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Anche gli ingegneri hanno un'anima
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Anche gli ingegneri hanno un'anima
E-book273 pagine3 ore

Anche gli ingegneri hanno un'anima

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Info su questo ebook

Seppure non ce lo avesse così apertamente suggerito il titolo, lo sguardo curioso, indagatore e puntiglioso, la precisa collocazione dell'azione nel tempo e nello spazio, l'attenzione al particolare ma anche ai perché di quanto osservato, appartengono a un ingegnere. Che, a dispetto del rigore che ci si aspetta dalla sua professione, sembra sorvolare la realtà con insolita leggerezza, ricercando ed esaltando la semplicità che rende grandi le piccole cose.

Un fiore, una chiocciola, un sorriso rappresentano, per il nostro, un preteso per spronare il lettore a riflettere su alcuni temi che sembrano interessarlo particolarmente: la bellezza, l'amore, il tempo che passa.

Sono anche la cronaca dell'ordinaria esistenza di un pendolare che riesce però a scovare, nella desolante vita di tutti i giorni, spunti di meraviglia ed ammirazione per lo splendore che la natura, umana e non, ancora ci riserva.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2018
ISBN9788827858844
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    Anteprima del libro

    Anche gli ingegneri hanno un'anima - Osvaldo Milani

    Redattori

    Introduzione

    Questa raccolta di scritti è un piccolo estratto dal lungo ″discorso″ che ho intrattenuto con alcuni miei colleghi-amici dal 1998 al 2014.

    Tutto è iniziato allorquando a dirigere l’Enel, l’azienda nella quale ho lavorato per circa trent’anni, arrivarono Franco Tatò e Chicco Testa. I due top manager portarono uno stravolgimento nell’elefantone parastatale, avviando quel cambiamento che avrebbe fatto diventare Enel l’odierna impresa multinazionale dell’energia e uno dei principali operatori integrati globali nei settori dell’elettricità e del gas.

    Tra le molte iniziative che accompagnarono l’inizio di quel cambiamento epocale fu attivato, nel 1998, il Forum del Presidente, fruibile nella intranet aziendale, un’applicazione predisposta per far colloquiare i dipendenti tra di loro e con l’azienda. Tramite il Forum presi contatto con molti colleghi e con alcuni di loro costituimmo una sorta di redazione che, proponendo tematiche di discussione e assicurando interventi pertinenti, cercò di contenere il conversare un po’ caotico che uno strumento come quello presentava, soprattutto nelle sue prime fasi di funzionamento.

    Era inevitabile che noi redattori¹ instaurassimo da subito una bella relazione e diventassimo ben presto amici. Un’amicizia che dura ancora oggi.

    Il Forum non fu altrettanto longevo, perché fu chiuso poco dopo che la coppia Tatò-Testa terminò il suo mandato, ma tramite esso ho iniziato a scrivere e a essere letto da una molteplicità di persone, certo per contribuire a quel cambiamento che stava investendo la mia azienda ma, soprattutto, per lasciare un segno del mio ″passaggio″, per dire a tutti: Ehi, ci sono anch’io, sentite cosa ho da dirvi, voglio contare qualcosa per Voi.

    Il costituirsi della redazione rese, inoltre, disponibile un piccolo nucleo di lettori ai quali poter indirizzare anche scritti che esulassero dalle mere tematiche aziendali. Questi, di fatto, erano lettere, appunti e messaggi per condividere con i redattori piccoli ritratti delle persone che incontravo nelle mie vicissitudini di pendolare, resoconti su quanto accadeva durante le mie giornate, sia lavorative che non, ricordi, stati d’animo, riflessioni sugli argomenti più disparati, insomma tutto quello di cui si chiacchiera in genere con degli amici.

    È grazie ai redattori, che hanno sempre apprezzato i miei scritti, consigliato e sostenuto, che ho potuto realizzare questa raccolta e a loro va tutta la mia riconoscenza.

    Peraltro, la scrittura mi è servita anche a superare gli inconvenienti del pendolarismo. Per i primi dieci anni in Enel la sede di lavoro era posta nell’estrema periferia romana, che potevo raggiungere facilmente e in tempi accettabili solo in auto. Viaggiavo anche molto per lavoro in tutta Italia, insomma, tempo per la scrittura praticamente nullo. Nel 1998 fui spostato in una sede situata nel centro di Roma, fu giocoforza allora utilizzare il treno, troppo tempo avrebbe richiesto entrare o uscire da Roma.

    Fu così che ogni giorno acquistai almeno novanta minuti tutti per me, per poter leggere e/o scrivere, tanto era il tempo cumulato dei viaggi di andata e ritorno tra Latina e Roma, ma se conoscete un po’ i nostri treni regionali sapete quanto facilmente l’ora e mezza potesse diventare due e oltre. Gran parte di quanto trovate qui è stato scritto in treno, durante quei viaggi.

    Scrivendo il tempo è letteralmente volato, gli spostamenti sembravano velocissimi, sapeste quante volte avrei desiderato continuare a sferragliare per terminare di scrivere. Addirittura, in due occasioni, mentre tornavo a casa, completamente preso nelle mie elucubrazioni saltai la fermata, scendendo nella stazione ferroviaria successiva!

    Ho terminato di viaggiare giornalmente nel 2014, avendomi accordato l’azienda la possibilità di erogare la mia prestazione in telelavoro, guadagnandoci in termini di qualità della vita, ma perdendo molte delle mie fonti di ispirazione.

    Ora, finalmente in pensione, mi è sembrato naturale raccogliere questi scritti per proporli e proprio di semplice raccolta trattasi e non di rielaborazione.

    Infatti, rileggendoli dopo tanto tempo, mi sono accorto di aver riportato su carta il mio ″parlato″, la riprova è una consecutio temporum che lascia molto a desiderare, per non parlare della punteggiatura, ma non mi andava di rimetterci mano, avrei dovuto riscriverne la gran parte.  

    Mi sono quindi limitato a ridurre i saluti agli amici e a eliminare gli strafalcioni più grandi, anche se quest’ultima cosa non sono sicuro sia riuscita per intero.

    Ma, insomma, sono e rimango un ingegnere e non un letterato, però anche gli ingegneri hanno un’anima e spero la cosa emerga da queste righe.

    --------------------------------

    ¹ I nickname dei redattori: Ale, Annoiata, Anonymous, Chicco 2 NoPresident, Latitante, MB, Post-it, Scarlett, Topo d’Acciaio.

    Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada.

    Vincent Van Gogh

    Angeli

    Metropolitana. Lei avrà avuto quindici anni, alta quasi quanto me, bella come un angelo, un incarnato degno di Raffaello, scarponi e pantaloni sdruciti, sembrava leggere degli appunti di scuola. Lui non arrivava a diciotto, più alto di me, piccola barbetta da rapper, anellino d'argento all'orecchio sinistro, scarponi spennellati di colori e… angelo pure lui.

    Lei lo guardava, gli lanciava certe occhiate che effondevano amore in quell'angolo angusto del vagone, ma non era solo amore, era curiosità, innocenza bramosa di conoscenza, scoperta. Lui non l'ha degnata di uno sguardo, timido e schivo come un cane troppo spesso bastonato fissava un punto lontano.

    Quando sono entrato stavano già lì e forse lui si era accorto degli sguardi di lei ma era sopraffatto dalla sua bellezza.

    Lui stava proprio di fronte a me, a meno di trenta centimetri, ho pensato di dirgli: «Ma non vedi che le piaci? Fai qualcosa!» Poi, però, ho pure subito pensato mi avrebbe risposto: «Ahó, fatte li cazzi tua!» Era poco probabile, ma tanto è bastato a non farmi parlare.

    Ho desistito perché mi sono sentito come un viaggiatore del tempo che, essendo tornato indietro, non può né deve influire sugli eventi, pena uno stravolgimento del continuum temporale.

    La metro è arrivata, sono sceso, i miei due angioletti se ne sono andati e io sono tornato allo schifo quotidiano. Ho preso il tram, è salito un barbone che puzzava come un cane morto da giorni, c'è stato un po’ di movimento sul tram e spero che qualche pulce o pidocchio non abbia deciso di prendere una vacanza.

    Oggi sono arrivato prestissimo perché ho una presentazione che mi terrà impegnato tutto il giorno, devo sistemare le ultime cose, ma ve lo dovevo dire che avevo incontrato due angeli.

    Kalós

    Vi ho già detto che attendo al mio prato con particolare cura. Mi accingevo al settimanale taglio d’erba, che eseguo con belle strisciate parallele e contigue, quando il mio occhio si è posato su una piccola, debole, vezzosa pianticella di fiorellini gialli, posta proprio al centro del prato. Cavolo, proprio lì doveva nascere!

    Metto in moto il tagliaerba e inizio a operare, con un certo imbarazzo, devo dire, infastidito da quella cosa al centro del campo. Calcolo che alla sesta strisciata sarò lì. Che faccio? Mentre meccanicamente seguo la macchina, esamino le possibili alternative, ho poco tempo ma devo decidere.

    La taglio, perché non ho deciso io di piantarla lì, però mi spiace, è bellissima. Eh, già, bravo, basta il bello per ottundere la tua volontà, ti stai rincoglionendo, per caso? Se non fosse bella, non ci avresti pensato su due volte, perché la bellezza può essere trasgressiva? La taglio.

    Passo alla sua altezza, ha sei fiorellini color giallo intenso, con delle piccole sfumature azzurre, è veramente bella. Spengo il motore e la guardo, ha delle piccole, tenerissime foglie, di un verde tenue, che si protendono verso di me, sembra quasi stiano cercando di offrirmi i fiori. Come faccio a tagliarla? Io la lascio lì, che fastidio mi dà?

    OK, sto alla terza striscia, svuoto il sacco, riaccendo e via. Cammino deciso dietro il motore che romba e, quando passo vicino la piantina, gli sbuffi di aria la smuovono. Non può rimanere lì, che c’azzecca con il resto del prato? Le aiuole sono da tutt’altra parte, la taglio.

    Quinta strisciata, ci sono! La tolgo da lì e la metto nell’aiuola con gli altri fiori, si può fare! No, che non si può fare, dovrò rovinare il prato, rimarrà una chiazza. Perdio, ma proprio a me doveva capitare, sto proprio rammollendo, che mi succede? Intenerito da una pianticella.

    Inizio la sesta striscia, uno, due, tre passi, la vedo avvicinarsi, è proprio bella, avanzo inesorabile, solo perché bella può derogare alla regola? Con quale diritto ‘sta cavolo di piantina può esistere impunemente lì, al centro del mio prato?

    Ho spento il motore a un passo da lei, devo svuotare il sacco. Rallento di proposito l’operazione per prendere tempo e vi ho visto nella mia mente, come antichi romani nel Colosseo, tutti con il pollice in alto a dire ″Salvala″, tutti meno uno, il Topastro, ovviamente, che stava lì con il suo bel pollice verso.

    Ecco, che succede a parlare tanto con donne e uomini ″nuovi″: la mia bella, ferrea, granitica certezza nell’ordine, nel giusto, vacilla, rammollita dal bello, dall’effimero.

    Ma tu guarda stamattina cosa mi doveva capitare!

    Torno, reinserisco il sacco, metto in moto con la cordicella, il motore sbuffa, una, due, tre volte, non ne vuole sapere di partire. Pure tu ti ci metti? Sarà un segno? Al quarto strappo, finalmente, si rimette in moto, ho tentennato un attimo... Poi sono partito deciso passando sopra la piantina, al termine della strisciata mi sono girato, il prato era tornato uniforme e verde, nel suo ordine naturale. OK così va bene.

    Risparmiatemi i vostri strali, già aver seminato il dubbio nella mia testa è sufficiente.

    S.M.

    S.M. non sta per sostantivo maschile o per sua maestà ma per scala mobile. È nato un amore. Tra me e la scala mobile, sì, proprio quella cosa che serve a innalzare, con poca fatica, la tua energia potenziale. Mi piace salire con la scala mobile.

    Ho letto tanto tempo fa un bel racconto di fantascienza in cui a un povero cristo, figlio di ferroviere, compare il diavolo nella veste di macchinista del treno diretto per l’inferno, che gli propone il solito scambio anima-ricchezza. Lui accetta, ma riesce a imporre al demonio anche un’ulteriore condizione: chiede un orologio magico, che potrà bloccare a suo piacimento per fissare in eterno il momento della sua vita che riterrà migliore. Se non lo userà, alla data stabilita per la sua dipartita, appuntamento sulla massicciata, dove salirà sul diretto che lo porterà negli inferi.

    Bene, forte di questo dono il nostro se la gode, soldi, donne, potere, successo, tutto, ma non si decide mai a bloccare l'orologio. Arriva la data fatidica dell'appuntamento, sale sul treno pieno di imbroglioni, peccatori, ubriaconi, puttanieri che, pur sapendo dove stanno andando, se la spassano: ridono, giocano a dadi, bevono, cantano, raccontano barzellette e fanno gli spacconi.

    Lui si siede, gioca a carte e beve con quei simpatici compagni, quando arriva Satana che, sorridendo, gli dice: «Hai avuto quanto desideravi. Restituiscimi l’orologio.» Ma proprio in quel momento, lui blocca il magico congegno, con un ghigno, questo sì, veramente satanico, fissando per sempre il ″suo″ tempo. Quella è per lui la cosa più bella, quell'andare che continua indefinitamente verso una metà che non arriverà mai, con compagni di viaggio non perfetti ma allegri e umani.

    Ecco, quando io sto sulla scala mobile mi sento come il personaggio del racconto e mi piacerebbe non arrivare mai, vorrei che quella salita durasse per sempre. Mi piace salire, salire e guardare la gente che sale insieme a me, presa dalle sue preoccupazioni ma anche disposta a farti spazio. Mi piacciono le donne sulla scala mobile, sembrano tutte più alte, e non vorrei mai arrivare, perché alla fine scopri che tanto alte non sono.

    Scappo alla solita riunione. Volevo dirvi di questo mio amore da tanto tempo, l'ho fatto ora, anche se di fretta.

    La casa sulla ferrovia

    Stamane, causa il forte vento, la linea ferroviaria si è interrotta. Il treno su cui stavo s'è fermato per una buona mezz'ora nella stazione del mio paese nativo, fortunatamente ero seduto.

    Dovete sapere che su quella stazione s'affaccia una casa, davanti alla quale in gioventù, no, meglio, in adolescenza, ho passato ore e ore sognando di una sua occupante. Una dolce fanciulla di cui non ricordo più il nome, il cognome sì, ma il nome no, che strano eh? Ovviamente io con quella ragazza non ci ho mai parlato, era un amore del tutto platonico, durato una primavera e un'estate.

    Il ricordo della ragazza è mescolato con l'odore dell'olio antitarlo che impregnava le traversine di legno, ormai anche quelle andate, sostituite dalle traverse in cemento armato precompresso. Quello era l'odore della ferrovia, ad esso associavo l'idea di viaggio, di posti lontani, di puntini neri lungo la massicciata che lentamente si trasformavano in macchie scure, fino a materializzarsi in lavoratori sporchi e affaticati che ritornavano al tramonto, dopo una giornata di lavoro.

    Quell'odore era epico, era un intero universo che si schiudeva alla mia giovane mente. Ho sempre abitato in case prossime alla linea ferroviaria, il rumore del treno mi ha sempre fatto compagnia, ho passato molto tempo da ragazzo nella stazione del mio paese sognando del mondo adulto, ed era naturale che mi innamorassi di una ragazza che abitava ″sulla ferrovia″.

    Indovinate dove ho avuto i primi incontri con mia moglie e le ho dato i primi baci? Nella stazione ferroviaria, ovviamente.

    Bene, sapete cosa mi è accaduto stamane? Non sono riuscito a riconoscere più la casa di quella ragazza. Nella mia mente ce l'ho ancora bene impressa: due piani, il muro bianco, il lungo balcone con l'inferriata verde, la finestra con la tapparella grigia, dalla quale lei ogni tanto s'affacciava.

    Sto leggendo Il grande Gatsby e mi sono imbattuto in queste righe dove Francis Scott Fitzgerald descrive, in modo mirabile, l’importanza delle cose che evocano la persona amata.

    Il momento è quello in cui Gatsby, dopo cinque anni di lontananza, incontra di nuovo la sua vecchia fiamma, Daisy. Cinque anni durante i quali lei si è sposata, è diventata mamma, lo ha dimenticato, mentre lui invece non l’ha mai scordata e anzi ha fatto di tutto per rincontrarla, a iniziare dalla scelta della sua casa, in una baia di fronte l'abitazione di lei.

    Se non ci fosse la nebbia si vedrebbe la tua casa di là dalla baia disse Gatsby. C’è sempre una luce verde accesa tutta la notte all’estremità del tuo pontile.

    Daisy infilò bruscamente il braccio sotto quello di lui, ma Gatsby parve assorto in quello che aveva detto. Forse gli era venuto in mente che il significato colossale di quella luce era ormai finito per sempre. In confronto alla grande distanza che lo aveva separato da Daisy, la luce era sembrata molto vicina a lei, come se la toccasse. Era sembrata vicina come una stella alla luna. Ora era di nuovo la luce verde di un pontile. Il numero di oggetti fatati era diminuito di uno.

    Ecco, per me, la finestra di quella casa sulla ferrovia era fatata, come la luce verde per Gatsby prima di ritrovare Daisy. Voi non avete idea delle emozioni che suscitava nel mio cuore guardare quella tapparella grigia, quando poi la trovavo alzata passavo alla trepidazione, perché questo indicava la presenza della ragazza nella sua stanza e la quasi certezza di poterla intravedere, anche se solo per brevi istanti. E quella finestra non ha mai cessato di esercitare il suo fascino su di me perché io, a differenza di Gatsby, non ho mai incontrato la mia amata.

    Ecco, ora quella finestra non c’è più, sparita, anzi quella casa non c'è più. O meglio, c'è ancora, ma è del tutto diversa, addirittura a tre piani, irriconoscibile.

    Mi hanno praticamente defraudato di un sogno, di un pezzo del mio passato e, pur avendo stanotte dormito otto ore, non ho potuto fare a meno, stamattina, dal sentirmi terribilmente vecchio.

    Domenica, quasi primavera

    Dai, papà, giochiamo. Domenica mattina la giornata era magnifica, il pallone nuovo, di cuoio durissimo. Con i guanti da giardiniere, che per l'occasione sono diventati da portiere, mi piazzo tra i pali della porta, sull’invitante campo verde di trifoglio.

    Giocatori: io, mio figlio e un mio cognato. Spettatori, più intenti a crogiolarsi al sole che non a guardare le nostre azioni, tutte le donne della tribù: suocera, cognate, figlia e moglie.

    Indosso tuta e scarpe da ginnastica, col senno di poi troppo lisce per il campo bagnato di rugiada. Secondo tiro in porta di mio figlio, è facile, lo respingo col piede.

    Calcio il pallone con il destro, il piede sinistro scivola, mi vedo sollevato a mezz'aria mentre cado in terra, mi scompongo per non farmi male, cado di sedere. Bella botta ma, tutto sommato, penso che mi sia andata bene. Invece, non so come, il dinamismo della caduta mi porta a rotolare. Il costato batte contro qualcosa di duro sul terreno, un rametto della pianta di ulivo a bordo campo, potata qualche giorno fa.

    Sento un piccolo crack, sembra niente. Mi rialzo tra le risa di tutti i presenti e mia moglie che fa: «Hai una certa età, Osvà. Queste cose non sono più per te.» Ma come? Stamane mi aveva spronato dicendomi: «Dai, gioca un po’ con tuo figlio.» Mi rialzo e, sebbene dolorante, continuo a giocare. Sembra tutto passato.

    Finita la partitella, si pranza. A tavola non riuscivo a trovare la posizione giusta, anche il respirare mi dava dolore.

    Vabbè, non la faccio lunga, sono andato al pronto soccorso, radiografia, costola incrinata, non si può fare niente, solo uno spray per lenire il dolore.

    Non vi dico che nottata ho passato, solo supino, qualsiasi altra posizione mi faceva vedere le stelle. Sono comunque andato a lavorare. Sempre meglio che sentire mia moglie.

    La danza della pioggia

    Ieri sera, tornato dal lavoro, mia moglie mi ha detto: «Osvà, dai una pulita alle macchine. Mi vergogno ad andare in giro così.»

    In effetti, il caldo di questi giorni ha reso lo stradone di campagna che percorriamo ancora più polveroso e le automobili erano veramente sporche.

    Mi sono quindi armato di tubo, spugna e basta, ché abitando io vicino la fonte ho un getto d’acqua a una pressione eccezionale, posso anche fare a meno del detersivo. E, in pantaloncini e maglietta, ho iniziato l’opera di pulizia.

    C'era una bella arietta e gli spruzzi d'acqua erano piacevolissimi. Ora, chi mi avesse visto, mentre mi agitavo intorno a una vettura, avrebbe pensato: Sta lavando un’auto e invece no, l’apparenza inganna, come ci ha giustamente ricordato stamane il nostro Chicco.

    Il risultato finale delle mie fatiche è lo stesso, ma il lavaggio è solo un pretesto. Uno più attento e addentro alle cose di magia capirebbe al volo i miei gesti, il saltellare ritmico attorno all'auto, l'abbassarsi frenetico e il rialzarsi sulle fiancate, il tubo che spruzza magicamente sui vetri e sulle gomme, tutti gesti altamente simbolici ed evocativi. Di che? Penserete voi. Ma come, non avete ancora capito?

    Ma è lampante: la mia è un’evidentissima danza della pioggia! E infatti, puntualmente, due ore dopo che avevo finito di lavare entrambe le macchine, ha fatto un

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