Come lupi nella neve: Un nuovo caso per Marco Canepa
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Marco Di Tillo è laureato in Psicologia e ha scritto per più di vent’anni testi per programmi televisivi e radiofonici per la Rai. Per il cinema ha diretto la commedia Un anno in campagna e il giallo per bambini Operazione Pappagallo, scritto insieme a Piero Chiambretti. Per la narrativa per ragazzi ha scritto Il ladro di Picasso, Due ragazzi nella Firenze dei Medici, Il giovane cavaliere, Tre ragazzi ed il sultano e le favole illustrate per bambini Mamma Natale e Mamma Natale e i Pirati. È stato autore di testi originali per fumetti pubblicati da numerosi periodici e quotidiani italiani. Per Il Giornalino delle Edizioni Paoline ha ideato le serie I grandi del calcio, I grandi del jazz, I grandi del cinema. Ha vinto il Premio Paese Sera per una Nuova Striscia Italiana 1976 con la strip Piero ed è stato premiato al Salone di Lucca da Hugo Pratt. Ha pubblicato negli Stati Uniti i thriller storici The Other Eisenhower e The Dollfuss Directive. In Italia, ha scritto i gialli con protagonista l’ispettore laico-consacrato Marcello Sangermano. Della serie, sono già usciti Destini di sangue, Dodici giugno e Il palazzo del freddo. Ha scritto il romanzo La neve al mare che narra la disordinata estate di tre ragazzi di sedici anni. Nel gennaio 2020 è uscito invece Una santa per amica sulla sua amicizia giovanile con Madre Teresa di Calcutta. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato i gialli dell’ispettore genovese Marco Canepa, Tutte le strade portano a Genova e Omicidio all’Acquario di Genova.
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Anteprima del libro
Come lupi nella neve - Marco Di Tillo
Inverno 1978
La pioggia veniva giù a secchiate e gli scarpini affondavano nel fango, come blocchi di cemento nel mare.
Era l’ultima partita del campionato e si affrontavano l’Amiternina di Scoppito e l’Olympia di Agnone, entrambe appaiate in testa alla classifica, a pari punti.
Gli scoppitani avevano una migliore differenza reti e quindi, se la gara si fosse conclusa in parità, sarebbero stati loro a passare in Promozione nella successiva stagione.
L’arbitro, che nella vita privata faceva il gommista a Termoli, aveva il suo bel daffare nel tentativo di contenere gli interventi più duri e l’eccessiva irruenza dei ventidue giocatori in campo che continuavano a correre dietro al pallone e a scontrarsi duramente, in una gara senza alcuna esclusione di colpi.
Sugli spalti, nonostante il tempo inclemente, si era radunato l’intero paese di Agnone e, sotto quegli ombrelli aperti, c’erano davvero tutti. Padri, madri, nonni, fratelli, cugini, compari, vigili urbani, commercianti, infermieri, dottori, studenti, contadini, osti, spazzini e insegnanti.
Perfino il parroco don Giacinto era accorso insieme al suo sacrestano Ivan. Il prete se ne stava seduto vicino al sindaco del paese e faceva un tifo da matti, fingendo di non sentire le devastanti bestemmie che non venivano certo risparmiate in quell’umido pomeriggio domenicale.
Ai lati del campo i quattro agenti della locale stazione dei carabinieri vigilavano affinché i tifosi agnonesi non venissero alle mani con quelli di Scoppito, i quali erano stati tutti rigorosamente segregati in un unico settore, dalla parte opposta delle tribune destinate ai locali.
Il giovane appuntato Pasquale Conte aveva solo vent’anni e adorava mangiare. Così, durante il suo turno di servizio a bordo campo, aveva nascosto una cinquantina di cioccolatini fondenti nella tasca della giacca e ogni tanto ne infilava un paio in bocca, sperando di non essere visto da nessuno.
Ma la cosa non era affatto passata inosservata all’attento Francesco Necco, il medico rosso, così come veniva chiamato dai colleghi dell’ospedale civile, per via del suo sviscerato amore per l’Unione Sovietica.
«Danne qualcuno anche a me di quei cosetti dolci, Conte, se no spiffero tutto al maresciallo» sussurrò il dottore, dopo essersi avvicinato, e l’appuntato, assai controvoglia in realtà, dovette cedergli in fretta qualcuno dei suoi succosi gioiellini.
Le cose per l’Agnone andavano male, poiché mancavano solo tre minuti alla fine della partita e il risultato non si sbloccava. Nonostante la continua pressione degli attaccanti, i difensori dell’Amiternina riuscivano sempre in qualche modo a salvare la situazione, effettuando continui rinvii con lunghi calcioni che scaraventavano la palla il più lontano possibile dall’area di rigore. L’altissimo portiere Ascenzio Finestauri, cameriere di sala alla trattoria La Bazzica di Scoppito, effettuava interventi davvero spettacolari, tuffandosi da una parte all’altra senza paura e andando a catturare con coraggio i palloni anche tra le gambe degli avversari, strappandoli letteralmente dai loro piedi. Sembrava proprio finita.
«Recita una preghiera, don Giacinto!» gridò improvvisamente l’insigne professor Aristide Ponzio che, per una volta, aveva abbandonato i suoi importantissimi studi di storia sannitica per venire al campo ad incitare i propri concittadini.
In effetti don Giacinto l’avrebbe anche recitata quella preghiera, anzi stava già pensando quale sarebbe stata quella più indicata nella specifica occasione, quando accadde il miracolo.
Jacopo Ciaramella, la veloce ala destra dell’Olympia, si involò solitario sulla fascia, dopo aver scartato con una finta il terzino sinistro avversario. Poi, quando fu quasi arrivato sul fondo, effettuò il cross che, però, non gli riuscì tanto bene. Infatti, non era uno di quei cross tesi e invitanti che fanno spesso le brave ali destre. No. Questo venne fuori invece come una specie di pallonetto sbilenco, sospinto a zig zag dal vento che continuava a soffiare in modo davvero prepotente.
Nell’affollata area di rigore tutti aspettavano con impazienza che scendesse finalmente quello strambo candelotto, anche se nessuno sapeva dove esattamente sarebbe andato a finire. Così continuavano a guardare tutti a faccia all’insù, facendo anche fatica a tenere gli occhi aperti, perché la pioggia incessante non lasciava molta visuale. Lo spilungone decise allora che doveva assolutamente farla sua quella palla, così uscì dalla porta e sollevò le braccia pensando che, essendo lui il più alto, tutti gli altri giocatori non avrebbero mai potuto arrivarci lassù. Questo pensò l’Ascenzio. E aveva ragione. La palla atterrò infatti proprio tra le sue mani. Ma era bagnata e viscida, sembrava una saponetta Camay. Così gli sfuggì e, carambolando tra le ginocchia, gli stinchi e le caviglie di tutti, approdò infine sul piede della mezz’ala destra dell’Olympia, il diciannovenne Giuseppe Lolli. Un piccolo colpo con il piatto del piede e il pallone saltellò dentro la rete. Fu goal. Un goal per niente bello a vedersi e invece bellissimo sotto tutti gli altri aspetti perché, pochi secondi più tardi, l’arbitro fischiò la fine della partita. L’entusiasmo fu incontenibile. I tifosi agnonesi abbandonarono immediatamente i loro posti sugli spalti, scavalcarono la rete e corsero ad abbracciare i propri beniamini neopromossi per la prima volta nella storia.
Il giovane bomber fu portato in trionfo come un eroe nazionale e anche Augusto Modica, proprietario del locale negozio di formaggi e da anni allenatore della squadra, ebbe il suo intenso momento di gloria, neanche fosse stato Vittorio Pozzo, l’allenatore dell’Italia ai mondiali del ’38.
In tutto quel guazzabuglio di grida, canti, slogan e strepiti, nessuno, proprio nessuno, si accorse dello sciagurato tifoso scoppitano il quale, fuori di sé per l’inaspettata e drammatica sconfitta della propria squadra, aveva appena scavalcato la recinzione dal lato opposto, si era diretto verso la bandierina del calcio d’angolo e l’aveva infine sradicata con forza dal terreno. Poi era andato a passo deciso verso il centro del campo, scartando la folla che stava festeggiando e finendo per piazzare la punta aguzza del bastone nel posteriore del povero don Giacinto che, in quell’esatto momento, stava abbracciando con ardore il medico rosso, del tutto incurante della loro profonda divergenza in fatto di fede e di credo politico.
1
8 dicembre 2016
La Fiat Multipla color azzurro metallizzato arrancava lungo la provinciale molisana numero ottantasei e Marco Canepa era sempre più convinto che l’impianto di riscaldamento di quella automobile avrebbe avuto bisogno di una bella revisione, perché lì dentro faceva davvero un gran freddo.
Il suo amico Giuseppe Lolli, titolare della birreria Il Fondo sul Lungomare Bettolo di Recco e proprietario di quell’antico e inospitale reperto meccanico, lo aveva invitato un’infinità di volte a visitare il suo paese natale in Molise e finora, per un motivo o per l’altro, lui non era mai riuscito ad andare.
Ma stavolta l’ispettore aveva pronunciato il sospirato sì e aveva deciso di prendersi sei giorni di ferie, lasciando ampie e rassicuranti disposizioni in ufficio.
«Non chiamatemi mai!» aveva ringhiato prima di uscire e il suo vice Bruno Tozzi, per tutta risposta, aveva subito alzato il dito medio in modo, in realtà, del tutto irrispettoso nei riguardi di un diretto superiore.
Marco si girò a guardare il suo autista. La barba leggermente bianca, i baffi ben curati, gli occhiali dalla montatura di metallo.
Giuseppe era un uomo alto e robusto, il viso buono, l’espressione serena. Teneva le mani sul volante e guardava sorridente la strada davanti a sé. Agnone, il luogo dove stavano andando, era il paese che lui aveva lasciato trent’anni prima e dove ancora vivevano i suoi genitori e le sue due sorelle, entrambe sposate con agnonesi doc. Lassù, a ottocento metri d’altezza sopra il livello del mare, c’erano tutti i ricordi di gioventù, le radici, i vecchi compagni di scuola. Ogni volta che ci tornava, sempre più di rado in verità, gli si riempiva il cuore di gioia e anche di un po’ di malinconia, ripensando a quando era partito da lì per trasferirsi a Genova.
«Ma che ci vai a fare lassù?» gli aveva chiesto sua madre.
«Vado da Rosa» aveva risposto lui, pensando alla bella genovese bionda che aveva conosciuto l’estate precedente al campeggio.
E poi a Genova c’era rimasto per sempre. Aveva rilevato l’attività di quel bel locale sul Lungomare, si era sposato con la sua innamorata, avevano avuto tre figli e Agnone era rimasto un ricordo, soltanto un ricordo, da coltivare ogni tanto, a sprazzi.
«Quando arrivano Rosa e i ragazzi?» domandò Marco, dopo aver starnutito un paio di volte.
«Licenze poche e corte in polizia, non te lo ricordi? Mio figlio Lorenzo, da quando è stato trasferito in Sardegna, ha pochi permessi. Stavolta gli toccano soltanto tre striminziti giorni, così Rosa e gli altri due figli lo passano a prendere domani a Civitavecchia, dove arriva con l’aliscafo, e poi vengono tutti qui.»
«Potevamo aspettare Lorenzo anche noi, no?»
«Scherzi? Una volta che finalmente hai mollato i tuoi assassini e sei venuto quassù, che fai non te la vedi la ’Ndocciata? E quella stasera c’è.»
«’Ndocciata…», bofonchiò poco convinto Canepa.
«Te l’ho già detto, è un rito antico che risale al tempo dei Sanniti. Una cosa bellissima.»
«Sì va be’, ma dagli una controllata a ’sto riscaldamento! Sto morendo di freddo, belin!», esclamò l’ispettore, arrotolandosi due volte la sciarpa intorno al collo, in un isterico moto di stizza.
Il paese sbucò all’improvviso, dietro l’ultima curva.
«Disteso come un vecchio addormentato. Non erano così le parole di quella canzone dei Ricchi e Poveri?» disse Giuseppe.
«Che sarà?»
«Sarà quel che sarà» aggiunse Lolli «Anche se, in effetti, per essere vecchio è proprio vecchio il paese mio che sta sulla collina. Addormentato, però, non lo so.»
L’auto seguì la ripida salita e si fermò infine sulla piazzetta, vicino ad una fontana di marmo.
«Quella è casa mia» disse Giuseppe, fissando imbambolato la palazzina di fronte, come se fosse una donna amata.
«Guarda lassù!» esclamò all’improvviso Marco, indicando il cielo. Il corpo luminoso stava passando a velocità pazzesca sopra di loro, sovrapponendosi alle nuvole che sembravano squarciarsi e decomporsi in migliaia di piccoli pezzi. Aveva la forma di un sigaro e lasciava una scia di un intenso colore verdognolo.
«È una cometa» sentenziò Giuseppe.
«Le comete non si vedono di giorno» rispose Canepa «Quello è un disco volante.»
«A forma di sigaro? Per me è una cometa speciale, di quelle che si vedono anche di giorno.»
«Non è una cometa. È un Ufo e sembra una grande zucchina matura» aggiunse il poliziotto, continuando a fissare la strana scia verde che colorava il cielo e poi si dileguava spedita verso l’orizzonte.
Gianna e Silvano Lolli, i genitori di Giuseppe, fecero loro grandi festeggiamenti. Abbracciarono il figlio e salutarono l’amico di cui lui gli aveva tanto parlato.
«Così lei è nato a Genova?» domandò Silvano.
«Ci siete mai stati?» chiese l’ispettore.
«Non mi sembra» proseguì l’anziano uomo, fissando sua moglie che però non disse nulla «La Liguria è lontana e poi Genova, per noi…»
«Genova per voi?» domandarono insieme Marco e Giuseppe, molto curiosi.
«E non lo so che cos’è esattamente Genova per noi molisani. Avevo pensato una cosa precisa, ma adesso non mi viene più in mente. Brutta cosa la vecchiaia, signor Canepa.»
«Non mi chiami signor Canepa, per favore» aggiunse l’ispettore con un sorriso «Un semplice Marco va più che bene.»
Il signor Silvano ricambiò il sorriso, afferrò dalla credenza una bottiglia di vino rosso casareccio e riempì i bicchieri fino all’orlo.
«Nettare dell’ultima vendemmia» disse, incoraggiandoli.
«Papà, ma sono le dieci di mattina!» brontolò Giuseppe.
«E allora? Dobbiamo aspettare mezzanotte per farci un goccetto?» rispose sorridendo l’anziano uomo, mentre donna Gianna aveva appena tirato fuori dalla dispensa un esercito di biscotti al burro fatti in casa.
2
Prima di pranzo Giuseppe volle portare il suo amico a fare una passeggiata al centro del paese. In via Marconi, si fermarono un momento a guardare il negozio OZ, le cui vetrine avevano l’effigie di un buffo mago con la barba bianca e una bombetta sulla testa.
«Articoli di magia?» domandò Marco.
«Vestiti per bambini» rispose Giuseppe «È qui da quando ero piccolo io, figurati un po’.»
«Disegno divertente. Mi piace» aggiunse l’altro, sorridendo. Raggiunsero poi una porticina colorata di nero e azzurro, che si affacciava sulla strada. Furono accolti da un signore gigantesco che avvinghiò Giuseppe all’istante.
«Compare!» gli ripeteva, baciandolo più volte sulla fronte e stringendolo con le robuste braccia. Solo dopo lunghi istanti di agonia, Lolli riuscì infine a fargli mollare la presa.
«Marco, questo qui non è Hulk, come potrebbe sembrare, ma il mio amico Jacopo Ciaramella, ex ala frizzantina di fascia e oggi illustre presidente dell’Inter Club. Qui da noi è una star, meglio di Monica Bellucci.»
«Bellucci una ceppa!» commentò Ciaramella «I presidenti sono quelli che, quando ci stanno gli impicci, finiscono dentro. Prima ero vicepresidente e mi sa che era meglio se restavo così.»
«Invece adesso il vicepresidente sono io» spiegò il carabiniere tracagnotto che si era appena affacciato dalla porta sul retro, con una bottiglietta di chinotto tra le mani.
«Buongiorno Pasquale!» disse Giuseppe «Come andiamo?»
«E come vuoi che andiamo? Mi annoio tantissimo in mezzo a questi paesani lenti. Io sono sempre stato molto più rock come tu ben sai, molto più rock.»
«Come diceva Celentano?» esclamò sorridendo Canepa.
«Esattamente così, mio caro signore il cui nome mi sfugge» confermò il maresciallo.
«Questo signore dal nome sfuggente è il mio amico Marco Canepa, rinomato ispettore di polizia genovese. Ha risolto più casi lui dell’ispettore Maigret.»
«Dai, Giuseppe, così mi fai arrossire…»
«E invece questo carabiniere rock che adesso ha la bocca spalancata e l’espressione da cretino totale, è il nostro esimio maresciallo Pasquale Conte» proseguì ancora Lolli, facendo le presentazioni di rito «Lui rappresenta le rassicuranti forze dell’ordine di Agnone, insieme ai suoi validi collaboratori, s’intende. Quanti agenti hai adesso in servizio?»
«Lascia perdere che stanno quasi tutti in ferie, mannaggia all’otto dicembre, mannaggia. Dei sette uomini che abbiamo di solito, me ne sono rimasti solo tre.»
«Siamo rimasti in tre, tre briganti e tre somari sulla strada longa longa di Girgenti...» si mise stavolta a cantare il Ciaramella, citando a modo suo una vecchia canzone di Domenico Modugno.
«Hai visto, Giusè?» commentò il maresciallo «Il nostro presidente dell’Inter Club, scemo era e scemo resta. Qui ad Agnone non cambia mai niente.»
«E Sisina, Pasquà?» domandò Giuseppe.
«Anche mia moglie Sisina è diventata scema, purtroppo» rispose Conte «Scema per il nipote, s’intende. Da quando è nato Rocco lei non fa altro che scendere giù a Napoli a trovare nostra figlia Assunta e a viziare quella povera creaturina. Starà fuori una settimana intera e allora io ho chiuso casa e mi sono trasferito a vivere nella monocamera che sta sopra all’ufficio. Non sto male, in verità. I ragazzi mi viziano e il brigadiere Spinelli cucina anche degli ottimi maccheroni sciuè sciuè. Cosa volere di più dalla vita?»
«Che fate di preciso in questo club?» domandò Canepa.
«Guardiamo le partite dell’Inter, naturalmente» rispose il presidente «E ogni tanto, durante la stagione, organizziamo qualche autobus per andare a vedere allo stadio di San Siro o in giro per l’Italia gli incontri più importanti.»
«Però, negli ultimi anni, a queste attività, si sono affiancate delle altre cose, no?» aggiunse serio il maresciallo, mentre il suo occhio sinistro prese all’improvviso a ballonzolare.
«E cioè?» Canepa era incuriosito sia dall’occhio in movimento, sia da quanto gli stava dicendo il maresciallo. Che cos’altro si poteva fare di così importante in un club per tifosi di calcio?
«Qui da noi c’è un problema serio di alcolismo giovanile e anche di droga. Noi proviamo a fare qualcosa» disse subito il carabiniere «Organizziamo incontri con i ragazzi, magari dopo la partita. A volte invitiamo esperti del settore specifico.»
«È vero» intervenne Giuseppe «C’ero pure io quella volta che, dopo Inter-Atalanta, venne lo psichiatra di Campobasso a spiegare gli effetti dell’alcol e delle canne sul cervello dei minorenni.»
«E poi c’è, naturalmente, il centro immigrati» disse ancora il Ciaramella.
«Immigrati?» bofonchiò spiazzato Canepa.
«Nell’ambito dei vecchi accordi con Mare Nostrum e cioè delle operazioni di salvataggio in mare dei migranti, abbiamo ospiti in paese una quarantina di giovani africani. Ci sono certi ragazzini neri, dovrebbe vedere come corrono sulla fascia, ispettore! Io non ho avuto figli, purtroppo, e, insomma, mi sto dedicando un po’ a loro.»
«In che modo esattamente?»
«Cerco di dare una mano come posso, comprando loro vestiti, ad esempio o anche cose da mangiare. Lo sa che non conoscevano niente? Doveva vedere le loro facce entusiaste, quando hanno mangiato per la prima volta il nostro caciocavallo! E poi sono anche un po’ egoista, calcisticamente parlando, s’intende. Più stanno bene e più corrono in campo» concluse il presidente, ricordando di quando quel tipo di corse le faceva lui da ragazzo.
«A proposito di correre. Fatemi tornare in caserma che quei tre, quando stanno da soli, combinano sempre qualche casino» disse il maresciallo, consegnando infine tra le mani del Ciaramella la bottiglietta vuota del chinotto e uscendo velocemente dal locale.
Jacopo guardò per un istante la bottiglia, scuotendo la testa.
«È forte il maresciallo» commentò Canepa «Ma l’occhio?»
«Balla un tantino, è vero, ma non sempre, solo quando parla di cose serie. È un vecchio problema giovanile, per un intervento in tuffo fatto su un campo da calcio tanti anni fa, per bloccare un tifoso troppo irruento» spiegò Giuseppe.
«In tuffo?» biascicò Canepa, non riuscendo a capire bene.
Ciaramella intanto stava tirando fuori da un armadietto una bottiglia di vino.
«Adesso dovete provare questo», disse poi, con un gran sorriso.
«Nettare dell’ultima vendemmia?», domandò il genovese, ormai rassegnato.
3
Subito dopo la visita al circolo sportivo, i due amici, un po’ provati in realtà dai numerosi bicchieri buttati giù durante la mattinata, imboccarono corso Vittorio Emanuele e, fatti pochi passi, si ritrovarono di fronte al teatro Italo-Argentino.
«Costruito negli anni Venti, con i soldi mandati dagli agnonesi emigrati in Argentina» spiegò Giuseppe «I nostri concittadini, in realtà, sono sparsi in tutto il mondo. Io, per esempio, ho dei cugini in Canada, vicino a Toronto. Tutti e tre i miei figli sono già andati a trovarli. Magari un giorno ci vado anch’io, oppure ci andiamo insieme, che dici?»
«Perché no? In Canada si sono rifugiati un sacco di mafiosi calabresi e di assassini, così mi tengo in allenamento» rispose Marco.
Raggiunsero poi la chiesa di Sant’Emidio un istante prima dell’inizio della messa. Trovarono spazio su una panca collocata lungo una delle pareti laterali, vicino a due anziane signore che, dopo aver fatto finta di niente, alla fine capirono l’antifona e si strinsero un po’, spostando con studiata lentezza i loro pingui posteriori. Guardandosi intorno, Canepa notò che, in fondo alla chiesa, c’era un folto gruppo di giovani di colore. Pensò che dovesse trattarsi dei rifugiati ospiti del paese, quelli di cui aveva parlato il Ciaramella. Fu proprio a loro che l’anziano parroco dedicò parte della predica, subito dopo la lettura del Vangelo.
«Qui ad Agnone siamo riusciti a metterla in pratica l’ospitalità e sono sicuro che nostro Signore sarà molto contento perché questa è un’ospitalità concreta, così come è stata concreta la sua verso coloro che non avevano nulla, verso gli emarginati e anche verso quelli che lo avevano rifiutato, come ad esempio i samaritani. Questo è lo stile di vita portato da Cristo su questa terra e chiunque oggi accoglie uno straniero, forse non lo sa, ma sta accogliendo un angelo.»
Terminata la funzione Giuseppe si fermò a salutare decine di persone, mentre il suo amico lo aspettava in disparte, osservando con curiosità l’imponente organo a canne che troneggiava come un