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Nemesi: Le lacrime della vendetta
Nemesi: Le lacrime della vendetta
Nemesi: Le lacrime della vendetta
E-book442 pagine6 ore

Nemesi: Le lacrime della vendetta

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Info su questo ebook

Nemesi prende il via in una Milano governata da strane forze occulte; il nuovo protagonista Ian Walsh dalla penombra di una cella, osservava  il volto della sua cliente.
I processi alle streghe erano un triste ricordo di un periodo buio e tormentato, ma ripetere gli errori del passato era sempre stata una prerogativa dell’uomo. Nemesi aveva infranto le regole dell’Ordine, era compito di Ian salvarla da morte certa.

L’autore – da sempre amante del genere fantasy, avido lettore, vincitore di numerosi premi letterari – è conosciuto anche in numerose scuole italiane dove ha incontrato e appassionato moltissimi lettori grandi e piccoli organizzando incontri e premi letterari per trasmettere la sua passione per la scrittura e il racconto.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2021
ISBN9791220806558
Nemesi: Le lacrime della vendetta

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    Anteprima del libro

    Nemesi - Elvio Ravasio

    Ci sono due tipi di dolore,

    quello che fa male

    e quello che ti cambia.

    Dello stesso Autore presso le nostre edizioni:

    Medioevo, il futuro è la porta, il passato la chiave

    La saga Le Cronache dei Cinque Regni

    I Guerrieri d’Argento

    Altèra

    Ombre dal Passato

    Kiria

    www.gribaudi.it

    Piero Gribaudi Editore srl

    Via C. Baroni, 190

    20142 Milano

    Tel. 02-89302244 - Fax 02-89302376

    e-mail: info@gribaudi.it

    Gribaudi Narrativa

    @GriNarrativa

    Elvio Ravasio

    LE LACRIME DELLA VENDETTA

    Romanzo URBAN FANTASY

    GRIBAUDI

    Proprietà letteraria riservata

    © 2021 Piero Gribaudi Editore srl

    Via C. Baroni, 190 - 20142 Milano

    ISBN 978-88-6366-349-5

    Prima edizione: maggio 2021

    Copertina: Livia De Simone

    Illustrazioni: Fabio Porfidia, Livia De Simone

    Immagini di proprietà dell’autore

    Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale

    Stampa: Grafiche VD - Città di Castello (PG)

    1

    Le fiamme ardevano sinuose in una danza ammaliante.

    Ian appoggiò il bicchiere sulla trave di legno sopra il camino. Si diresse verso la cucina e prese la bottiglia di Brunello di Montalcino, che conservava da tre anni nella cantina temperata. La bottiglia delle grandi occasioni, riposta con cura in attesa del momento. Il momento era arrivato quel pomeriggio, forse la battaglia più estenuante della sua carriera, ancora gli rimbombavano in testa quelle parole che gli parvero scandite con lentezza esasperante.

    «Colpevoli per tutti gli otto capi d’imputazione.»

    Un processo protratto per quattro lunghi interminabili anni, una sentenza che sapeva avrebbe cambiato la sua vita professionale, ma in quel momento non voleva pensare al meticoloso lavoro di ricerca, all’accurata investigazione, ai ricatti subiti, alle porte sbattute in faccia, all’omertà e alle intimidazioni. Ora voleva solo godersi la sua fottuta bottiglia di Brunello in santa pace. Premette sul telecomando dello stereo e l’opera 21 di Beethoven riempì la stanza con nitidezza cristallina.

    Recuperò il calice, lo inclinò e, con accorta maestria, lasciò scivolare il liquido sanguigno sul sottile cristallo, ammirandone il colore intenso.

    La sua poltrona preferita sembrava invitarlo, disposta a quarantacinque gradi rispetto al camino, volgeva a nord, dalla finestra poteva osservare il verde del parco Ravizza e il nuovo complesso dell’Università Bocconi. La poltrona era un regalo della sua ex, il loro rapporto finì senza lode e senza infamia il primo giorno di primavera del 2019. Nemmeno ricordava il motivo del litigio che troncò la loro relazione ma ricordava con esattezza la data, era il 20 marzo di due anni prima. Alla richiesta di restituire la poltrona gli vennero i brividi ai polpacci, e non gli era mai capitato di averli in quella zona. Preferì lasciarle la macchina appena comprata, il top di gamma della FIAT 500X. Nel cambio ci aveva sicuramente perso ma ne avrebbe comprata un’altra, quella poltrona invece era insostituibile ed esercitava una sorta di malia che gli impediva di privarsene. Un’attrazione che Teresa, la sua ex, conosceva molto bene e che lui sapeva aver sfruttato per accaparrarsi la macchina.

    Non gli importava, sprofondò nel cuscino imbottito godendo della seduta avvolgente, e iniziò a sorseggiare il vino. Chiuse gli occhi concentrandosi sull’udito, sul gusto e sull’olfatto. Il tempo sembrò rallentare e ogni percezione divenne più intensa, il crepitio del camino si legò con le magiche note del compositore tedesco. Il profumo fruttato e il sapore intenso del Brunello lo rapirono. In quell’estasi di sensazioni inebrianti gli parve di aver vissuto la sua vita solo per gustarsi quel breve momento di smisurata gratificazione. Aveva vinto, null’altro importava. Quattro anni di battaglie legali su cui nessuno dei suoi colleghi avrebbe scommesso un euro. All’uscita dal tribunale le congratulazioni ebbero un tono quasi reverenziale, ammirazione e invidia sui volti tirati dei presenti, attimi indelebili impressi nella sua memoria.

    Un refolo inaspettato d’aria fredda lo distolse dall’estasi, riaprì gli occhi e appoggiò il bicchiere sul tavolino accanto alla poltrona. Le luci erano spente, il fuoco lambiva l’oscurità, tutto il resto era tenebra. Si alzò e un fremito gli percorse la schiena. Beethoven si era zittito, pace all’anima sua, ma non riusciva a scacciare quella tetra oppressione che gli chiudeva la bocca dello stomaco. Scorse lo sguardo lungo le pareti e vide una tenda ondeggiare, osservò il termometro a muro. Indicava una temperatura esterna di quattro gradi, l’interno non era da meno e il camino non sembrava mitigare l’improvviso gelo. Chiuse la finestra e un effluvio di lavanda lo colse all’improvviso, così intenso da stordirlo.

    Si appoggiò qualche secondo al muro ignorando il fatto bizzarro, prese il cellulare dalla tasca e illuminò l’ambiente. Si diresse in corridoio, verso il contatore della luce nascosto da un quadro fissato al muro con due cerniere: lo aprì. Le leve del pannello elettrico erano in posizione corretta, osservò dalla finestra ma le case vicine erano illuminate.

    Si sporse dal davanzale, tutto normale, era l’unico ad aver avuto il black out. Affacciarsi in camicia lo aveva intirizzito ancora di più, si strofinò le mani sulle braccia e sulle gambe, ma la situazione non migliorò.

    «Ci manca solo che sia saltato il riscaldamento per rovinarmi una serata perfetta» disse dirigendosi in camera per prendere un golf. Indossò quello verde con grosse trecce sul davanti. Tornò in sala mentre anche il telefono lo abbandonava.

    «Ma che cavolo succede? Era carico fino a pochi minuti fa.»

    Raggiunse il camino e protese le mani per scaldarsi, di nuovo l’odore di lavanda. Inclinò la testa e per poco non gli venne un infarto, arretrò scoordinato e inciampò nel porta attrezzi del camino finendo rovinosamente a terra. D’istinto prese l’attizzatoio e lo allungò dinanzi a sé in segno di monito.

    «Chi siete voi?» balbettò indietreggiando con le chiappe indolenzite verso il divano. Il braccio gli sanguinava ma il terrore prevaleva sul dolore. «Cosa volete?»

    Tre figure lo fissavano, le braccia conserte sparivano nelle maniche di un saio nero che cadeva morbido lungo il corpo. Il cappuccio e l’oscurità celavano i volti fino alla bocca, solo il mento riverberava alle fiamme danzanti.

    «Sangue chiama sangue» disse quello in mezzo, più alto di una spanna rispetto agli altri due. A quelle parole Ian fece un altro saltello indietro e cercò di mettere a fuoco gli intrusi, che avanzavano nella sua direzione.

    «Non vi azzardate, un altro passo e vi stendo col ferro» non ci credeva nemmeno lui ma qualcosa doveva pur dire, certo la paura non lo aiutava a scegliere frasi a effetto. Indietreggiando aveva raggiunto il muro ed era in trappola, l’attizzatoio sempre ben alto sulla guardia. Di tanto in tanto osava anche rotearlo, a volte in senso orario altre antiorario, per poi tornare in posizione statica. In quel modo gli sembrava di essere più minaccioso.

    «Siete frati?» chiese invocando una remota possibilità che uomini di chiesa non gli avrebbero mai fatto del male.

    «Non proprio, Ian San» rispose quello di sinistra, il più grassoccio dei tre, ostentando un tono cupo e atono.

    Ian San? Nessuno lo chiamava così dai tempi dell’università e solo pochi intimi conoscevano quel nomignolo. Aveva capito, era uno stupido scherzo e aveva abboccato ingoiando esca, amo, lenza e anche la canna.

    «Forza ragazzi» continuò abbassando l’attizzatoio, raddrizzando le spalle ed esibendo un tono più sicuro «ora basta, mi avete davvero terrorizzato con questa idiozia stile inquisizione, devo ammetterlo, a chi è venuta in mente? E come accidenti vi siete vestiti? Leo sei tu?» disse rivolto a quello di destra con il mento appuntito.

    Fu sempre il più alto a parlare.

    «Otto giorni da oggi, verremo a prenderti. Risponderai alla chiamata. L’Ordine contro Nemesi. La legge è il codice e il codice è la legge.»

    Ian rialzò l’attizzatoio, la sua voce tornò incerta e uscì strozzata «Ma quale Ordine? Chi è Nemesi? Quale chiamata? Quale codice?»

    Le tre figure si fecero vicine e il grassoccio estrasse dalle maniche un manufatto piatto e rotondo, del diametro di una lattina, attaccato a una cordicella. Ignorando l’attizzatoio lo mise al collo di Ian che non riusciva a muovere un muscolo. Era un intreccio di piccole radici, fiori ed erbe che non conosceva ma emanava un gradevole profumo. Immobilizzato contro il muro cercava di deglutire ma la salivazione era scomparsa; la bocca impastata gli ricordava qualcosa di simile al deserto del Sahara e percepiva la lingua penzolare di lato senza vita. Un’escrescenza inutile e alquanto fastidiosa.

    «Tra otto giorni. Leggi il codice!» disse il grassoccio lasciando cadere un pesante volume sul tavolino.

    «Leggi il codice» ripeterono all’unisono arretrando nella penombra. Ci fu un lampo e Ian crollò a terra in ginocchio.

    Beethoven tornò a riempire il silenzio e a mitigare in piccola parte lo sgomento. Ian riprese il controllo della lingua e le luci si riaccesero, tranne quella nell’angolo in sala, sulla parete vicino alla libreria dove erano scomparsi i tre frati, o quello che erano. Non riusciva ancora a spiegarsi e a razionalizzare l’accaduto. Prese un bel respiro e cercò di calmarsi ma si sentiva debole e le gambe gli tremavano. Provò ad alzarsi appoggiandosi al bracciolo del divano, un gesto semplice quanto faticoso che gli riuscì a malapena. Si sedette sul sofà e la stanza iniziò a girare vorticosamente, poi il buio.

    Le prime note di I will survive accompagnarono un leggero turbamento all’inguine di Ian mentre riprendeva contatto con la realtà. Socchiuse gli occhi cercando di sopportare le lame di luce che filtravano dalla finestra. La stanza era sottosopra, o meglio, le sue gambe erano a cavalcioni dello schienale del divano e la sua testa penzolava verso il pavimento. Il tono crescente della musica lo infastidiva e quella vibrazione alle parti basse non migliorava l’emicrania. Infilò la mano in tasca e prese il cellulare mentre Gloria Gaynor cantava ormai a squarciagola. Lanciò un’occhiata al display, era mezzogiorno e il viso di sua madre riempiva lo schermo.

    «No, ti prego. Non ora» chiuse la chiamata senza rispondere e scivolò sul tappeto a terra. Il braccio gli doleva, il sangue si era seccato ma il taglio sull’avambraccio sembrava profondo. Si mise a gattoni e proseguì a quattro zampe fino alla porta del bagno, si alzò aggrappandosi allo stipite di legno, raggiunse la vasca e aprì l’acqua. Prese un antidolorifico dall’armadietto e lo buttò giù d’un fiato poi tornò in salotto e si sedette sulla poltrona.

    Chiuse gli occhi per qualche secondo senza ricordare il perché fosse in quello stato, ricordava la musica, il vino, il camino, l’attizzatoio e poco altro. Poi un flashback. Si voltò di scatto verso il tavolino e lo vide.

    Un libro che sembrava aver vissuto più epoche di quelle che avrebbe potuto raccontare, la rilegatura in pelle presentava alcune bruciature. Una più estesa che prendeva la parte vicino al dorso e occupava quasi metà della copertina. Altre più piccole che ricordavano lo spegnimento di una sigaretta. Spruzzi di unto sulla facciata e un profondo taglio nell’angolo in basso.

    Non può essere successo davvero. Lo guardò in tralice e iniziò a ricordare. Allungò una mano quasi fino a toccarlo ma la ritrasse e si avviò verso il bagno. La vasca era pronta e non vedeva l’ora di entrarvi e svuotare la mente. Prima di immergersi versò dei sali al gelsomino e si tolse i vestiti. Nel farlo urtò il manufatto che aveva al collo e che, fino a quel momento, aveva segregato nel suo subconscio tra non è possibile e adesso mi sveglio da quest’incubo. Provò a toglierselo ma non riusciva a staccarselo dal petto per più di due dita. Cercò di tagliare il cordoncino che lo reggeva con delle forbici, senza riuscirvi. Scosse la testa come se una mosca gli ronzasse intorno e controllò che l’acqua non fosse troppo calda, rimandando la questione a dopo. La temperatura era perfetta, il taglio bruciava ma ci avrebbe pensato in seguito, si immerse lasciando fuori solo il volto e chiuse gli occhi.

    Un bagliore gli riportò alla mente le tre figure incappucciate e una frase iniziò a martellargli in testa: Leggi il codice.

    Si sedette alzandosi di scatto e ansimando come se avesse fatto sei piani di corsa. Il telefono rimasto in sala tornò a squillare con il solito impeto crescente, quella canzone del ’78 gli ricordava Thea. Il suo primo lento in discoteca, abbracciati come se il domani non avesse importanza; le braccia di lei attorno al collo, il suo profumo inebriante. Non aveva idea di cosa fosse l’amore ma doveva essere qualcosa di molto simile a quello che provò in quel momento.

    La sera del 16 maggio un incidente gliel’aveva strappata via di prepotenza, senza dargli il tempo di capire il senso di una vita rubata troppo presto. Un fiore reciso con ingiustificata crudeltà.

    Il giorno del funerale aveva indossato gli stessi vestiti del loro primo incontro, la maglietta nera con la lingua dei Rolling Stones e i jeans sdruciti. Nessuno riuscì a convincerlo a indossare l’abito buono, nemmeno sua madre. Il dolore fu ingestibile. Sei anni in analisi e oggi, a distanza di decenni, il telefono gli ricordava ancora quel primo incontro. Ripensò agli occhi di lei: al color ambrato di un cognac costoso, con sfumature che ricordavano il miele d’acacia, incorniciati da una cascata di riccioli neri. Ricordò la prima volta in cui i loro sguardi si incrociarono, perdendosi l’uno nell’altro: il tempo sembrò rallentare, la musica affievolire, il mondo svanire in una nuvola di sensazioni epidermiche e sensoriali mai vissute fino a quel preciso istante. Nello stomaco non sentiva farfalle ma una mandria di bufali che gli calpestava ogni organo, riducendolo in poltiglia.

    Fece un bel respiro e si staccò malinconico da quel tuffo nel passato. La suoneria si era zittita, sapeva di dover richiamare sua madre, ma non subito.

    Si era ripromesso che alla fine del processo avrebbe preso una settimana di vacanza e non era sua abitudine mancare a un impegno. Neppure con se stesso.

    Leggi il codice continuò a martellare la voce nella sua testa. Si medicò il braccio con del disinfettante, una garza sterile bloccata con del cerotto e tornò in sala. Il telefono ancora illuminato era vicino al libro, non ricordava di averlo lasciato lì ma erano parecchie le cose che non ricordava delle ultime ore. Prese il tomo dal tavolino, si sedette sulla poltrona e lo poggiò sulle gambe. Accese la lampada a piantana e aprì il volume. Saltò il primo paragrafo scritto in latino e continuò da metà pagina, il linguaggio era arcaico. Notava una traduzione approssimativa. Un goffo tentativo, non sempre accurato, di renderlo comprensibile. A tratti riprendevano alcune frasi in latino che rimandavano a note consunte, quasi indecifrabili e in una lingua che non riconosceva.

    Sfogliò diverse pagine che rimandavano a leggi e regole risalenti, forse, al III-IV secolo d.C. Ricordava vagamente alcune letture universitarie sul diritto romano. Ma che senso aveva leggerlo? Continuò senza trovare una risposta. Come se qualcosa lo spingesse ad andare avanti suo malgrado. In due giorni finì le circa trecento pagine, digiunando e dormendo solo poche ore. Il corso di lettura veloce che aveva frequentato prima dell’università non gli era servito a molto. Troppe frasi in latino e pagine consunte, appena leggibili.

    Si alzò dalla poltrona sfinito e affamato, ripose il volume sul tavolino e andò in cucina. Si sentiva leggero, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco, che invece continuava a contorcersi e a brontolare. Divorò tre banane, due yogurt, un pezzo di formaggio grana e un paio di carote. Non c’era altro in frigo.

    Aprì la finestra e prese una boccata d’aria fresca, il sole splendeva e la temperatura si era alzata di parecchi gradi, due rondini volteggiarono vicino al cornicione. Sentiva le gambe intorpidite: prese il cappotto, il cappello e uscì a fare una passeggiata svuotando la mente dalle cose assurde accadute nelle ultime quarantotto ore.

    2

    Ian attraversò la strada, salutò la vicina del piano di sotto che trascinava il carrello della spesa e si fermò a prendere un caffè al nuovo bar, installato da poco a fianco del parco. Bevve con calma gustandosi l’aroma della miscela arabica fumante, amava prendersi quei piccoli momenti e apprezzare le piccole sfumature di una vita frenetica. Uscì e si sedette su una panchina del parco. A qualsiasi ora gli era capitato di trovarsi nei paraggi c’era qualcuno che correva: ragazzi, uomini, donne, un via vai eterogeneo di persone sempre di corsa. Forse per questo, stare seduto in mezzo al verde lo appagava, il mondo girava frenetico e lui poteva godersi un attimo di quiete e osservare.

    Un’abitudine che praticava fin da piccolo. Aveva divorato tutti i libri di Sherlock Holmes apprezzandone l’accuratezza delle descrizioni e la dovizia di particolari che solo il protagonista sembrava scorgere.

    Due ragazzi amoreggiavano sull’erba, incuranti del pubblico circostante. Un anziano percorreva il vialetto con il suo barboncino al guinzaglio. Una giovane ragazza digitava sul cellulare a una velocità impensabile per lui che usava la tastiera virtuale premendo una lettera alla volta. Scrutava ogni angolo del parco in cerca di dettagli che componevano il puzzle, uno scenario che si ripeteva ogni giorno, quasi costante nelle dinamiche ma alterato nei protagonisti.

    Una grossa quercia attirò la sua attenzione, era insolitamente più scura degli altri alberi e alcuni rami sembravano protendersi verso una giovane coppia che stava litigando. Gli parve di vedere una figura incappucciata semi nascosta dal fusto. Si sfregò gli occhi e quando li riaprì la coppia si era divisa prendendo strade diverse ma nessuna traccia di quella fugace apparizione. Il petto iniziò a prudergli, si sbottonò la camicia e vide il manufatto brillare, non aveva più pensato a quel coso di rami sul suo petto fino a quel momento. Provò a spostarlo ma sembrava incollato alla pelle e brillava sempre più, lo nascose con la giacca per non farsi notare. Il prurito aumentava e iniziava a preoccuparsi, si alzò e si avviò a passo spedito verso una zona meno frequentata. Si grattò fino quasi a scorticarsi la pelle ma il fastidio non accennava a diminuire. Era in stato di panico e lo sapeva, aveva già vissuto quella situazione molti anni prima: respirava con affanno, muoveva a fatica il braccio sinistro, un formicolio crescente insidiava la parte destra del corpo e la vista iniziava ad annebbiarsi. Un’ombra gli passò di fianco e il panico si tramutò in isteria, arretrò d’istinto spalancando la bocca, non riuscì a emettere un suono ma inciampò in un cordolo malmesso e finì a gambe all’aria. Picchiò la testa sul marciapiede.

    «Signore, mi sente?»

    Certo che ti sento, non sono mica sordo, pensò senza rendersi conto che era ancora in stato di incoscienza.

    «Sollevatelo piano e mettetelo sulla barella» continuò la voce.

    Quale barella? Di che accidenti parlate? Con uno sforzo dettato dalla disperazione riuscì ad aprire gli occhi e la scena che vide lo raggelò.

    Fluttuava a due metri da terra e stavano mettendo il suo corpo dentro l’ambulanza, una chiazza di sangue sporcava il marciapiede e almeno una trentina di persone si erano raggruppate attorno alla zona. Una macchina della polizia si era appena fermata, due agenti erano scesi e iniziavano a fare domande sull’accaduto ma nessuno dei presenti si era reso conto di quello che era successo. Le risposte erano vaghe ed elusive. Ci mancava solo che disegnassero per terra una sagoma con il gesso, ma la scena era di per sé abbastanza grottesca anche senza.

    «Raccapricciante, vero?»

    Ian si voltò verso la voce e una faccia bonaria gli allargò un sorriso a trentadue denti. La barba bianca mitigava un’espressione viva e attenta. Due occhi azzurro cielo, che non rispecchiavano l’età apparente, lo fissavano curiosi. Il saio era inquietante, stessa forgia degli intrusi in casa sua e la cosa non prometteva nulla di buono, nonostante i trentadue denti bianchissimi.

    «Lo so, ci si deve abituare. Ma una volta razionalizzato diventa interessante capirne la meccanica.»

    «Sono morto?» chiese Ian con voce tremante.

    «Dipende cosa intendi per morto.»

    «Quella cosa che uno non respira più e il cuore si ferma» rispose aggrottando le sopracciglia.

    «Ah, quella. No, non sei morto.»

    I trentadue denti mostrati dopo ogni risposta iniziavano a infastidirlo, si potevano contare uno per uno. Non era un sorriso naturale, nemmeno se fosse davvero morto e il suo interlocutore fosse stato un dentista.

    «Allora cos’è questo?» chiese indicando se stesso scorrendo i palmi dal petto al bacino.

    «È lo stesso di questo.» L’interlocutore ripeté il gesto con più enfasi su se stesso.

    «Mi stai prendendo per il culo?»

    «Giusto un po’. Non lo trovi divertente?»

    «Ho l’espressione di uno che si sta divertendo?» disse Ian stringendo i pugni.

    «Effettivamente non molto, un vero peccato. Pensavo fosse più esilarante conversare con un avvocato.»

    «Prendi appuntamento e paga la parcella, poi ne riparliamo. Chi sei e cosa ci faccio qui?»

    «Chi sono non ha importanza, appaio quando schizzate fuori dai corpi. E pensare che con un po’ di concentrazione potreste farlo prima di colazione, o dopo cena. Invece no, aspettate il trauma cranico per esplodere come una banana schiacciata da un camion.»

    «L’analogia fa pena, ho avuto due giorni da schifo, ho letto un codice pieno di leggi assurde che mi si è stampato in mente e mi sono rotto la testa. Ora spiegami dov’è il senso di trovarmi qui» finì il discorso strizzando gli occhi e mordendosi le nocche della mano.

    «A dire il vero non me lo sono mai chiesto perché schizzate fuori dai corpi, mi mandano a tenervi compagnia ma a breve rientrerai nel tuo patetico involucro e ti dimenticherai ogni cosa. Al prossimo trauma balzerai fuori di nuovo e rifaremo questa discussione come se fosse la prima volta. Usciti una volta diventa automatico, può succedere anche nel sonno, durante un incubo, ed è stancante tornare sempre ad assistervi. Li ho contati sai, sono circa venti milioni i casi in cui sono intervenuto.» I denti erano scomparsi, lo sguardo abbassato e la mandibola contratta.

    Ian percepì l’afflizione nel tono della voce, gli si avvicinò e un lieve effluvio di lavanda acuì i suoi sensi.

    «Cos’è questo profumo?»

    «Non ne ho idea, non uso profumo».

    Ian insistette. «Non la senti anche tu la lavanda?»

    «Non sento nulla, non percepisco né sapori né odori, mi spiace.»

    «Hai detto che qualcuno ti manda, chi è?» continuò sospettoso.

    «Informazione riservata, segreto professionale. Da avvocato dovresti sapere come funziona.»

    «A cosa servi se non mi dici niente? Hai detto che dovevo razionalizzare la dinamica, quale sarebbe?»

    «La paura.» La presenza incrociò le dita e prese a girarsi i pollici.

    «Paura di cosa?»

    «Della morte è ovvio. È un meccanismo di difesa, sei svenuto e non conosci l’entità del danno alla testa. Lo shock produce un’enorme quantità di energia che viene liberata, diventi un osservatore esterno e valuti la situazione. Niente di grave? Rientri. Danno letale? Trovi qualcosa o qualcuno a cui donare la tua energia e il cerchio della vita si chiude.»

    Ian soppesò quelle parole con attenzione prima di rispondere. Guardò in basso e si accorse che, malgrado non si stesse muovendo volontariamente, si trovava sempre sopra l’ambulanza che sfrecciava nel traffico. «Ho capito, una cosa tipo Il re leone.» rispose con un ghigno. «E tu li accompagni? Se muoiono intendo.»

    «A volte me lo chiedono, altre preferiscono cercare la loro strada. Non interferisco se non è necessario.»

    «Capisco.»

    «Non preoccuparti, ti stanno rianimando, a breve ti sveglierai e non ricorderai nulla di tutto questo.»

    Ian vide la presenza divenire traslucida e svanire nella nebbia mentre una forte attrazione lo trascinava verso l’ambulanza.

    «Eccolo, è con noi. Come si sente?» a parlare fu un volto paffuto con le guance arrossate. La voce non era sincronizzata con il movimento delle labbra, gli arrivava in ritardo ma comprendeva ogni cosa. «Quante sono queste?» disse il medico alzando due dita.

    Tre secondi dopo «Due.» La risposta fu un sussurro ma era esatta. Poi vide le dita grassocce avvicinarsi alla sua faccia e premere sulle palpebre per tenerle in posizione aperta, una luce fastidiosa lo abbagliò. Gli rimbombava in testa la parola sangue ma non aveva idea del perché.

    Il fastidioso suono della sirena cessò e il portellone si aprì, movimenti veloci e professionali spostarono la lettiga. Il cielo terso gli illuminò il volto per qualche secondo, giusto il tempo di entrare in un largo corridoio che odorava di disinfettante. Non amava le luci al neon, e quelle che illuminavano il percorso producevano una vibrazione che lo infastidiva. Una curva secca della lettiga gli procurò un capogiro, si aggrappò con le mani ai bordi, gli infermieri lo tenevano ma la sensazione era che stesse cadendo.

    Il simbolo delle radiazioni sulla porta era chiaro, gli avrebbero fatto una lastra per valutare il danno alla testa. Subiva ogni cosa senza interagire o quasi, l’emicrania e i giramenti lo stordivano. Sangue chiama sangue, la stessa frase di pochi giorni prima, ma non aveva mai preso in considerazione che il sangue potesse essere il suo.

    Rabbrividì al contatto con il ferro del lettino sul quale lo avevano spostato, il radiologo gli intimò di non muoversi mentre posizionava il macchinario dietro la nuca e gli metteva una coperta di piombo sul petto. L’addetto uscì dalla sala e un breve ronzio ruppe il silenzio per qualche secondo.

    Due infermieri entrarono subito dopo, lo presero per braccia e gambe e lo rimisero sulla barella, quindi lo parcheggiarono in corridoio. Chiuse gli occhi e provò a riposare un po’.

    «Come si sente?»

    Ian si svegliò di soprassalto e si aggrappò ai bordi del lettino. Il volto del medico gli sorrideva: le sopracciglia folte sovrastavano due occhi azzurro cielo e la calvizie incipiente invecchiava un volto gradevole. Uno sguardo vivido e la pelle liscia tradivano però l’apparente mezza età.

    «Stia tranquillo, sono il dottor Allegri. Ora le faremo una risonanza magnetica per accertarci che sia tutto a posto, se non ci sono complicazioni la terremo in osservazione per qualche ora e poi potrà tornare a casa.»

    Ian rilassò le braccia mollando la presa e regolò il respiro.

    «Dove mi trovo?»

    «Al policlinico, in traumatologia. È svenuto e ha preso una bella botta alla testa, non sembra ci siano complicazioni ma sarò più preciso dopo la risonanza. Accusa qualche disturbo?»

    «Solo emicrania.»

    «Le faccio portare un antidolorifico. Nel frattempo devo compilare la sua scheda, come si chiama?» il dottore prese un pinza blocchi che era appoggiato in fondo al lettino.

    «Mi chiamo Ian Walsh, ho 41 anni, sono avvocato e abito in via Boselli a Milano.»

    «Cognome particolare» disse il medico sollevando il sopracciglio sinistro.

    «Mio padre era di origine gaelica, è una lunga storia.»

    «Interessante. Spero non debba rimanere qui tanto a lungo da raccontarmela, lo spero per lei.» Sorrise affabile «un telefono, una mail?»

    Ma possibile che nessuno mi chieda nulla su questo affare che ho al collo, non lo vedono? Finì di rispondere a tutte le domande mentre un infermiere iniziò a spingere il lettino verso l’ascensore. Il dottore salì con loro e scesero al -1. Firmò il consenso sulla privacy prima di essere trasbordato sul piano del macchinario.

    Si rivolse al dottore che stava uscendo: «Posso avere l’antidolorifico prima dell’esame? Non vorrei che il rumore peggiorasse il mal di testa.»

    A un cenno del medico, l’infermiere prese un bicchiere d’acqua e glielo porse con la pillola. La buttò giù e si sdraiò pronto a entrare nell’oblò infernale.

    3

    Milano, maggio 2077.

    La temperatura era mite, gli alberi in fiore, e il cinguettio degli uccellini copriva il ronzio delle macchine elettriche. Alcune rondini sfrecciavano nel cielo danzando nelle correnti. Il parco Ravizza si estendeva per il triplo del suo ingombro originario, un intero quartiere era scomparso per fare posto ad aceri, cedri, pioppi e olmi. Una grande cascata artificiale, alta tre piani, svettava al centro del verde rinfrescando le zone di lettura attorno a essa. Chaise longue scavate nel legno circondavano la piazza brulicante di gente.

    Una signora sulla cinquantina leggeva il giornale appartata all’ombra di una grande quercia, lontano dalla folla. Scorreva le pagine legate alla borsa con avidità, quasi volesse impararle a memoria. Si aggiustò il tailleur sistemandosi le pieghe della gonna e si slacciò un bottone della camicia. Il leggero pizzo che si estendeva lungo la chiusura ingentiliva la severità dell’abito ma non la faceva sentire a suo agio.

    Era infastidita, le facevano male i piedi e si sentiva strizzata come una salsiccia, nonostante il vestito le calzasse a pennello. Il prurito ai fianchi le era tanto insopportabile che avrebbe voluto spogliarsi in mezzo al parco. Di tanto in tanto gettava un’occhiata furtiva alle persone che passeggiavano. Continuò a leggere saltando alla cronaca nera, una rapida occhiata ma niente che le interessasse. Si bloccò su un trafiletto a fondo pagina che riguardava la fusione della Metrocorp, l’azienda che aveva realizzato i trasporti sotterranei di ultima generazione, e la Dynamo, la detentrice dell’esclusiva per la realizzazione del nuovo motore flagellare a cellule batteriche. Due colossi con appalti a livello mondiale per lo sfruttamento dei loro brevetti. Una notizia stranamente confinata in una zona anonima. Non era la prima volta che leggeva notizie sulle due aziende ma di solito occupavano la pagina intera se non la prima pagina. Chiuse il giornale e si diresse verso la fontana, il vociare dei bambini la innervosiva, non erano creature per cui andava pazza. Il suo istinto materno si limitava a dare da mangiare al gatto.

    Guardò l’orologio, segnava le undici e trenta. Percorse il vialetto centrale, a fianco del quale si avvicendavano chioschi di ogni genere: cibo macrobiotico, caramelle e zucchero filato, giocattoli, un banco di accessori per la casa dove il venditore eseguiva una dimostrazione dei nuovi coltelli a taglio laser. Il suo vicino promuoveva invece robot lavavetri di ultima generazione, con autonomia di ventiquattro ore; il modello di punta poteva pulire l’intera facciata di un palazzo di dieci piani in due ore. O almeno era quanto asseriva l’imbonitore.

    Si lasciò alle spalle il vociare e costeggiò la fontana, entrò nella zona lettura, un grosso cartello indicava area a comfort acustico, era circondata da pannelli fonoassorbenti ed era come passare da un mercato a una biblioteca in pochi metri, pur essendo all’aperto si udiva solo un leggero bisbigliare. Ogni postazione di lettura era dotata di cuffie che permettevano un totale isolamento o la trasmissione di musica di sottofondo. Passò oltre, fino ad avvicinarsi alla circonvallazione interna, un brivido le percorse la schiena, si voltò di scatto guardandosi alle spalle. Una rapida occhiata poi procedette verso la fermata dei taxi.

    «Eccola, prendiamola!» urlarono un paio di uomini in giacca e cravatta.

    Affrettò il passo voltandosi di continuo, aveva un buon vantaggio sugli inseguitori ma quei maledetti tacchi non le permettevano di correre. Gli uomini si stavano avvicinando, mancavano duecento metri alla fermata quando un tacco le si incastrò nelle fessure di un tombino facendola inciampare. Si tolse velocemente le scarpe e continuò a piedi nudi. Si spostò di lato, dove la pavimentazione sintetica della pista da corsa le permetteva di accelerare il passo, spostandola però all’esterno rispetto alla meta.

    Facendo un rapido calcolo mentale ipotizzò che l’aumento dell’andatura avrebbe coperto la differenza di lunghezza e le avrebbe comunque permesso di raggiungere il taxi senza spaccarsi i piedi.

    «Corriamo, ci sta scappando.»

    Raggiunse l’auto con affanno, aprì la portiera e si lanciò all’interno urlando.

    «Parta subito, la pago il doppio se mi porta in zona fiera per le dodici.»

    Il tassista non replicò e guardò il tassametro, indicava le undici e quarantacinque. Premette sull’acceleratore e la macchina elettrica ebbe un guizzo in avanti degno di un ghepardo. Gli inseguitori presero il taxi seguente e si lanciarono all’inseguimento.

    «Deve seminare il suo collega che ci insegue, le do il triplo» disse voltandosi a guardare dal lunotto posteriore.

    «Devo dire che lei sa usare le parole giuste ma le auto per il trasporto pubblico hanno la velocità controllata dalla centrale, non potrei superare i limiti neanche se lo volessi. La buona notizia è che nemmeno il mio collega può, quindi il nostro vantaggio rimarrà tale. Ma conosco un metodo migliore per seminarli.»

    La donna recuperò una parvenza di controllo, si sedette al centro del sedile e incrociò lo sguardo del guidatore nello specchietto retrovisore. «Cosa propone?»

    «Lasci fare a me» rispose l’autista

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