nato a Roma nel 1969, si è imposto sulla scena della fantascienza nel 2012 con l'uscita del romanzo Ferro Sette, edito da Curcio, al quale è seguito l'anno dopo per la stessa casa editrice Falsi Dei. I due romanzi sono ambientati nel cosiddetto Universo Insonne, per i quali l'autore ha scritto anche un piccolo prequel, Hypnos, uscito nella collana Robotica.it, mentre è prossima, nella collana Odissea Digital Fantascienza, l'uscita del terzo romanzo. Del 2012 è Domani Forse Mai (Wild Boar), raccolta di racconti a cura dell'associazione RiLL. Ha curato con Alberto Cola l’antologia Crisis (Dalla Vigna 2014) ed è membro della Carboneria Letteraria, con cui ha pubblicato il romanzo collettivo Maiden Voyage (Homo Scrivens 2014).

    Dello stesso autore

    Francesco Troccoli, Hypnos Robotica.it ISBN: 9788867759767 Francesco Troccoli, Ferro Sette Odissea Digital Fantascienza ISBN: 9788865305768

    A Federica

    I

    Quando aprii gli occhi, un opprimente biancore esplose e mi abbagliò.

    Una cortina gelida e lattescente mi riduceva in una condizione di cecità molto diversa da quella che mi aveva accompagnato nei mesi addietro. Un vago stato di coscienza di me stesso riaffiorava lentamente e mi spingeva a voler tornare allo stato precedente. Rimpiangevo il rinfrancante nulla che mi aveva cullato. Un’istintività animalesca attivò i meccanismi difensivi di tutto il mio essere, e chi aveva assistito a quella scena mi rivelò poi che non era stato facile averne ragione.

    La luce innescò il riflesso respiratorio, ma non c’era aria. Il mio corpo prese a divincolarsi furiosamente e le mie braccia, e le gambe, urtarono molte volte contro la teca che lo costringeva. Ero immerso in un liquido denso e non ebbi alcun momento di lucidità sufficiente a tentare di rammentare chi fossi e dove mi trovassi. Il mio corpo era disteso, ma non ne avvertivo il peso in alcuna direzione. Tutto durò solo alcuni secondi, che mi parvero i soli di cui si componeva tutta la mia vita, passata e presente. Fu una sensazione di morte imminente, a cui cercavo inutilmente di oppormi. Il mio addome si contrasse, la testa sembrò esplodere e all’improvviso gli ultimi colpi che vibrai con le mani contro il cristallo non trovarono resistenza. Automaticamente, sollevai il busto e mi ritrovai seduto.

    Percepii il grido strozzato con cui iniziai a vomitare quel liquido vischioso e dolciastro che per molti mesi era stato l’unico veicolo di cibo e ossigeno per il mio sostentamento. Riconobbi nel mio urlo la forma di un suono, il primo dopo tanto tempo, e assorbii il riverbero della mia angoscia e della rabbia.

    Il tatto era il solo senso che non aveva mai smesso di funzionare. Ma dopo mesi di gelida melassa nutritiva, il contatto con il calore di altri esseri umani accese ancor di più il mio terrore.

    Dovettero tenermi in quattro.

    – Tobruk! Calmati, Tobruk!

    – Tenetegli le braccia. Tenente Parra! Venga qui! Tobruk, sta’ calmo! Siamo tuoi amici!

    La luce continuava ad accecarmi. Le prime ombre presero forma e mossero minacciose verso di me. Nei rumori incomprensibili che producevano riconoscevo qualcosa di familiare. Lentamente, essi acquistarono la forma appena intellegibile del mio nome, ripetuto ancora e ancora. Fu la prima cosa che ricordai. Ma era ancora troppo poco.

    – Comandante Ramarren, si calmi, va tutto bene.

    Un altro suono. Molto diverso dai precedenti. Più piacevole, più sottile, forse. Rassicurante e caldo. Finalmente le compresi per ciò che erano. Parole. All’improvviso, immagini indefinite e sbiadite presero a sovrapporsi al bagliore indifferenziato con cui la realtà circostante si ostinava a torturarmi. All’inizio ne fui spaventato. Erano ricordi. Sogni, forse. Una miniera, immersa in una calda oscurità che in quel momento mi parve il desiderabile frutto di un inesausto rimpianto. Una guerra. Una donna o, forse, più d’una. Gli occhi imploranti e indifesi di un bimbo. Mio figlio.

    Il mio corpo iniziò a placarsi. Riconobbi il rumore lento e cadenzato dell’aria che entrava e usciva dai miei polmoni. Respiravo, di nuovo, per la prima volta dopo molti mesi.

    * * *

    Nelle ore successive, sebbene fossi sfinito, non riuscii a dormire. Avevo acquisito questa capacità da quasi sei anni harrisiani standard, e c’era stato un tempo in cui la sola idea del sonno mi atterriva.

    Mi trovavo nel mio alloggio, la piccola stanza privata del comandante Tobruk Ramarren, nativo del sistema di Harris e cittadino emerito dello Stato libero di Haddaiko, che del suo quarto pianeta occupava poco meno della metà della superficie.

    Adagiato sulla mia branda, vedevo per la prima volta gli scarni elementi d’arredo concessi al mio rango a bordo della Hebron. La nave prendeva il nome da uno dei più impervi massicci del mio pianeta natale.

    Il soffitto era tanto basso che a stento sarei potuto stare in piedi. Alla mia sinistra c’era una porta con l’ologramma rotante di una stella fra quattro pilastri, il simbolo dell’Oikos di Tutte le Genti, la grande alleanza di mondi di cui anche il mio faceva parte. Alla mia destra, un piccolo scrittoio ricavato nella termoplastica, con un lettore e una libreria. Tutto per me era nuovo, perché a bordo ero arrivato già in criostasi. Ero nudo, ma protetto da un accogliente lenzuolo termico. La branda era soffice e sapeva di pulito. Quando spostavo una gamba o una mano, avevo l’impressione che ogni cellula della mia epidermide ne assaporasse la freschezza con accresciuta sensibilità. Ricordai che mi era stato spiegato sin dal primo momento: durante la prolungata immobilizzazione, uno solo dei cinque sensi, il tatto, avrebbe mantenuto il mio essere ancorato a una vaga ma stabile sensazione di esistenza in vita, confinata largamente al di sotto dello stato di coscienza, ma sufficiente a mantenere integre le mie funzioni conoscitive, sebbene ridotte a una primordiale forma di consapevolezza di esistere.

    Era stato qualcosa di molto diverso dal sonno. In quel momento, però, non avrei saputo spiegare l’esatta natura di quella differenza. Forse tutto si riduceva al fatto che il sonno era un’espressione della vita, mentre la criostasi rasentava la morte.

    Le mie membra erano intorpidite, i miei muscoli flaccidi e privi di reattività. Ero dimagrito. I riflessi erano rallentati e ogni sensazione visiva o uditiva era mediata da un tempo di reazione insopportabilmente lungo. Il mio cranio era calvo e ispido. Avevo un ago nel braccio e una cintura trofica all’addome; per alcune ore, mi avrebbero fornito il solo tipo di cibo che il mio corpo fosse in grado di accettare.

    Mentre ero preso da quella personale e avvilente conta dei danni, la porta si aprì e vidi la sagoma di un uomo.

    – La salute sia con lei. La trovo in forma – si limitò a dirmi. Indossava l’uniforme da capitano di vascello della piccola e orgogliosa flotta stellare di Haddaiko, era alto e snello, e nonostante il suo volto esprimesse una pulizia che sembrava provenire dalle profondità del suo spirito, sulle prime lo guardai con diffidenza. La mia titubanza nel riconoscerlo meritava tutta l’indulgenza del caso: per la maggior parte del tempo in cui ci eravamo frequentati, quell’uomo non aveva goduto di un volto degno di questo nome, mentre in quel momento, grazie alla maestria dei chirurghi biomeccanici dell’Oikos, il suo aspetto era straordinario. Era diventato così bello che, ogni volta che ti capitava davanti, un’ovvia e insopprimibile invidia ti costringeva a rammentare quanto ributtante fosse stata la faccia artificiale che era stato costretto a indossare per anni, prima che gli impiantassero quel capolavoro di ingegneria genetica.

    Riconoscerlo mi aveva messo addosso un inatteso buonumore; decisi di fingermi disorientato.

    Ti pare il momento di scherzare, Tobruk Ramarren?

    – Buongiorno, signore. La salute sia con lei – gli augurai con una deferenza che non gli era dovuta. Era il capitano della Hebron ma, secondo le gerarchie di Haddaiko, io ero secondo solo al Presidente Hobbes.

    – La prego di pronunciare nome, grado e numero di matricola – sentenziò.

    Era il protocollo standard per il risveglio dalla criostasi. L’accertamento delle funzioni cognitive di base serviva a escludere la presenza di amnesia, il più comune effetto collaterale del procedimento. Sapevo di individui che al risveglio avevano a malapena rammentato il proprio nome; qualcuno era rimasto per sempre in quelle condizioni. Il guaio, per l’Oikos, è quando capita con i gradi più alti. Le donne e gli uomini su cui hanno investito di più.

    – Tobruk Ramarren. Comandante di primo livello delle forze dello Stato libero di Haddaiko. Matricola sette-sette-quattro-due-uno – replicai con un tono lento e dubitativo che non ero certo fosse solo il frutto della mia ilarità.

    – Il suo luogo di nascita?

    – Sistema di Harris. Quarto pianeta. Città di Rakiana… nel distretto ventitré.

    – Mi riconosce, comandante Ramarren?

    Non risposi. Notai un’ombra di inquietudine sul suo volto.

    – Ricorda la sua ultima mansione?

    – Ambasciatore dello Stato libero di Haddaiko presso l’Oikos di Tutte le Genti – replicai con prontezza.

    – E la sua ultima residenza?

    – Eos, settore quattro, su Daiki…

    – Il pianeta capitale dell’Oikos – aggiunsi con un velo di esitazione.

    – È sposato, comandante?

    – Sai bene che detesto il matrimonio, faccia di plastica – replicai. – E questa domanda non fa parte della procedura! – Sorrise.

    – Nemmeno fingere di non riconoscere gli amici fa parte della procedura, lurido mezzo hassadiano.

    Si riferiva al mio sangue misto. Mia madre era nata in un sistema che un tempo era stato nemico acerrimo di quello da cui provenivamo tutti noi del Corpo di spedizione imbarcato sulla Hebron: Hassad. Uno dei pochi posti dove miseria e rassegnazione erano persino più abbondanti che sul mio pianeta.

    – Sono felice di poter parlare di nuovo con te, Tobruk.

    – Non sono certo di poter ricambiare, ma farò del mio meglio, Grey.

    Era uno dei pochi uomini dell’Universo conosciuto a cui avrei affidato la mia vita. Avevamo combattuto insieme durante la Guerra di liberazione, ma lo conoscevo da molto prima. Grey Kassiados era stato il compare di uno dei più scaltri contrabbandieri del nostro settore della Via Lattea, un individuo tanto losco quanto amabile, oltre che un erotomane incallito, che rispondeva al nome di Friar Gaddani, noto ai portuali di tutti i sistemi per le immagini pornografiche dipinte sullo scafo della sua nave, il Baco da Seta, un vecchio bidone di colore rosa che, dopo essersi fatto onore nello scontro finale nei cieli di Haddaiko (salvando peraltro la vita del sottoscritto), era stato mandato in disarmo. Grey aveva trascorso gran parte della sua esistenza con un volto di sintesi a basso costo, dopo un incidente di cui non amava parlare, e c’era stato un tempo in cui la sua speranza di recuperare un aspetto umano era stata affidata alla mia parola. Una pessima scelta. Per fortuna, l’Oikos aveva mantenuto la promessa al posto mio e Grey aveva avuto ciò che meritava.

    – Parli come se vedessi la mia nuova faccia per la prima volta.

    – Ho qualche problema di adattamento. Difficoltà alla vista. E la pelle. Ogni volta che tocco la branda mi vengono i brividi. E come se non bastasse ci sono queste nausee improvvise, nemmeno fossi una donna incinta. Anche ora, cazzo, ho voglia di vomitare.

    Fece una smorfia.

    – Niente di personale – aggiunsi.

    – Il tatto è il solo senso che hai conservato integro durante la criostasi. La tua sensibilità epidermica si è amplificata, impedendo al tuo inconscio di eliminare tutte le connessioni con la realtà circostante. Ma è solo un fenomeno compensatorio, derivante dall’indebolimento degli altri sensi. Quando vista e udito torneranno normali, scomparirà. E sarai anche in grado di digerire nuovamente cibi solidi.

    – Già. Spero che accada presto.

    – Dipende da te. Se seguirai il protocollo di riabilitazione ti ci vorrà qualche giorno al massimo. Il tenente Vlora Parra e l’istruttore Marina Kardanian, che sono state svegliate prima di te, ci hanno messo appena quattro giorni.

    Sorrise.

    – Vedremo se saprai fare meglio di loro, comandante. Del resto, dopo otto mesi…

    – Solo otto? Il mio risveglio era previsto all’inizio del decimo mese di navigazione.

    – È esatto. Cioè l’ultima settimana di viaggio verso Maraar III, la nostra destinazione.

    Maraar. Uno dei sistemi più inospitali del settore verso cui eravamo diretti. Il suo terzo pianeta era un piccolo mondo di sabbia, abitato da un milione scarso di persone al limite della sopravvivenza. Caldo come una termo-serra, asciutto come la segatura e incomprensibilmente corteggiato da tre piccole lune. Era David Vincious Perreira Hobbes, in ordine di tempo mio ex commilitone, amico di sangue, capo della Guerra di liberazione, Presidente dello Stato libero di Haddaiko, nonché padre del sottoscritto (circostanza quest’ultima che avevo appreso solo alla fine della guerra), il visionario che ci aveva trascinati tutti in un processo indescrivibilmente folle, mirato a raggiungere un nuovo e più equo ordine nell’universo conosciuto. Il conseguimento di questo obiettivo aveva una sua tappa fondamentale nella riabilitazione di una facoltà che gli esseri umani avevano perduto nel corso dei millenni.

    Il sonno.

    Ma oltre a essere l’uomo più tenace che avessi mai incontrato, Hobbes era la nostra indiscussa guida, e svariate volte ci aveva già dimostrato che ogni sua scelta era stata dettata da una lungimiranza che, fino ad allora, si era rivelata infallibile. Come a suo tempo mi era parso impossibile sottrarre anche solo una miniera di Harris IV al dispotismo della Famiglia dominante, mi sembrava un’utopia raggiungere il successo nella missione che ci accingevamo a intraprendere: insegnare alla primitiva popolazione di Maraar la tecnica del sonno e istillare in essa il germe della rivolta. Per questa ragione, la Hebron trasportava verso il pianeta un Corpo di spedizione formato da quaranta istruttori, oltre a due coppie di piloti trans-sistema, un ingegnere quantistico, un medico specialista in biomeccanica e otto ufficiali, fra i quali Hobbes, Grey e il sottoscritto, investito del ruolo di comandante in capo. La gran parte di loro era in condizioni di criostasi. E dopo Maraar, sarebbe stata la volta di Faria, Blakeeda, Otmos e tutti i sistemi considerati meno ricchi e produttivi tanto dall’Oikos di tutte le Genti, quanto dalla misteriosa genia di nemici che sapevamo essere annidati fra le maglie dell’Universo e che, prima o poi, si sarebbero accorti di noi.

    Prima regola della rivoluzione: proselitismo.

    Durante il lungo viaggio, era previsto che ognuno di noi effettuasse un turno di veglia di due settimane, a rotazione, secondo un programma stabilito in partenza. In questa maniera, a bordo ci sarebbero stati continuamente sei individui in stato di veglia e quarantotto in criostasi. Le due coppie di piloti invece, sottoposte a un addestramento particolare, si sarebbero date il cambio a metà della traversata.

    – In ossequio alla procedura d’emergenza – riprese Grey – avevo la facoltà di derogare all’ordine stabilito inizialmente per i turni di veglia. Ho scelto te, per la natura della situazione in cui ci troviamo.

    – Che cosa sta succedendo? Hai svegliato anche Hobbes, immagino.

    – Lui è ancora nella sua criocapsula. Il punto è proprio questo.

    – Spiegati, accidenti!

    – C’è qualcosa che non va nel sistema di criostasi, Tobruk.

    – Di che si tratta?

    – Non conosciamo ancora l’esatta natura del problema.

    – Dimmi di Hobbes.

    – A quanto risulta, il problema riguarda solo uno dei quattro quadranti del sistema. Il quarto.

    – E Hobbes si trova in quel quadrante, giusto? Che cosa rischia?

    Grey abbassò lo sguardo e sospirò.

    – Ti ho fatto una domanda – lo incalzai, poco prima di accusare un violento accesso di nausea.

    Attese che terminassi di rimettere nell’aspiratore il fluido nutritivo semidigerito, poi riprese a spiegare.

    – Circa un mese fa, il programma dei turni di veglia prevedeva che venisse svegliato Bo Hansen.

    Annuii.

    – All’inizio è andato tutto bene. Si stava riprendendo. Poi, dopo le prime ore di sonno, Bo è morto. Sospettavo che fosse successo mentre dormiva, ma la registrazione biometrica ha evidenziato che il decesso è avvenuto qualche minuto dopo il risveglio. Blocco respiratorio.

    – E perché dai la colpa al sistema di criostasi?

    – Anche Jokk Frenzen, che era in quel quadrante, ha subito la stessa sorte, a differenza delle due donne, Vlora e Marina, che erano una nel primo e l’altra nel secondo. Solo allora ho capito che il problema era nel quarto quadrante della criozona, e l’ho isolato.

    – Isolato?

    – Sì. I quadranti possono essere alimentati separatamente. Fluidi, ossigeno, elettroliti. Ci sono quattro circuiti indipendenti. In genere non si fa, per risparmiare energia.

    – Cosa può essere successo?

    – Non ne ho idea. Ricordi che a bordo abbiamo un ingegnere quantomeccanico, vero?

    – Tarel… Makrar.

    – Proprio lui. Era in stato di veglia al momento dei decessi, e da allora ho sospeso la rotazione dei turni. Non è esattamente il suo campo, ma è il solo in grado di capirci qualcosa. Lui pensa che ci possa essere stata una specie di contaminazione del quarto quadrante. Ci sta lavorando giorno e notte. Sai, non ha ancora imparato a dormire.

    – Una contaminazione… Perché non hai svegliato il medico?

    – Anche lui è nel quarto quadrante. Insieme a Hobbes, Laureel, due piloti e sei istruttori.

    Laureel.

    Lo avevo dimenticato.

    Che io sia dannato per aver ceduto alla tua insistenza, vecchio.

    – Tu sei stato risvegliato secondo il programma stabilito in partenza?

    – Sei settimane fa.

    – Cosa possiamo fare?

    – Finché non li avremo svegliati, penso che non corrano alcun pericolo. A questo punto, la sola cosa da fare è raggiungere Maraar.

    – Credi che troveremo assistenza medica sul pianeta?

    – Me lo auguro. Ma ignoro se siano all’altezza di un’emergenza simile.

    – Perché non invertire la rotta e tornare su Harris IV?

    – Rimanere un altro anno a bordo con una contaminazione dei sistemi è rischioso; nessuno ci garantisce che gli altri tre quadranti non vengano contaminati e non abbiamo risorse a sufficienza per svegliare tutti e affrontare il rientro. Ho convocato una riunione fra sei ore. So che sei sfinito, ma sarebbe bene che ci fossi anche tu.

    – Naturalmente – esclamai. Tentai di alzarmi e mi parve che il mio corpo fosse oppresso da una gravità insopportabile.

    Grey mi sfiorò il petto con una mano, inducendomi a tornare in posizione distesa.

    – Non ti sei ancora rimesso. Parteciperai in modalità olo.

    Mugugnai un verso di assenso.

    Ero uscito da più di duecentoquaranta giorni di isolamento, anche se avevo l’impressione di essere salito a bordo la mattina stessa. Rammentai lo sguardo orgoglioso di Hobbes, quando ci disse che anche lui sarebbe venuto su Maraar III. Avevamo tentato di dissuaderlo con ogni mezzo, facendo leva sull’importanza della sua figura e della sua carica. Ma Hobbes aveva previsto tutto. Aveva lasciato alla sua vice Martha Rasmussen, una delle donne più formidabili che abbia mai conosciuto, pieni poteri presidenziali con istruzioni precise su come comportarsi qualora non fosse rientrato; aveva conferito alla sua donna, Samì Barraguer, il ruolo di primo Consigliere del Presidente, il che le conferiva accesso illimitato a tutte le informazioni e un potere decisionale sconfinato. In sostanza, aveva lasciato due donne in antagonismo a capo della nazione che aveva creato. E che donne. Conoscendole, non avrei voluto essere al posto né di una né dell’altra.

    Quello in cui mi trovavo non era il migliore degli scenari che avrei potuto attendermi a bordo della Hebron all’uscita dalla criostasi. Persino trovarsi al posto di Hobbes nel settore contaminato sarebbe stata una prospettiva migliore. Così almeno non avrei mai saputo nulla di quella incomprensibile contaminazione, mentre lui avrebbe dovuto affrontare la situazione. Con la sua proverbiale serenità d’animo, Hobbes ne sarebbe stato molto più in grado di me. E comunque, la mia vita valeva assai meno della sua.

    David Vinicious Pereira Hobbes era mio padre, ma io gli avevo promesso che non lo avrei mai considerato tale. Per me, infatti, lui era sempre stato molto di più. La consapevolezza che la sua sopravvivenza e il successo della spedizione sarebbero dipesi dalle mie decisioni era una responsabilità che avevo ben poca voglia di accettare.

    E invece sapevo bene che, pur nell’oblio della criostasi, Hobbes si aspettava che fossi io, a tirare tutti i nostri amici fuori dai guai. E, per inciso, a salvargli la vita.

    II

    Reclinai il capo, mi distesi sulla branda e ordinai al computer di porgermi un pannello di accesso ai servizi a bordo. Una tastiera scese docilmente e selezionai il programma di riabilitazione postcriogenica. Una serie di sensori prese a scandagliare il mio corpo, e pochi secondi dopo iniziai ad assaporare microcorrenti elettriche che dalla mia pelle ipersensibile raggiungevano i miei muscoli, per restituire loro trofismo e vitalità. Immagini olografiche in sequenza, studiate per la riattivazione neuronale, iniziarono a volteggiare in posizioni casuali nello spazio intorno a me.

    Se le due donne avevano impiegato quattro giorni per tornare in servizio, a me ne sarebbero occorsi non più di tre. Mentivo a me stesso, ma porsi un obiettivo ambizioso avrebbe certamente giocato a mio favore e, a parte questo, in realtà avevo rinunciato da tempo alla competizione con il genere femminile. È una lotta impari.

    Continuavo a pensare ad Alina. Il tenente Vlora Parra mi aveva detto che al mio risveglio, mentre sputavo melassa nutritiva e tiravo calci imprecando contro tutto e tutti, avevo gridato più volte il suo nome.

    La Hebron aveva lasciato l’orbita di Harris IV undici mesi prima di allora. Dopo cinquantasette giorni aveva sfiorato l’orbita di parcheggio più esterna di Daiki, il pianeta capitale dell’Oikos, dove una navetta di spola aveva atteso il suo arrivo con il prezioso carico, costituito dal sottoscritto in capsula crioscopica e i pochi effetti personali concessi nello spazio fondo.

    Tutto ciò era avvenuto tre soli mesi dopo la nascita di mio figlio. Falk Ramarren.

    Chissà come lo troverò cresciuto al mio rientro.

    Quando la spedizione su Maraar era stata approvata, Hobbes mi aveva proposto di restare con Alina e mio figlio. Mi ero rifiutato e aveva insistito.

    Loro hanno bisogno di te, Tobruk Ramarren. E tu di loro.

    Ma io non mi ero nemmeno permesso di pensarci su. Dopotutto, era per questo che avevamo combattuto, lei e io, ed era per questo che avremmo continuato a combattere. Che ci piacesse o no, la nostra stessa unione, e nostro figlio, facevano parte della guerra che era iniziata con la liberazione di Haddaiko.

    Qui non potresti far molto di più di quello che potrò fare io, mi aveva detto Alina poco prima di partire, mentre Hobbes ha certamente un gran bisogno di te.

    E tu non ne hai?, avevo replicato poco prima di gettarmi su di lei con tutto me stesso.

    Disteso sulla branda del mio alloggio a bordo della Hebron, e pensando alle ultime ore trascorse con Alina in uno chalet sulle rive del lago di Eos, mentre facevamo l’amore accarezzati da una tiepida brezza notturna che portava con sé il profumo di abete, non fui più certo di sentire dentro di me l’idealistico entusiasmo che aveva animato la mia decisione. Ma l’impossibilità di recriminare era ormai certificata dai milioni di leghe che mi separavano dalla mia piccola e adorata famiglia.

    Davanti a miei occhi roteava la spirale dati della prima delle Tabelle di Pavlov, che contengono le equazioni temporali per il calcolo dello sfasamento temporale indotto dai viaggi interstellari in funzione della distanza relativa del punto d’origine del viaggio spaziale, della velocità della nave e della durata della traversata. Avevo già fatto quel calcolo decine di volte, a casa, prima di partire. Ma sentivo il bisogno di farlo nuovamente e lo avrei ripetuto in seguito. Al mio rientro, se tutto fosse andato come previsto, i ventisei mesi harrisiani che avrei trascorso lontano da casa corrispondevano a quasi trentadue di tempo reale su Daiki: Falk avrebbe avuto quasi tre anni e mezzo, e Alina sarebbe invecchiata circa sei mesi più di me. Sarebbe stata ancora bellissima. Anche fossero sei anni, o molto di più, lo sarebbe comunque. Trascorsi le due ore successive in uno stato di torpore che fu alternativamente interrotto da piccole scariche elettriche applicate a distretti del corpo nei quali ignoravo l’esistenza di tessuto muscolare, oppure rasserenato da immagini della mia nuova casa su Daiki, e di Alina che allattava il piccolo Falk. Non saprei dire se si fosse trattato di ricordi, sogni o immagini olografiche del programma di riabilitazione. Probabilmente, un misto di tutti e tre.

    Durante quel rituale di riappropriazione della mia vita nessuno venne a disturbarmi.

    Quando rinvenni, decisi che ne avevo abbastanza. Avevo ancora tre ore prima che iniziasse la riunione voluta da Grey e a bordo della Hebron c’erano troppi problemi per continuare a poltrire. Raggiunsi a fatica l’armadio e ne estrassi una cintura munita di due piccoli sospensori anti-g. Ridussi il peso del mio corpo a poco più della metà di quello reale. Sperai che bastasse. Aprii la porta e finalmente mi accinsi a visitare la nave che mi ospitava. Presi senza indugio la direzione del primo ponte di carico.

    Come tutte le trans-sistema, anche la Hebron non era che un enorme hangar semovente, costruito nello spazio e concepito per la massima capacità di trasporto. È su navi simili che prima il decaduto Impero e poi l’Oikos di tutte le Genti hanno costruito la loro potenza militare e commerciale. Esplorazione, affiliazione, colonizzazione, conquista, deportazione, compravendita. Non necessariamente in quest’ordine. Nella struttura economica dell’Alleanza, nessun movimento di massa, merci o esseri umani che fossero, avrebbe potuto prescindere dall’uso di astronavi così capienti e veloci. Utilizzando sapientemente le traiettorie di curvatura, l’effetto finale di moltiplicazione della velocità lineare della luce raggiungeva livelli molto elevati, e sistemi che si trovavano agli antipodi della Via Lattea potevano essere raggiunti in non più di qualche anno.

    La Hebron era uno dei modelli più vecchi della flotta dell’Oikos. In alternativa allo smaltimento, era stata donata allo Stato di Haddaiko, che l’aveva ribattezzata insieme ad altre tre gemelle, la Vuttala, la Aral e la Gran Primer Kahn, con i nomi dei monti e dei vulcani di Haddaiko. Quei quattro vascelli erano tutta la nostra flotta. Dal giorno dell’entrata in servizio, i simboli dell’Alleanza non erano ancora stati rimossi, e all’interno della Hebron la stella fra quattro pilastri campeggiava ovunque. Non era un caso.

    Nel primo ponte di carico la nostra nave ospitava cinquantadue capsule crioscopiche con i sistemi di sostentamento e i grandi serbatoi di crioamiloplastina, la sudicia melassa zuccherina nel cui materno abbraccio avevo trascorso la gran parte della traversata. Nel ponte inferiore, invece, trasportava una quantità considerevole di macchine che ci sarebbero servite a destinazione. Hovercraft, veicoli a ruote, macchine agricole, serbatoi per l’acqua, impianti idraulici ed elettromeccanici, generatori di energia, piccoli ospedali da campo automatizzati, attrezzature mediche e biomeccaniche e infine, superfluo a dirsi, armi leggere e pesanti in quantità, compresi cannoni a impulso e una dozzina di esemplari di quel prodigio dell’Oikos che era il Korp, l’esoscheletro corazzato che avevo avuto il piacere di sperimentare personalmente qualche anno prima, tutti nella versione completa da combattimento. Certamente non pensavamo di dare una mano alla gente di Maraar III solo insegnando loro come recuperare il sonno.

    A giudicare dal carico, sarebbe stato legittimo chiedersi se la nostra fosse una missione di liberazione o, piuttosto, di conquista. Avendo a che fare con l’Oikos di Tutte le Genti, avevo smesso di pormi domande simili già da diversi anni.

    In gran parte si trattava infatti di mezzi messi a disposizione dall’Alleanza, che ci aveva imposto il diritto di prelazione sullo sfruttamento commerciale; il resto lo avevamo finanziato con le magre risorse dello Stato libero di Haddaiko.

    Raggiunsi la porta di sicurezza della criozona, sulla quale un avviso scritto in haiko, la lingua ufficiale dell’Oikos, rammentava l’obbligo di sterilizzazione prima dell’accesso. Nonostante almeno un quarto della popolazione in criostasi fosse già contaminato, applicai scrupolosamente la procedura, entrando in una delle docce radianti ai miei lati. A quanto ne avevo capito, del resto, la contaminazione in atto era qualcosa di più complicato di una semplice infestazione biologica.

    Uscii dalla doccia rammentando la paura di dormire che un tempo mi aveva ossessionato e mi dissi che i fatti sembravano darmi ragione.

    Ma ormai il sonno era una parte integrante della mia vita. Entrai.

    Una penombra diffusa lasciava filtrare una luminescenza verdeazzurro, che orlava i contorni e rendeva a malapena visibile il percorso di accesso ai quattro quadranti in cui era suddivisa la criozona. In quel luogo, il silenzio che nel resto della nave regnava ignorato diventava un’esperienza tangibile. Notai subito le capsule aperte, appartenute ai tenenti Parra e Kardanian e più avanti, nel quadrante contaminato, quelle che erano state occupate dai più sfortunati Hansen e Frenzen.

    Le criocapsule erano costituite di una lega cristallina trasparente, ma l’intimità dei loro occupanti era in gran parte protetta dalla densa crioamiloplastina, che formava una sospensione torbida e lattescente, in cui i corpi galleggiavano e da cui erano avvolti, nutriti e riforniti di ossigeno, sotto forma di complesso biochimico idrosolubile.

    Conoscevo personalmente la maggior parte degli occupanti. Si trattava in gran parte di ex minatori di Ferro Sette, l’insediamento estrattivo in cui sei anni prima ero stato spedito a stanare Hobbes. Ma qualcuno proveniva da Ferro Nove, l’altra miniera che aveva dato un contributo decisivo alla sollevazione. Veterani, tanto dell’estrazione del ferro, quanto della guerra. Selezionati per il loro profilo

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