C’era una volta un’Isola. Storie della pellagra e altri racconti
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Anteprima del libro
C’era una volta un’Isola. Storie della pellagra e altri racconti - Pino Sbalchiero
MORTI
L’ISOLA CHE NON C’È… PIÙ
di Ilvo Diamanti
Ho incontrato e conosciuto Pino Sbalchiero negli anni Settanta. Quando, da pochi anni, ero arrivato a Isola, pardon: a Castelnovo. Al seguito della mia famiglia. Originaria di Isola, pardon: di Castelnovo. Mio padre, militare (nella guardia di Finanza), stanco dei continui trasferimenti, da una città e da una regione all’altra, decise di congedarsi. Per rientrare e fermarsi, con la famiglia, a casa. Sua. Perché per me Isola, allora, era un altro mondo. Un’altra storia. Quella che Sbalchiero racconta in questa nuova edizione delle Storie della pellagra. Confesso che per me, trasferirmi a (Castelnovo di) Isola fu un trauma, che faticai a superare. La distanza fra i luoghi della mia vita vissuta, fino ad allora, e Isola era davvero larga. Ben superiore a quella geografica. Perché io avevo vissuto in città relativamente grandi. E in zone molto industrializzate. Vado Ligure, ultima residenza prima di arrivare a Isola, era il porto di Savona. Impegnativo e inquinato, dal punto di vista ambientale. Ma industrializzato, trafficato. Molto di sinistra. Lì avevo formato le mie esperienze personali, le mie relazioni, le mie amicizie. E poi c’era il mare, a poca distanza da casa…
Trasferirmi a Castelnovo fu traumatico, per me. E l’esperienza del liceo non mi aiutò molto. All’inizio. Perché il Liceo Pigafetta era (ed è ancora) prestigioso e qualificato. Ma anche ben definito dal punto di vista della classe sociale. Luogo di incontro e di formazione per i giovani della borghesia e dell’aristocrazia vicentina. Soprattutto la sezione A, che frequentai fino alla maturità. Io non c’entravo nulla con quel mondo. Facevo parte della ‘quota popolare’ necessaria a dare un’impronta democratica alla scuola. Un’esperienza, confermo, preziosa. Che ha contribuito alla mia formazione culturale e personale. Ma allora, all’inizio, ne soffrii. Molto.
Vivere a Isola, a Castelnovo. Per me era un tuffo nel passato. Dalle industrie e dal mare alla campagna. Però mi servì molto. Anche perché, proprio lì, avvenne la mia crescita politica. Maturata al Liceo, in quegli anni (70) molto accesi. E turbolenti. L’incontro con Sbalchiero, a questo proposito, per me fu ‘ importante’. Perché Sbalchiero era ‘ importante’. La figura più importante di Isola. Tra le più importanti in provincia. Allora: assessore regionale, dopo essere stato sindaco. Costituiva il riferimento politico a livello locale. E non solo. Per questo, divenne fondamentale per la mia formazione. Io, giovane e ‘ attivo’. ‘ Attivista’ nell’associazionismo politico e volontario. Coinvolto nei fermenti che attraversavano il mondo cattolico, nella stagione del post ’68. Con Sbalchiero sperimentai la mia capacità polemica.
Era l’avversario giusto. Per ‘ crescere’. Per fare la mia esperienza di contestazione.
Negli anni seguenti, i rapporti cambiarono. Perché entrambi cambiammo atteggiamento. Dall’antagonismo alla distinzione. Dalla polemica alla critica. Nel rispetto reciproco. Ricordo ancora le discussioni da Gasparella, dove lo incontravo, a volte, quando andavo ad acquistare i giornali.
Ma, per me, divenne fondamentale la lettura delle sue storie. Perché lo Sbalchiero ‘ narratore’ è quello che preferisco. Tratteggia un paesaggio che ho conosciuto anch’io, in un tempo di profonda trasformazione. Un mondo dove le persone avevano nomi, cognomi. E soprannomi. Piero Bélo, Bepi Tinassa, Giia Bombola, Nane Siola… e tanti altri. I ‘ soprannomi’ sono importanti, perché marcano legami di complicità. Di comunità. In un mondo dove non c’erano periferie e centri. Perché tutti i luoghi erano ‘ centri’, per chi ci viveva. E ‘ periferie’, per chi ne stava fuori. Comunque, tutti i luoghi partecipavano a un’identità che si rafforzava attraverso il contrasto fra campanili. Castelnovo contro Isola. Unite dal torrente la Giara. Nome di una società sportiva che io e alcuni amici di Castelnovo, Isola, ma anche Torreselle e Ignago, fondammo. La Giara. Il (sopran)nome dato al torrente Orolo. Perlopiù ridotto a ghiaia. Quasi mai attraversata dall’acqua. La Giara, appunto. Uno dei pochi ‘ canali’ di comunicazione capaci di unificare i due ‘ centri’ principali del Comune. Castelnovo e Isola.
Ebbene, ancora oggi, leggere e rileggere le storie narrate da Sbalchiero, attraversando luoghi e tempi diversi, mi aiuta e mi conforta. Perché è vero: raccontano di un’ Isola che non c’è. Più. Trasformata dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione. Dalle migrazioni. Un’ Isola che ha perduto gran parte dei suoi confini e dei suoi paesaggi. Interni. Però queste storie ne ri-costruiscono la memoria. Che è la base dell’identità. La nostra storia, la nostra memoria: ci permettono di rammentare chi siamo. Da dove veniamo. E rileggendo le storie di Sbalchiero è forte la tentazione di aggiungere altre storie, altri personaggi, altri nomi e altri soprannomi. Per allargare la biografia di Isola alle generazioni seguenti. Almeno: fino alla mia.
E così, oltre a una lettura piacevole, suggestiva anche se talora malinconica, le storie di Pino Sbalchiero aiutano quest’Isola che non c’è a ritrovarsi. A riconoscersi. E possono risultare utili a chi – come me e molti altri – ci ha vissuto, a chi ci vive ora e ancora. A chi si è trasferito qui negli ultimi tempi. Perché possono servire a ritrovar se stessi. Noi stessi. Dentro a un’Isola che non è certo ‘ isolata’, ma, al contrario: rischia di perdersi in un mondo globalizzato. Le storie di Pino offrono un’occasione, un riferimento: per fermarsi un momento. Per gettare lo sguardo altrove. Alle nostre spalle. Per ricordare e, soprattutto, per guardare avanti. Comunque, per guardare oltre. Alla ricerca della Stella Boara, evocata da Pino. Una stella che guidava e accompagnava i contadini, nel corso delle giornate di lavoro duro. Di fatica.
La stella della memoria e della speranza.
Agosto 2018
Dedica
A mio padre,
uno degli ultimi pellagrosi,
che a sessant’anni circa
morì contento
perché non aveva visto gli uomini
arrivare sulla luna
C’era una volta un’Isola in questo mondo
I nostri vèci, pori superbi,
magnandone i schèi
ne ga lassà i proverbi
Una volta a Isola, verso sera e per tutto il corso delle lunghissime notti fino a quando all’alba il gallo non si metteva a cantare, dall’alto del cielo, quasi sospeso sopra Monte Pulco e Vallugana, il Signore vegliava sul paese attraverso l’occhio luminoso e penetrante della Stella Boara. La Stella palpitava immobile e non cessava mai di agitare lunghissimi raggi per frugare tra le case silenti, ammassate e confuse nell’oscurità, alla continua ricerca di finestre senza balconi. Attraverso le finestre nude, il suo chiarore penetrava nelle camere dei bambini angosciati e tremanti, che non riuscivano a dormire per paura della solitudine. E così si metteva a far compagnia a quei poveretti lasciati tutti soli dai grandi, intenti a consumare in posti remoti interminabili filò. La sua luce non era fredda come quella delle altre stelle: leniva le ansie e fugava i timori. Infatti quasi sempre, dopo il suo arrivo, fuggivano le ombre misteriose che ogni sera s’annidavano tra le travi nere del soffitto e le parti remote delle lenzuola si intiepidivano rapidamente. A poco a poco i bambini cessavano di stare rannicchiati e tesi, stendevano le membra e si addormentavano in pace.
Ma anche se i bambini dormivano, l’occhio del Signore continuava comunque a vegliare di lassù. Guardava altre finestre fiocamente illuminate, dove apparivano donne ancora affaccendate in minutissimi lavori. Osservava tutt’intorno le macchie distinte dei campi coltivati e, lungo bianche strade sinuose, le partenze dei carrettieri, il cui andare era tracciato dalla luce altalenante delle lanterne appese all’estremità posteriore del carro. Quando la Stella Boara brillava viva nel cielo, il ladro non usciva mai strisciando all’aperto con il sacco sulle spalle per andare a rubare i pollastri nei punari incustoditi e, per muoversi, aspettava sempre che arrivassero le nuvole a nasconderla.
Senza testimoni in cielo, sulla terra può succedere di tutto. La Brentana, ad esempio, arrivava solo nelle notti di tempesta ed era preceduta da sordi rumori, più cupi e terribili delle site, che sconvolgono le tenebre rotte da s-ciantìsi acceccanti. La Giara ingrossata straripava ed il Timóncio rompeva gli argini. Allora dai due torrenti l’acqua furiosa si rovesciava nei campi travolgendo ogni cosa; raggiungeva le corti, le stalle e le case dei contadini portando melma e fango dappertutto, annegava animali e si ritirava a poco a poco lasciando solo carogne e distruzione.
Invece durante le notti serene neppure le cantilene stonate e cariche di malinconia dei nottambuli impenitenti riuscivano a rompere l’intima pace delle ore che scorrevano ordinate nella lunga attesa dell’alba.
Persino nel remoto cimitero attorniato da neri cipressi, quando su di esso si riflettevano i raggi della Stella Boara, la soéta addolciva il suo lugubre verso e gli spiriti dei morti, che uscivano dalle fosse sotto forma di fiochi lumicini, si allungavano esili e palpitanti fino a spegnersi, dopo brevi esitanti voli, contro le mura del recinto accarezzate dal vento.
Al sorgere del sole la Stella Boara, che aveva già visto da un bel pezzo Nòbrio Campanaro attraversare il sagrato per entrare nel campanile e suonare il Padrenostro, si ritirava discreta abbassandosi lentamente oltre il Monte di Priabona, proprio quando i falciatori si avviavano in processione con gli attrezzi sulle spalle verso i campi ricchi di fieno e Ménego Manèa fermava il cavallo sull’argine ed iniziava a scarriolare la ghiaia nel letto quasi asciutto del torrente tra esigui rivoli chiari di acqua luccicante.
Tempo fa ero sul piccolo spiazzo del Santuario di S. Maria sovrastante il paese, mentre annottava. Il cielo era terso e le montagne nere chiudevano l’orizzonte lontano limitando lo sterminato spazio del cielo carico di stelle. Guardavo verso Monte Pulco e Vallugana, scrutavo tutto l’orizzonte occidentale ma non vedevo l’occhio del Signore, non ero in grado di fissare la Stella Boara. Son tornato altre sere e non l’ho più vista.
Dove sarà mai la Stella della mia infanzia? Si sarà trasformata in cometa errante alla ricerca di un altro paese, com’era Isola una volta? Non lo so. Ma mi domando anche cosa farebbe mai il vecchio caro astro ai nostri tempi. Boari che si alzino di notte per andare ad arare incitando i buoi non ce ne sono più, falciatori ‘segantini’ a contratto neppure, ladri di galline neanche a sognarselo. Gli scarriolanti del Timonchio sono scomparsi da tempo immemorabile. E i bambini? Oh, i bambini in questi anni non vanno mai a letto presto! Stanno su a vedere la televisione con i grandi, anche perché il giorno dopo possono dormire quanto vogliono e mica devono alzarsi presto per accompagnare gli animali nei campi prima di andare a scuola.
E a scuola ci vanno con l’autobus, non a piedi per chilometri e chilometri, come una volta. Beati loro!
Così la Stella ha di sicuro tagliato la corda verso un altro mondo, perché non se la sentiva proprio di farsi inutilmente viva in cielo senza aver nessun rapporto con la gente della terra.
Sarà così. Però mi piacerebbe senz’altro sapere dov’è andata mai a finire adesso e come se la passa con altri boari, con altri segantini, con altri scarriolanti e, soprattutto, se in quel mondo vicino o lontano ci sono bambini pieni di paura che hanno bisogno della sua presenza per addomentarsi in pace quando silenziosa scende la notte dai monti oscuri.
I. LA VALLE DELLA PELLAGRA
Preferire i nemissi ai mone zé na bona cosa
perché i primi, almanco, ogni tanto i se riposa
Mia nonna, la Neni, quando mi accompagnava in Vallugana, seguiva sempre, tra Belatesta e i Muri, una cavedagna che adesso più non ritrovo. Ma allora costituiva per me la parte più attraente della lunga passeggiata. Era fiancheggiata ai lati da contorti e nodosi morari e veniva spesso solcata dai brividi improvvisi dei ligaóri. Proprio lì le cicale, a luglio, sembravano darsi convegno da tutta la zona e il sórgo sigolava, nell’arsura dei meriggi, lungo le distese circostanti.
Prima di uscire nei pressi di una fonte, da cui ogni volta, quasi per rito, si attingeva dell’acqua (nonostante il ribrezzo provocato dai saltafossi e dagli insetti che stabilmente la occupavano) la nonna diceva, accennando con la scarna mano la catena dei monti vicini: «Quelli lassù, Pino, sono i Ròcoli del Signore!»
Di fianco al posto indicato scorgevo la Chiesa di Monte Pulco e, sotto, la Contrà Parigi, quasi sepolta tra il verde cangiante dei fagàri e delle càssie.
La nonna, vestita di nero in ogni stagione, mi fissava con i suoi occhi mobili e scuri, stranamente vivi in quel viso pallido, incorniciato da lunghi, stupendi capelli bianchi; e soggiungeva: «Proprio di lì passa la Pellagra, quando viene da noi, arrampicandosi dalla Valdilà».
Da tempo ormai io sapevo quasi tutto sulla Pellagra che arriva silenziosa nelle notti illuni e fa tornare le Anguane precipitosamente dentro le grotte profonde, mentre stanno facendo la lìssia nella Val de Sera ai vestiti del Salbanèlo. La Pellagra è una nebbia tremenda mandata dal Diavolo. Prende uno, gli va dentro la pelle, lo fa diventare giallo e magro finché gli spuntano le piaghe un po’ dappertutto, ma specialmente tra le dita delle mani. Contro la Pellagra non c’è niente da fare. Scappare è peggio.
Nane Obi, da piccolo, siccome era forte e veloce come un gatto nero, tornando a casa la sentì, senza vederla, sopra il Combinèlo. Se la dette a gambe, bestemmiando. Non fu raggiunto, ma per lo spavento rimase muto e scemo per tutta la vita. Forse il Crocifisso sulla porta di casa, le candele della Serióla e l’Olivo delle Palme bruciato durante le ‘tempora’ possono giovare. Ma se uno magari attacca il Crocifisso, oppure accende le candele o anche brucia l’olivo in peccato mortale, allora il Diavolo si gode lo stesso a far entrare la nebbia nella sua casa.
Invece il sale benedetto è un rimedio sicuro. Infatti, tanti parrocchiani ricordano che prima di abbattere la vecchia Chiesa ci fu una infezione fortissima a Isola. L’arciprete don Polacco benedì più di due quintali di sale e il Sindaco lo distribuì alle famiglie colpite perché fosse messo, per devozione, nella polenta e sull’insalata. E la Pellagra sparì.
Certo, non tutti i discorsi sulla Pellagra, che sentivo ripetere spesso,