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Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta»
Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta»
Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta»
E-book181 pagine2 ore

Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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Info su questo ebook

Ispirandosi alla famosa Disfida di Barletta, gli autori dei dodici racconti finalisti esplorano le mille sfide della vita, tappe fondamentali dell'esistenza di ogni essere umano, in una raccolta dal carattere fortemente introspettivo. L'essenza umana riscoperta nelle scelte di vita, una raccolta stupefacente, tutta da scoprire.
Racconti presenti (classifica finale del Premio):
1°: “Il posto dei bambini dimenticati” di Alessandra Pepino
2°: “L’italiano che sapeva boxare” di Lorenzo Marone
3°: “Uno, lo strano destino di un campione qualunque” di Pino Benincasa
4°: “La festa del Santo Patrono” di Giuliana Damiani
5°: “Madri e figlie” di Diana Millan
6: “Briscola” di Davide Corvaglia
7°: “Milano-Taranto” di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
8°: “Le chiavi del tempo” di Claudia Mancino
9°: “Il signore dell’arena” di Anna Grieco
10° ex-aequo: “Accadde nel borgo di Bocco” di Rosaria Iodice
10° ex-aequo: “Figli del vento” di Luigi Brasili
10° ex-aequo: “Supersantos” di Fulvio Frezza
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2018
ISBN9788895974316
Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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    Anteprima del libro

    Sfide e disfide. Quarto premio letterario internazionale «Città di Barletta» - Luigi Brasili

    Barletta"

    Uno, lo strano destino di un campione qualunque

    di Pino Benincasa

    Il sudore si formava sulla fronte in goccioline minuscole. Poi la forza di gravità cominciava il suo lavoro e le piccole stille scendevano fino alle sopracciglia. Lì, che prendessero a destra o a sinistra, il risultato era identico. Si infilavano nell’occhio, bruciavano, sabotavano la vista, e in più i grossi guanti della Uhlsport gli impedivano di detergersi come avrebbe voluto. Lasciava sempre un asciugamano nell’angolo sinistro della porta, dopo l’ispezione della rete da parte del guardalinee, ma era solo un gesto scaramantico, perché quasi mai si azzardava a distogliere lo sguardo da quanto accadeva in campo. A maggior ragione quel giorno e in quel momento, quando mancavano dieci minuti alla fine della finale di ritorno della Coppa Italia 1980.

    Ancora zero a zero, come all’andata. Niente sembrava poter sbilanciare l’equilibrio di quella sfida infinita, considerato che anche in campionato sullo stesso risultato a occhiali si erano chiusi gli incontri tra le due squadre.

    Lo stadio era una bolgia, stracolmo in tutti i suoi sessantamila posti e probabilmente anche di più. Nel secondo tempo gli era toccata la porta sotto la curva avversaria perché Marco Corollario, il suo capitano, si ostinava a scegliere la palla tutte le volte che la moneta lanciata sul dorso della mano dell’arbitro gliene dava l’opportunità. Nonostante ciò si sentiva bene, i titoli attribuiti dai tifosi ai propri ascendenti e affini gli scivolavano via come l’acqua su un impermeabile e il sole, che per tutti quei quarantacinque minuti aveva messo a durissima prova il suo cuoio capelluto, stava finalmente intraprendendo il viaggio per andare a fare la stessa cosa, con qualcun altro, dall’altra parte del mondo. Pensando a cosa attendeva il suo collega neozelandese la bocca si aprì involontariamente in un mezzo sorriso. Un attimo e si trasformò in uno intero. Di più. In un ghigno invasato. Giovanni Capoccio, il loro centravanti, aveva appena segnato.

    Goal!

    Il pubblico reagì con un boato devastante che esplose improvviso a pervadere l’aria e a far tremare la terra, soffocando il proprio urlo tanto da impedire a lui stesso di sentirlo. I suoi compagni si abbracciarono al centro del campo ma lui era troppo lontano per partecipare alla festa, c’era abituato e approfittò dell’esultanza generale per prendere l’asciugamano e togliersi, sperando definitivamente, il sudore dalla faccia.

    Arrivava il momento più difficile, lo sapeva bene. Tra loro e la coppa rimanevano pochi minuti, ma erano decisivi. Il gioco riprendeva ed era certo di vedersi arrivare addosso l’intera squadra avversaria pronta a dare battaglia fino all’ultimo secondo, all’ultimo residuo di energia. Anche a questo era abituato, nessun problema. Avrebbero vinto o perso, ma di certo pure lui avrebbe lottato fino alla fine.

    All’inizio non voleva prendere niente ma adesso era contento di aver dato retta al dott. Galeotta quando aveva insistito per i ricostituenti. Forse per la corporatura imponente ogni anno, con l’arrivo della bella stagione, subiva sempre un calo fisico notevole. Questo lo metteva di cattivo umore generando a sua volta una flessione anche mentale. Per fortuna c’erano i farmaci, li prendevano tutti. Lui nello specifico faceva flebo ricostituenti. Non sapeva bene di cosa si trattasse, né i nomi sui flaconi gli dicevano qualcosa. Gli era stata spiegata a grandi linee la causa di quella debolezza: i reni. Su quelli si interveniva per eliminarla. Assumeva i farmaci di solito a inizio settimana e il miglioramento era indiscutibile. Lo stesso per i suoi compagni che il caso aveva voluto veder correre nel campo in lungo e in largo, costringendoli spesso a combattere con la pubalgia. Per quella c’erano i raggi, anche loro dal nome impronunciabile.

    Ci vorrebbe almeno qualche crocerossina.

    Scherzavano guardando divertiti quello che più di uno spogliatoio sembrava un ambulatorio. D’altronde le medicine erano necessarie per sostenere i ritmi del calcio moderno, ne avevano discusso anche con la società. Erano dei professionisti pagati fior di milioni, dunque perfettamente logico e comprensibile, da parte loro, adeguarsi per il bene della squadra.

    «Ettore, tua!»

    «Merda!»

    Si accorse immediatamente che il retropassaggio era corto. Lui e l’attaccante scattarono come due elastici liberati dopo aver raggiunto la massima tensione, entrambi diretti verso la sfera bianca e nera. Ettore la vedeva rotolare verso di lui con lentezza esasperante. Ci arrivò comunque per primo, almeno questa fu la sua impressione mentre scivolando sull’erba la smanacciava verso la linea laterale. Sentì il contatto della caviglia dell’avversario nello stomaco, ma lo stesso era tranquillo di aver evitato il pericolo. Più del fischio prolungato furono le urla dei suoi compagni ad azionare nella sua testa il campanello d’allarme. Il tempo di rialzarsi e vide l’arbitro, il sig. Francesco Zurlo da Tivoli, correre col braccio teso e l’indice inesorabilmente puntato sul dischetto del calcio di rigore.

    Si scatenò una baraonda. L’intera squadra circondò l’uomo in divisa nera togliendolo alla vista del resto del mondo, la panchina schizzò in piedi trattenuta a stento dagli addetti a bordo campo, un loro tifoso scavalcò la recinzione e fu placcato da un celerino quando era ormai a pochi metri dal gruppo intorno all’arbitro, intanto cento lire e accendini piovevano dagli spalti come in un temporale. Ettore guardava tutto come se non lo riguardasse, e in effetti era così. Neanche uno di quei gesti impulsivi avrebbe mutato la decisione inappellabile. Camminò all’indietro fino a raggiungere la linea di porta disinteressandosi di ogni cosa, conoscendo fin troppo bene quello di cui doveva preoccuparsi. Per la regola dei goal fuori casa l’uno a uno li avrebbe condannati alla sconfitta, dunque la coppa sistemata sul tavolino tra le due panchine era letteralmente nelle sue mani.

    Era anche nei piedi di qualcun altro però e lui sapeva perfettamente di chi. Si guardò intorno e lo vide. Se ne stava anche lui in disparte, lontano dal parapiglia. Da quaranta metri di distanza i loro occhi si incrociarono e ad Ettore sembrò di vedere un sorriso sul suo volto ma non riuscì a decifrarlo. Strafottenza, nervosismo, sfida, paura? Stabilirlo era impossibile e nemmeno necessario. Decise in quel momento l’unica cosa sensata da fare. Non guardare più dentro a quei buchi imperscrutabili che l’avrebbero inevitabilmente mandato in confusione.

    Claudio Asti cominciò a venire verso di lui mentre in campo la situazione tornava lentamente alla normalità. Avanzava con andatura caracollante, ostentando una sicurezza probabilmente finta, sembrava quasi che danzasse. Alto e con i capelli lunghi e mossi gli ricordava Ivano Fossati nel concerto a cui aveva assistito un paio di mesi prima.

    Fino alla stagione precedente Claudio era stato un loro compagno di squadra, per ben quattro anni. Poi improvvisamente quel cambio di maglia a lasciare tutti di stucco, per primo lui, nell’ultimo anno suo compagno di stanza in ritiro. L’avevano appreso dai giornali e questo era stato l’unico elemento a dargli un po’ d’amaro in bocca, per il resto erano vicende normali nel loro ambiente. Accadevano da sempre e sempre sarebbero accadute, tanto più ora, quando l’imminente riapertura delle frontiere ai giocatori stranieri avrebbe certamente portato movimenti di mercato ancora più vivaci.

    Questi pensieri lo stavano distogliendo da quello più importante. Scosse la testa per scacciarli nell’istante in cui il suo avversario riceveva la palla dall’arbitro e si apprestava a posizionarla sul dischetto. Quattro anni passati a giocare con gli stessi colori addosso li avevano portati a trovarsi uno di fronte all’altro, in quell’identica posizione, forse migliaia di volte in allenamento. Si conoscevano, ciascuno era consapevole dei movimenti dell’altro, ne poteva intuire addirittura i segreti e questo aspetto aggiungeva ulteriore sale a una sfida che non avrebbe potuto essere più sapida.

    Qualche compagno venne a incoraggiarlo ma lui non diede peso alle parole, non le sentì nemmeno. Piantò bene i piedi sulla linea di porta, leggermente piegato sulle ginocchia e con le braccia aperte ad abbracciare l’universo intero. La classica posizione di attesa. Si accorse del silenzio gelido calato ad avvolgere lo stadio, trasformando l’aria afosa di metà giugno in una versione mai vista di vento siberiano, solo perché poté sentire distintamente il battito del proprio cuore. Palpitava ritmico e sicuro, una macchina dal sincronismo perfetto. Lo trovò confortante e di buon auspicio. In ogni caso, mutismo o gazzarra non faceva per lui nessuna differenza.

    Il momento era arrivato. Il pallone era sul dischetto, Claudio Asti qualche metro più indietro pronto per la rincorsa, l’arbitro al centro dell’area di rigore si portava il fischietto alla bocca.

    Ettore era solo. Isolato, unico, emarginato, libero.

    Ce l’aveva scritto anche sulle spalle.

    Ettore era uno!

    Il sibilo intenso e prolungato, provocato dalla pallina mossa all’interno del fischietto dal soffio dell’uomo in giacchetta nera, arrivò a infrangere l’aria immobile e insieme le sue orecchie. Vide il suo avversario muovere il primo passo, poi chiuse gli occhi.

    Uno, due, tre.

    Li riaprì e si tuffò a sinistra e accortosi di aver indovinato il lato si distese in tutti i suoi centonovanta centimetri, finché sentì quella sfera benedetta sbattere sui polpastrelli. Fece appena in tempo a vederla, con la coda dell’occhio, mentre rimbalzava fino a oltrepassare la linea di fondo. Cercò di alzarsi ma fu letteralmente sepolto dall’abbraccio euforico dei suoi compagni che gli franarono addosso uno dietro l’altro.

    La sua reazione fu inaspettatamente rabbiosa. Se li tolse di dosso a fatica e cominciò a inveirgli contro come se il goal l’avesse subito anziché evitato.

    «Basta! Tornate in campo brutti stronzi. Non è ancora finita!»

    Non provò nessun rammarico per quelle parole. Doveva scuoterli, c’era ancora da giocare. Questo disse a se stesso uscendo in presa plastica sul cross dal corner seguito al calcio di rigore. La verità era che l’adrenalina gli era entrata in circolo annebbiandogli il cervello, rendendolo a sua volta euforico. Andava pian piano prendendo coscienza dell’enormità dell’impresa appena compiuta e sentire il proprio nome scandito in coro da tutto lo stadio ne era la dimostrazione lampante. Quella parata l’avrebbe consegnato alla storia, il suo nome sarebbe stato ricordato negli almanacchi calcistici, i padri l’avrebbero tramandato ai figli raccontando le vicende della loro squadra del cuore. In fondo per quello si giocava a pallone. Stava per concretizzare l’aspirazione segreta di tutti i calciatori del pianeta, professionisti e non. Questo pensiero lo riempiva di gioia, incredulità, orgoglio. Si rendeva conto di quanto era fortunato, provava un sentimento di trionfo paragonabile a un vero e proprio delirio di onnipotenza.

    Nel momento in cui gli giunse all’orecchio il triplice fischio dell’arbitro fu convinto di avere la possibilità di realizzare qualsiasi cosa avesse voluto, niente poteva essergli precluso. A suggellare quell’ebbrezza arrivarono i suoi compagni a sollevarlo da terra, caricarselo sulle spalle e portarlo in trionfo come se fosse lui, non la coppa, il trofeo appena vinto. Non si lamentò affatto per quel ruolo non richiesto ma che gli era stato assegnato, anzi, ne assaporò appieno la sensazione inebriante. Percorse in quella posizione un giro di campo quasi completo, accompagnato dai cori incessanti del pubblico e quando finalmente i suoi piedi riguadagnarono il contatto con il suolo, mentre tutti si preparavano ad alzare al cielo l’agognata coppa, si guardò intorno spaesato, senza sapere bene cosa fare. Come in una ripresa panoramica i suoi occhi ruotarono ad inquadrare tutto lo stadio, fino a quando si fermarono in corrispondenza della porta difesa fino a pochi minuti prima. Lì capì improvvisamente quanto fosse difficile da accettare l’essenza stessa del calcio, dello sport in generale e forse anche della vita: qualcuno vinceva e qualcun altro perdeva.

    Si avvicinò e tese la mano a Claudio Asti, seduto sul dischetto disegnato col gesso che aveva appena decretato l’altare per l’uno e la polvere per l’altro. Teneva le braccia incrociate sulle ginocchia, con la testa incassata nel mezzo. Quando afferrata la sua mano fu in piedi di fronte a lui, Ettore si accorse delle lacrime spuntate nei suoi occhi al posto dell’aria di sfida.

    «Bella partita, complimenti Claudio.»

    Gli disse mantenendo la stretta pur sapendo quanto inutili fossero le sue parole. A riprova di ciò arrivò il sorriso a denti stretti del suo ex compagno di squadra, seguito da una risposta amara e beffarda.

    «Già, posso immaginare quanto ti sia piaciuta. Adesso togliti dai piedi e vai ad alzare la tua coppa, te la sei meritata.»

    Claudio cercò di riavere indietro la sua mano ma Ettore non glielo permise. Quasi senza rendersene conto lo tirò a sé e lo strinse in un lungo abbraccio di cui forse aveva più bisogno lui del suo avversario. Quando si staccò per andare a raggiungere i suoi compagni in festa, non poteva immaginare quanta gratitudine quel gesto avrebbe sprigionato.

    … bip … bip … bip …

    Guardò il serpente verde percorrere ritmicamente da un lato all’altro il monitor del ventilatore meccanico e si ricordò di essere ancora vivo. Alla fine si era addormentato e il sogno di quella partita di trent’anni prima, l’apice della sua carriera di calciatore, era stato così realistico da dargli l’impressione di essere già in paradiso a rivivere i momenti più belli della sua vita. Perché poi dovesse meritare il regno dei cieli anziché quello degli inferi, rimaneva un mistero di cui solo il suo inconscio conosceva la soluzione. Per fortuna era ancora capace di alzare le palpebre e muovere gli occhi per guardare la realtà che lo circondava, diversamente il dubbio sulla sua condizione non l’avrebbe abbandonato. Come poteva essere altrimenti? Un mostro si era impossessato di lui e l’aveva imprigionato nel suo stesso corpo, prima ancora di costringerlo immobile su un letto.

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