Il narratore di sogni
Di Livio Leoni
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Anteprima del libro
Il narratore di sogni - Livio Leoni
Indice
Prologo
1. Lee
2. Kato
3. Lee
4. Chieko (tre settimane prima)
5. Lee
6. Kato (due settimane prima)
7. Lee
8. Kato (una settimana prima)
9. Lee
10. Cloe
11. Lee
12. Cloe
13. Lee
14. Cloe
15. Lee
16. Cloe
17. Lee
18. Rajesh
19. Lee
20. Cloe
21. Lee
22. Rajesh
23. Lee
24. Rajesh
25. Lee
26. Rajesh
27. Lee
28. Lee
29. Kato
30. Lee
31. Kato
32. Lee
33. Kato
34. Lee
35. Kato
36. Lee
37. Kato
38. Cloe
39. Jones
40. Cloe
41. Lee
42. Lee
43. Kato
44. Kato
45. Chieko
Epilogo
Ringraziamenti
Note
Copertina a cura di
Vincenzo Dippi
Di Filippo
Titolo | Il narratore di sogni
Autore | Livio Leoni
ISBN | 9788827854235
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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Livio Leoni
Il narratore di sogni
Noi soffriamo per i sogni.
Noi guariamo con i sogni.
Gaston Bachelard
Prologo
Non potrò mai dimenticare quell’estate.
Quei giorni trascorsi insieme rimarranno per sempre scolpiti nella mia memoria, così come la convinzione che nulla avrebbe potuto dividerci veramente.
Fu, senza dubbio, l’estate più pazzesca della mia vita. Forse non ha cambiato il mondo, ma ha cambiato il mio mondo.
1. Lee
Le scie luminose dei fari delle automobili
La boccia piena d’acqua dove abitava il mio pesce rosso mi guardava annoiata nella sua rotondità. Mickey, il suo rosso abitante, mi osservava da dietro il vetro con quella che supponevo fosse incredulità. La sua bocca sembrava infatti aperta non tanto per far apparire in superficie qualche bollicina rilasciata con ostentata naturalezza, quanto perché, così facendo, la sua espressione appariva chiaramente sbalordita. Dicono che la memoria dei pesci rossi duri circa tre secondi, quindi quella palla trasparente, piccola per chiunque e probabilmente anche per lui, doveva invece apparirgli come un luogo da esplorare sempre come la prima volta. Era un piccolo mondo, rotondo come il mio, ma per lui sempre nuovo.
Il mio mondo invece era enorme, come quello di chiunque altro, ed enorme era la mia voglia di scoprirlo. Avrei voluto viverlo, starci dentro, conoscerlo e capirlo in tutte le sue sfumature, tuttavia, anche ora che ero in vacanza, il mio mondo rimaneva quello solito, dei miei genitori, dei miei amici, del lavoro… ecco, era il loro mondo, non il mio.
E così continuava ad esserlo, giorno dopo giorno. Nonostante fossi in ferie ed avessi il tempo per fare cose nuove, in un modo o nell’altro finivo per adagiarmi in una routine che, come delle confortanti sabbie mobili, mi teneva avvinghiato a questa piccola realtà. Certo, non era il solito tran tran che mi accompagnava durante il resto dell’anno, ma anche ora mi trovavo, quasi senza volerlo, a compiere le solite attività che, senza nessun particolare brivido che scuotesse la mia spina dorsale, occupavano le mie giornate.
Fino a quel giorno.
Il giorno in cui in un certo senso cambiò tutto. Il giorno in cui incontrai lei. Il mio piccolo, rassicurante e ripetitivo mondo divenne improvvisamente carico di colori ed emozioni che mi fecero sentire vivo come non mi accadeva da un bel po’.
D’estate mi era sempre piaciuto fare lente passeggiate sul lungomare ed osservare la realtà che mi circondava. Le bici e i motorini condotti da giovani ragazzi e ragazze si susseguivano ai bordi della spiaggia come le onde che s’infrangevano sugli scogli. Quest’allegra e caotica sequenza di visi e di corpi sembrava un’invisibile catena tesa all'inseguimento dei sogni nascosti sotto la sella di un motorino insieme ad una maglietta stropicciata, una crema solare, una bottiglietta d’acqua su cui, almeno per una notte, si erano appoggiate le labbra della persona segretamente amata.
Lungo il marciapiede, specialmente la sera, capitava di scorgere un gruppetto di persone affollarsi di fronte a qualche piccolo artista che si esibiva per racimolare qualche soldo. Qualcuno cantava, qualcuno mimava, qualcuno se ne stava semplicemente fermo come una statua.
Raro invece che accadesse di giorno, orario durante il quale le persone preferivano rimanere a crogiolarsi sulla spiaggia fino ad abbrustolirsi la pelle come quella dei polli allo spiedo.
Ancora più insolito fu ciò che quello strano individuo stava compiendo sotto il sole splendente e che rapì la mia attenzione.
Quest’uomo, su per giù sulla quarantina, continuava a muovere le braccia come per disegnare in aria qualcosa di invisibile. Mentre lo faceva a volte girava anche su stesso e, come al ritmo di una musica che solo lui potesse sentire, dipingeva questi suoi quadri avendo come unica tela il cielo intero.
Non riuscivo a distaccare lo sguardo dai suoi gesti che, seppur incomprensibili, avevano qualcosa di sinuoso e musicale, quasi ipnotico. Per lungo tempo me ne stetti lì a fissarlo comporre qualche sinfonia o disegno poi, d’improvviso, si arrestò. Osservò per qualche secondo il suo lavoro e lentamente abbassò lo sguardo come se le sue opere, non sostenute dal suo movimento, si stessero dissolvendo lentamente a terra. Infine si sedette sul cemento caldo mentre un paio di persone allungavano il braccio per regalargli poche monete.
Fu in quel momento che mi decisi a domandare: – Che cosa stavi facendo?
– Sogni… – disse con un’evidente nota di stanchezza nella sua voce.
– Cosa? – ribattei d’istinto.
– Dipingo... sogni, – rispose non prima di aver bevuto un paio di sorsi d’acqua. – Di notte sogno sempre molto e, a differenza delle persone normali, questi rimangono vividi in me fino al giorno. A volte sono troppo forti, altre sono incubi terribili, cosicché devo farli uscire in qualche modo.
– Quindi li faresti uscire disegnandoli in aria? – domandai incredulo temendo mi volesse in qualche maniera imbrogliare.
– Più o meno. Devo rappresentarli al più presto se no diventano troppo potenti. Una volta raffigurati, invece, si dissolvono velocemente sia in aria sia dentro di me.
– E…
– Sono sempre sogni tuoi? – mi interruppe all’improvviso una voce femminile.
In qualche modo rapito dal suo racconto, non mi ero nemmeno accorto che di fianco a me si era avvicinata una ragazza.
Mentre l’uomo le spiegava come non fosse mai stato sicuro che i sogni fossero i suoi - «è come se mi arrivassero direttamente già completi da qualche parte», gli sentii distrattamente dire - io non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso di quella ragazza, il cui profilo sembrava intonarsi perfettamente con le poche nuvole bianche che timide macchiavano l’azzurro intenso del cielo.
– Non mi pare neppure di sognare realmente, – continuò – ma è come se mentre dormissi qualcuno mi sussurrasse all’orecchio queste storie che si materializzano nella mia mente e quando mi sveglio sono ancora lì, vivide. Mentre quando sogno normalmente al risveglio è tutto più rarefatto, questi sogni invece svaniscono solo dopo averli dipinti davanti al cielo e alle nuvole.
Lei sembrava sinceramente interessata alle parole di quello strano tizio, poiché i suoi occhi brillavano di una luce che appariva ai miei allo stesso tempo malinconica e brillante.
Cercai di togliermi la tipica espressione di Mickey che certamente avevo dipinta in faccia e provai a dire qualcosa di vagamente intelligente: – Quindi i protagonisti dei tuoi sogni sono sempre altre persone e non tu?
– Sì.
– Hai mai riconosciuto nessuno? – domandai arrossendo per la stupidità della domanda.
A lei forse non sembrò così sciocca, perché chiese: – Se riconoscessi qualcuno glielo diresti?
– Mentre do forma ai miei sogni non guardo chi ho davanti e al termine è troppo tardi per riconoscere qualcuno.
– Beh, non preoccuparti se avesse sognato te non potrebbe dimenticarlo, – non sapevo neppure io da dove spuntassero fuori quelle parole.
Lei mi guardò, ma prima che potesse replicare qualcosa lui proseguì: – Comunque ora è meglio che vada, – e così dicendo cominciò a raccogliere le sue poche cose.
Prima di andarsene lei pose nel suo cappello quella che, prima che si mescolasse con le poche altre, mi sembrò fosse una moneta da due euro. Non volendo sembrare scortese cercai anch’io una moneta, ma non avendone gli lasciai una banconota da cinque euro. Non posso di certo fare la figura del tirchio ancor prima di conoscerla, pensai.
Lui ringraziò e s’incamminò.
Prima che anche lei potesse allontanarsi per sempre dal mio mondo, domandai: – Credi sia tutto vero?
Lei si girò, per la prima volta mi stava fissando negli occhi e rispose: – Io credo ai sogni. Vengo qui spesso solo per poterlo vedere all’opera. Non so spiegartelo, ma c’è qualcosa di rilassante in quello che fa.
Anche la sua voce era fantastica, come se decidesse esattamente con quale cadenza formulare ogni parola in modo che l’ultima pronunciata legasse musicalmente a quella successiva, formando una canzone che sembrava venire da lontanissimo, ma che allo stesso tempo fremeva di vita. O forse era semplicemente il mio cuore che batteva sempre più forte dentro il mio petto e, come al solito, la forza dell’emozione che provavo si dimostrò inversamente proporzionale a quello che la mia bocca fece uscire.
– Interessante. Ti andrebbe di prendere un caffè?
– No, grazie.
Mentre sentivo le schegge del mio cuore conficcarsi tra tutte le costole che lo contengono, aggiunse: – Però se vuoi sarò qui anche domani per vederlo.
Non feci in tempo a domandarle come si chiamava che lei si allontanò e l’oscillare della sua gonna a fiori, che dondolava sfiorando le sue gambe dritte, fu lì lì per provocarmi un’improvvisa sincope. Aspettai ancora un momento per far sì che cervello, cuore e gambe decidessero di ricominciare a lavorare in sincrono, poi mi riavviai verso casa.
Con l’emozione ancora appiccicata addosso, la strada verso il mio piccolo appartamento quel pomeriggio aveva contorni sfuocati. In quel momento mi vennero in mente le scie luminose lasciate dai fari delle automobili su una foto digitale quando viene scattata in movimento. Pensi di aver fatto uno schifo di foto e poi, voilà, a volte viene fuori un’immagine, magari incomprensibile, ma così bella che decidi di conservarla. Ecco, avevo quella sensazione lì, che mi fosse successo qualcosa che ancora bene non riuscivo a capire, ma che di sicuro potevo ritenermi fortunato.
Mi ricordai d’un tratto che avevo prestato la mia fotocamera ad un’amica che ancora non me l’aveva restituita.
Che strane associazioni fa la testa, pensai tra me e me.
Non sono mai stato un bravo fotografo, l’avevo utilizzata solo le poche volte che ero stato in viaggio, ma avevo deciso di portarmela dietro la prossima volta che l’avrei incontrata. Con qualche scusa ben congegnata forse avrei ottenuto almeno una foto ricordo.
Deviai leggermente direzione per raggiungere la casa della mia amica. Suonai il campanello e, poco dopo, lei si affacciò direttamente al balcone.
– Ciao Lee! Che fai qua?
– Hai ancora la mia fotocamera! Puoi ridarmela?
2. Kato
Anche una strada di mille Ri comincia con un passo
– Ridatemelo! – urlai cercando di afferrarlo dalle mani di uno dei due tizi che mi avevano aggredito.
– Prima dacci i soldi, giappo.
– Vi ho già dato tutto. Quello non ha valore.
– Allora se non ha valore ce lo teniamo.
Odiavo improvvisare, ma era troppo importante per lasciarlo nelle mani di quei brutti ceffi così, con le ultime forze rimaste, cercai di prendere al volo l’ennesimo calcio che mi stava arrivando. Fortunatamente il passaggio di un’automobile lo distrasse quel tanto che bastava per afferrargli il piede e spingerglielo indietro con tutta la forza che mi rimaneva in corpo. Quello più grosso cadde addosso al compagno e gli sfuggì di mano il quaderno. Lo raccolsi all'istante e scappai il più velocemente possibile. Mi rincorsero per un po’, ma poi desistettero accontentandosi forse dei soldi guadagnati.
Ancora stanco per il fuso orario e per lo spiacevole incontro, mi recai in un hotel che avevo già prenotato prima di partire per riposare un po’.
La scelta di conservare una parte dei soldi nella tasca interna della giacca con i documenti e le cose più importanti si rivelò vincente, cosicché ancora per qualche tempo non avrei avuto problemi.
Terminate le usuali operazioni di check-in, mi diressi subito in stanza. Il letto era grande e comodo e, complice la stanchezza accumulata, ben presto mi addormentai.
Dovevano essere passate solo alcune ore quando mi svegliai ed il mio stomaco decise che era ora di andare a mangiare qualcosa. Mi sciacquai velocemente la faccia e mi accorsi che mi avevano conciato proprio per le feste. Una cicatrice faceva orgogliosa bella mostra di sé sopra il mio sopracciglio destro ed un’altra più piccola mi sfregiava la guancia. Per non parlare del dolore alle costole.
Indossai un cappellino da baseball per nascondere un po’ il viso e uscii alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Passeggiando per le strade strette del paese premetti ancora una volta la mano sul mio fianco per assicurarmi che il quaderno fosse al suo posto.
Finalmente trovai un piccolo chiosco che vendeva pesce fritto, diffondendo nell’aria un profumo invitante. Il sapore non era niente male. Ma la tempura è un’altra cosa, pensai.
Mentre mi convincevo che era ancora presto per giudicare la cucina italiana, ricapitolai tra me e me la situazione.
Mi trovavo da solo in un paese straniero, i cui abitanti non sembravano così cordiali e con una conoscenza parziale della loro lingua. Dopo due giorni avevano già cercato di rapinarmi, avevo il viso che sembra quello di un personaggio di un film sulla yakuza e le costole che parevano essere state prese a pugni come i manzi di Rocky. Ben fatto, Kato, mi complimentai con me stesso. Per lo meno ero riuscito a tenermi il quaderno. Il quaderno non lo dovevo perdere per nulla al mondo. Ora dovevo trovare qualche indizio che mi portasse sulla strada giusta. Il problema è che non avevo idea di dove cercare.
Con questi pensieri in testa e la pancia satura di piccoli pesci impanati, pagai il conto e cominciai a passeggiare senza una meta precisa.
Dopo qualche minuto mi trovai di fronte ad un bar e decisi di entrare. Ordinai una birra, mi sedetti nell’ultimo tavolino in fondo al locale e cominciai a sfogliare i quotidiani. Ovviamente nessuna notizia sul Giappone da queste parti. Per quel poco che riuscii a decifrare di italiano mi parve di capire che la politica qui fosse ancor più complicata che nel mio paese e che il calcio avesse la stessa importanza, poiché ne trovai un inserto in quasi tutti i giornali.
Mi soffermai poi un attimo su una foto che attirò la mia attenzione. Avevano costruito un treno particolarmente costoso o qualcosa del genere. C’erano dei poliziotti vicino ai vagoni. Forse per l’inaugurazione, pensai.
Cercai di fare mente locale. Mi resi conto che i miei pensieri erano ancora avvinghiati allo spavento causato dai due delinquenti che mi avevano derubato qualche ora prima, così cercai di calmarmi.
Anche una strada di mille Ri¹ comincia con un passo, mormorai tra me e me.
3. Lee
Un solo accordo ripetuto in maniera ostinata
Il giorno seguente mi svegliai con una sensazione di paura mista ad eccitazione.
La mattina trascorse tranquilla. Misi su un po’ di musica. Mentre il buon David Bowie cantava Heroes
feci colazione, poi pulii un po’ entrambe le case, la mia e quella di Mickey. Mi sdraiai sul letto e presi in mano il libro di Haruki Murakami che avevo cominciato all’inizio delle vacanze, ma dopo una decina di pagine mi appisolai. Non so perché, ma qualunque libro legga, anche se mi piace molto, dopo qualche capitolo mi viene sempre sonno. Per questo mi ci vuole sempre un po’ di tempo per finire le mie letture.
Quando mi risvegliai era già passata l’ora di pranzo. Mi preparai un sandwich veloce che accompagnai con una coca fredda ed una fetta di melone. Era giunto il tempo di prepararsi. Scelsi la maglietta che mi stava meglio addosso, misi nella tasca dei pantaloni la fotocamera e mi avviai verso il luogo dove si esibiva quello strano individuo che, dalla tonalità della sua pelle, supposi fosse indiano.
Nel momento in cui arrivai lui stava già accarezzando l’aria in cerca di una qualche mano invisibile che lo accompagnasse nella sua singolare danza.
Nonostante i suoi movimenti rapissero lo sguardo, mi affrettai a cercare quella ragazza dai capelli castani che mi avevano colpito per le impercettibili sfumature quasi dorate, frutto del lavoro del sole. Tuttavia con mia enorme delusione non c’era.
Due bambini guardavano con aria stralunata quello che il buffo uomo dalla carnagione bronzea stava compiendo di fronte ai loro occhi. Quella che immaginai fosse la loro mamma stava cercando di portali via, mentre altri due ragazzi non facevano molto per nascondere dei sorrisetti ironici.
Non avendo niente di meglio da fare mi misi ad osservare l’indiano mentre roteava su se stesso alternando le braccia in alto e in basso come a voler imitare un uccello che non riesce a librarsi in aria.
Assorto nei miei pensieri, o nei sogni di qualcuno, mi sorprese sentire una voce alle mie spalle.
– Te ne sei accorto anche tu?
La musicalità di quelle parole era impossibile da non riconoscere e, quando mi girai, mi accorsi che lei si trovava a pochi centimetri da me.
– Cosa? Ehm, voglio dire… ciao, – fu tutto quello che riuscii a balbettare.
– Oggi è diverso, non credi?
Tirai un respiro profondo affinché il cuore si decidesse a ricominciare a mandare ossigeno al cervello e provai a rispondere: – L’indiano?
– Sì, non ti sembra diverso?
– Io l’ho visto solo un paio di volte, ma ora che me lo fai notare in effetti oggi i suoi gesti sembrano, come dire, meno armoniosi del solito.
– Sì, sembra sia nervoso, anche il suo sguardo. Io vengo qua praticamente ogni giorno, ma è la prima volta che lo vedo così. È come se fosse agitato.
Allora siamo in due, pensai. Ma le dissi: – Magari sta rappresentando un incubo. Ieri ha detto che a volte gli arrivano anche degli incubi, no?
I suoi occhi mi scrutarono per un attimo come se fosse sorpresa per la mia risposta, mentre un sorriso ebete si stampava sulla mia faccia compiaciuta per l’inattesa acutezza della mia supposizione.
– Forse hai ragione, – disse infine e poi si rivoltò nuovamente verso il one man show danzante dello strambo individuo davanti a noi.
Passammo qualche minuto in silenzio durante i quali i suoi occhi seguivano le tracce impalpabili che le forzute mani dell’indiano tracciavano nell’aria, mentre i miei giocavano a ping pong tra l’uomo dalla pelle color mogano e i cinquanta chili di meraviglia che, nel frattempo, avevano preso posto mezzo passo davanti a me.
Non capendo bene il motivo per il quale ogni volta che lei pronunciasse qualche parola io non riuscissi a controllare un sussulto di sorpresa come i bambini al termine di un numero di magia, ma con il serio sospetto che lei se ne fosse accorta, mi girai di scatto alla sua domanda.
– Allora andiamo?
Andiamo... plurale... pensai tra me e me e, nella speranza che non si fosse rivolta all’indiano, il quale nonostante gli anni era senza alcun dubbio molto più in forma del sottoscritto, risposi: – Come?
– Mi avevi promesso un caffè se non sbaglio.
– Certo! – fu l’unica cosa che mi uscì dalla gola in modo automatico. Probabilmente riuscii addirittura a mantenere un velo di serietà mentre, in realtà, il mio cuore stava improvvisando, tenendo per mano le arterie ad esso collegate, un ballo alla maniera di Snoopy quando è felice. O almeno così speravo.
– Allora andiamo, c’è qualcosa di cui vorrei parlarti.
Io amo quell’indiano! Sperando di non averlo detto ad alta voce, la seguii senza abbozzare più una parola.
Fortunatamente il silenzio imbarazzante non durò a lungo, poiché si fermò davanti ad un bar poco distante. Scegliemmo un tavolino all’esterno e, come una vera coppia, lei ordinò un caffè ed io un macchiato.
Seduta davanti a me potei finalmente vederla in tutta la sua bellezza. Le impercettibili sfumature dorate dei capelli sembravano create direttamente dalla sabbia del Sahara trasportata dal vento caldo dell’estate. Il sole le aveva già iniziato a colorare anche la pelle che non sembrava avere un’imperfezione neppure se l’avessi cercata per ore con la lente d’ingrandimento.
Prima di fare un’altra figura da idiota, considerando la fissità da triglia lessata che doveva occupare il mio sguardo, mi sforzai di dire qualcosa.
– Allora di cosa volevi parlarmi?
Lei sembrava un pochino imbarazzata, tuttavia nel suo sguardo si poteva cogliere una specie di malinconia che, ai miei occhi, la rendeva ancor più affascinante. In effetti era proprio il marrone caldo che abbracciava le sue pupille a destabilizzarmi. Guardarlo mi faceva rimanere in sospeso come i ragazzi che, in quei giorni, correvano insieme fino alla cima della collina per godere dell’attesa di quell’istante in cui il sole si corica dentro il mare lasciando intorno a sé un rosso intenso come le loro guance sudate.
Dopo averci pensato qualche secondo mi chiese: – Che opinione ti sei fatto di Rajesh?
– Rajesh?
– Sì, è il nome dell’indiano.
– Come fai a saperlo?
– Te l’ho detto, vado spesso a vederlo ed un paio di volte ci siamo fermati a parlare.
– Capisco. Beh, è sicuramente uno strano personaggio… ma cosa vuoi sapere esattamente?
– Ti sembra pericoloso?
– Perché?
– Rispondi sempre alle domande con altre domande? Lascia perdere, – abbassò gli occhi infastidita.
– Scusami, ero solo curioso. Comunque non mi sembra un uomo malvagio, se è questo che intendi. E di solito io ci indovino abbastanza con le prime impressioni.
– Ah sì? E qual è stata la prima impressione che hai