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Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann)
Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann)
Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann)
E-book564 pagine9 ore

Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann)

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Info su questo ebook

Alla ricerca del tempo perduto (La Recherche) di Marcel Proust è un classico della letteratura mondiale, un’opera monumentale che rappresenta il tentativo sorprendente e senza precedenti di esplorare la complessità dell’animo umano.
Dalla Parte di Swann è il primo dei sette volumi di cui si compone questa lunga riflessione psicologica sulla letteratura, sulla memoria e sul tempo, e, quasi come in un’overture musicale, tutto comincia in sordina: sensazioni, colori e sapori affiorano lentamente dalle nebbie del tempo, si mescolano e si legano, in modi imprevedibili, gli uni agli altri, formano un reticolo che definirà, in un futuro ancora nascosto al lettore, l’identità di Marcel, l’alter ego dell’autore che narra in prima persona la sua storia. Amore, gelosia, desiderio, ma anche i piccoli piaceri della vita, le abitudini e le idiosincrasie della gente, sono tutti vissuti attraverso la mediazione del sogno, della nostalgia e del ricordo: essi sono il cuore di un romanzo che da più di un secolo porge ai lettori uno specchio sul rapporto che li lega allo scorrere ineluttabile del tempo.


Marcel Proust (1871-1922) ha trascorso la sua vita a Parigi, nei giorni della Terza Repubblica Francese. Scrittore, saggista e critico letterario, impiegò 14 anni nella stesura di Alla ricerca del tempo perduto, il suo capolavoro che venne pubblicato tra il 1913 e il 1927. La sua padronanza della sintassi, la sua precisione nella caratterizzazione dei personaggi e nell’analisi della società del suo tempo sono alcuni dei motivi per cui è considerato uno dei più grandi scrittori della letteratura mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2023
ISBN9788868165062
Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann)
Autore

Marcel Proust

Marcel Proust (1871-1922) was a French novelist. Born in Auteuil, France at the beginning of the Third Republic, he was raised by Adrien Proust, a successful epidemiologist, and Jeanne Clémence, an educated woman from a wealthy Jewish Alsatian family. At nine, Proust suffered his first asthma attack and was sent to the village of Illiers, where much of his work is based. He experienced poor health throughout his time as a pupil at the Lycée Condorcet and then as a member of the French army in Orléans. Living in Paris, Proust managed to make connections with prominent social and literary circles that would enrich his writing as well as help him find publication later in life. In 1896, with the help of acclaimed poet and novelist Anatole France, Proust published his debut book Les plaisirs et les jours, a collection of prose poems and novellas. As his health deteriorated, Proust confined himself to his bedroom at his parents’ apartment, where he slept during the day and worked all night on his magnum opus In Search of Lost Time, a seven-part novel published between 1913 and 1927. Beginning with Swann’s Way (1913) and ending with Time Regained (1927), In Search of Lost Time is a semi-autobiographical work of fiction in which Proust explores the nature of memory, the decline of the French aristocracy, and aspects of his personal identity, including his homosexuality. Considered a masterpiece of Modernist literature, Proust’s novel has inspired and mystified generations of readers, including Virginia Woolf, Vladimir Nabokov, Graham Greene, and Somerset Maugham.

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    Anteprima del libro

    Dalla parte di Swann (Du côté de chez Swann) - Marcel Proust

    Parte prima

    Indice

    Parte prima

    COMBRAY

    Capitolo I

    Capitolo II

    Parte seconda

    UN AMORE DI SWANN

    Parte terza

    NOMI DI PAESI: IL NOME

    Ringraziamenti

    Parte prima

    COMBRAY

    Capitolo I

    Per molto tempo sono andato a letto presto. A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo nemmeno il tempo di dirmi «Mi addormento». E mezz’ora dopo, il pensiero che era tempo di cercare il sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora tra le mani e soffiare sul lume; dormendo, non avevo smesso di riflettere su quanto avevo appena letto, ma le mie riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi pareva d’essere io stesso quello di cui si parlava nel libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V. Quell’impressione durava ancora qualche istante al mio risveglio; non turbava la mia ragione, ma mi pesava come delle squame sugli occhi e impediva loro di accorgersi che la candela non era più accesa. Poi cominciava a diventarmi incomprensibile come, dopo la metempsicosi, i pensieri di un’esistenza anteriore; l’argomento del libro si staccava da me, ero libero di approfondirlo oppure no; recuperavo subito la vista e mi stupivo di trovarmi avvolto da un’oscurità dolce e riposante per gli occhi, ma forse più ancora per la mente, cui appariva immotivata, incomprensibile, come qualcosa di veramente oscuro. Mi chiedevo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni che più o meno di lontano, come il canto di un uccello in una foresta, rilevando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore s’affretta verso la stazione più vicina; e il sentiero che percorre gli resterà impresso nel ricordo per l’emozione dovuta ai luoghi nuovi, ad atti inconsueti, agli ultimi discorsi e agli addii sotto la lampada straniera che lo seguono ancora nel silenzio della notte, alla dolcezza imminente del ritorno.

    Appoggiavo teneramente le guance contro le belle guance del cuscino, piene e fresche come quelle della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardare l’orologio. Quasi mezzanotte. È il momento in cui il malato, che ha dovuto mettersi in viaggio e pernottare in un albergo sconosciuto, destato da una crisi, si rallegra scorgendo sotto la porta un raggio di luce. Meno male, è già mattina! Tra poco i domestici si alzeranno, potrà suonare, qualcuno gli verrà in aiuto. La speranza del conforto lo rincuora nella sofferenza. Ecco gli è parso di udire dei passi; i passi si avvicinano, ma poi si allontanano. E il raggio di luce sotto la porta è scomparso.

    È mezzanotte; hanno spento il gas, l’ultimo domestico se n’è andato e lui dovrà restare tutta la notte a soffrire senza rimedio.

    Mi riaddormentavo, e a volte non avevo che brevi risvegli di un attimo, il tempo di avvertire gli scricchiolii organici delle boiseries, di aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio dell’oscurità, di assaporare, grazie a un momentaneo barlume di coscienza, il sonno in cui i mobili erano immersi, la stanza, quel tutto di cui non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito a unirmi. Oppure, dormendo, avevo raggiunto senza sforzo un’età della mia vita primitiva trascorsa per sempre, ritrovato qualcuno dei miei terrori infantili, come quello che il mio prozio mi tirasse per i riccioli, e che era svanito il giorno che me li avevano tagliati – inizio per me di una nuova era. Nel sonno l’avevo dimenticato quell’episodio, ne ritrovavo il ricordo non appena riuscivo a svegliarmi per sfuggire alle mani del prozio ma, per precauzione affondavo completamente la testa nel cuscino prima di tornare nel mondo dei sogni.

    A volte, come Eva da una costola di Adamo, una donna nasceva nel mio sonno da una falsa postura della mia coscia. Generata dal piacere che ero sul punto di gustare, immaginavo che fosse lei a offrirmelo. Il mio corpo, che sentiva nel suo il mio stesso calore, voleva congiungersi con lei, mi svegliavo. Gli altri esseri umani mi apparivano lontanissimi al confronto con quella donna che avevo lasciato solo da qualche istante; la mia guancia era ancora calda del suo bacio, il mio corpo indolenzito dal suo peso. Se, come a volte capitava, aveva i tratti di una donna conosciuta nella mia vita, mi consacravo completamente a un unico scopo: ritrovarla, come chi si mette in viaggio per vedere coi propri occhi una città desiderata e s’immagina di poter godere nella realtà l’incanto del sogno. A poco a poco il suo ricordo svaniva, avevo dimenticato la fanciulla del mio sogno.

    Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi. Svegliandosi, li consulta d’istinto e vi legge in un attimo il punto della terra che occupa, il tempo trascorso fino al risveglio; ma i loro ranghi possono confondersi, spezzarsi. Poniamo che verso il mattino, dopo una notte insonne, il sonno lo colga mentre sta leggendo, in una posizione troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente: basterà il suo braccio sollevato a fermare e fare indietreggiare il sole e, nel primo istante del risveglio, non saprà più che ora sia, crederà di essersi appena coricato. O poniamo che si assopisca in una postura ancor più anomala e inusitata, per esempio dopo cena, seduto in una poltrona, allora il disorientamento sarà più completo in quei mondi usciti dalla loro orbita, la poltrona magica lo farà viaggiare a gran velocità nel tempo e nello spazio e, al momento di riaprire gli occhi, crederà di essersi messo a letto alcuni mesi prima e in un altro paese.

    Ma bastava che, nel mio vero letto, il mio sonno fosse profondo e tale da distendermi del tutto la mente, ed ecco che questa abbandonava la mappa del luogo dove m’ero addormentato, e quando mi svegliavo nel cuore della notte, ignorando dove mi trovassi, lì per lì non sapevo più nemmeno chi fossi; avevo soltanto, nella sua semplicità primordiale, il senso dell’esistenza come può palpitare nel fondo di un animale: ero più denudato dell’uomo delle caverne; ma allora il ricordo – non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi che avevo abitato e dove avrei potuto essere – mi giungeva come un soccorso dall’alto per sottrarmi al nulla da cui non sarei potuto uscire da solo; in un istante attraversavo secoli di civiltà, e le immagini confusamente intraviste di lampade a petrolio, poi di camicie dal colletto ripiegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io.

    Forse l’immobilità delle cose intorno a noi ci è imposta dalla nostra certezza che si tratti proprio di quelle cose e non di altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti. Il fatto è che, quando mi svegliavo in quello stato, e la mia mente si agitava per cercare, senza riuscirci, di sapere dove fossi, tutto, oggetti, paesi, anni, vorticava intorno a me nell’oscurità. Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava di stabilire, in base alla forma della sua stanchezza, la posizione delle sue membra, per dedurne la direzione della parete, la disposizione dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla casa in cui si trovava. La sua memoria, la memoria delle sue costole, dei suoi ginocchi, delle sue spalle, gli presentava, una dopo l’altra, molte delle stanze in cui aveva dormito, mentre tutt’intorno le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata, vorticavano nelle tenebre. E prima ancora che il mio pensiero, esitando sulla soglia dei tempi e delle forme, avesse identificato l’abitazione accostando i dettagli, lui – il mio corpo – ricordava per ciascuna di esse, il tipo di letto, la disposizione delle porte, l’orientamento delle finestre, l’esistenza di un corridoio, insieme al pensiero che avevo avuto al momento di addormentarmi, e che ritrovavo al risveglio. Il mio fianco anchilosato, cercando di indovinare il proprio orientamento, immaginava, per esempio, di essere disteso di fronte alla parete in un gran letto a baldacchino, e subito mi dicevo: "Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma non è venuta a darmi la buonanotte», ero in campagna a casa del nonno, morto parecchi anni prima; e il mio corpo, il fianco sul quale ero disteso, guardiani fedeli di un passato che la mia mente non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricordavano la fiamma della veilleuse di vetro di Boemia, a forma di urna, sospesa con delle catenelle al soffitto, e il camino in marmo di Siena della mia camera da letto a Combray, nella casa dei nonni, in giorni lontani che in quel momento mi immaginavo attuali, senza rappresentarmeli esattamente, e che avrei rivisto meglio subito, appena fossi stato sveglio del tutto.

    Poi rinasceva il ricordo di una nuova situazione; la parete correva in una direzione diversa: ero nella mia stanza a casa di Mme de Saint–Loup, in campagna; mio Dio, saranno almeno le dieci, avranno già finito di cenare! Avrò prolungato troppo la siesta che faccio ogni sera di ritorno dalla passeggiata con Mme de Saint–Loup, prima di cambiarmi per la cena.

    Molti anni sono passati dai tempi di Combray quando, nei nostri rientri più tardivi, scorgevo i riflessi rossi del tramonto sui vetri della mia finestra. È un altro genere di vita quello che si conduce a Tansonville, in casa di Mme de Saint–Loup, un altro genere di piacere quello che provo a non uscire che di notte, a percorrere al chiaro di luna quei sentieri dove un tempo giocavo al sole; e la stanza, dove invece di vestirmi per la cena mi sarò addormentato, la scorgo da lontano, al nostro rientro, illuminata dalle luci della lampada, unico faro nella notte.

    Quelle evocazioni vorticose e confuse non duravano mai più di qualche attimo; spesso la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non distingueva, le une dalle altre, le diverse supposizioni di cui era costituita, meglio di quanto non riusciamo a isolare, vedendo correre un cavallo, le posizioni successive che ci mostra il cinetoscopio. Ma avendo rivisto ora l’una ora l’altra delle stanze che avevo abitato nella mia vita, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: stanze d’inverno in cui, una volta coricati, ci si rannicchia con la testa in un nido intessuto delle cose più disparate: un angolo del cuscino, l’orlo delle coperte, il lembo di uno scialle, la sponda del letto e un numero dell’edizione serale di «Débats roses», che si finisce per cementare insieme secondo la tecnica degli uccelli, stendendovisi sopra indefinitamente; stanze dove, se il tempo è gelido, il piacere che si prova è quello di sentirsi separati dall’esterno (come la rondine di mare che fa il nido nel fondo di un sotterraneo, nel calore della terra) e dove, essendo il fuoco rimasto acceso tutta la notte nel camino, si dorme in un’ampia coltre d’aria calda e fumosa, attraversata dai bagliori dei tizzoni che di tanto in tanto si ravvivano, sorta di impalpabile alcova, di calda caverna scavata dentro la stanza stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, arieggiata da soffi che ci rinfrescano il viso e provengono dagli angoli, dalle parti vicine alla finestra o lontane dal fuoco, e che si sono raffreddate; – stanze d’estate in cui è piacevole sentirsi uniti alla notte tiepida, dove il chiaro di luna che si posa sulle imposte socchiuse, getta fino ai piedi del letto la sua scala incantata, e dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cinciallegra cullata dalla brezza sulla cima di un raggio; – a volte era la stanza Luigi XVI, così allegra che nemmeno la prima sera mi ci ero sentito troppo infelice, e dove le colonnine che sostenevano con leggerezza il soffitto si discostavano con tanta grazia per rivelare e proteggere la zona del letto; – a volte invece era la stanza – piccola e dal soffitto così alto, scavata a forma di piramide per un’altezza di due piani e parzialmente rivestita di mogano – in cui, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto del vetiver, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che berciava a più non posso come se io non ci fossi; – dove una strana e impietosa specchiera con una base quadrangolare, sbarrando obliquamente uno degli angoli della stanza, si apriva a forza uno spazio che non era previsto nella dolce pienezza del mio abituale campo visivo; – dove il mio pensiero, sforzandosi per ore di slogarsi, di stirarsi in altezza per prendere esattamente la forma della camera e arrivare a riempire fino in cima il suo gigantesco imbuto, aveva sopportato molte dure notti, mentre restavo disteso nel mio letto, gli occhi sbarrati, l’orecchio teso, le narici contratte, il cuore in tumulto, finché l’abitudine avrebbe cambiato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà alla specchiera obliqua e crudele, dissimulato, se non dissipato completamente, l’odore del vetiver e diminuito notevolmente l’altezza apparente del soffitto. L’abitudine! arredatrice abile, ma tremendamente lenta, che comincia col far soffrire la nostra mente per settimane in una sistemazione provvisoria ma che, malgrado tutto, la mente è ben felice di trovare, perché senza l’aiuto dell’abitudine e con i suoi soli mezzi, sarebbe impotente a renderci una casa abitabile.

    Certo, ora ero del tutto sveglio, il mio corpo aveva compiuto un’ultima giravolta e il buon angelo della certezza aveva fermato ogni cosa intorno a me, mi aveva coricato sotto le coperte, nella mia stanza, e nell’oscurità aveva messo approssimativamente al loro posto il comò, la scrivania, il caminetto, la finestra sulla strada e le due porte. Ma non bastava che sapessi di non trovarmi nelle case di cui l’ignoranza del risveglio mi aveva in un istante, se non presentato l’immagine precisa, quanto meno fatto credere possibile la presenza; ormai la mia memoria s’era messa in moto; generalmente non cercavo di riaddormentarmi subito, passavo la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita di un tempo a Combray, dalla mia prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia e altrove ancora, a ricordare i luoghi, le persone che vi avevo conosciuto, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato.

    A Combray, tutti i giorni, sul finire del pomeriggio, molto prima del momento in cui avrei dovuto mettermi a letto e restare là senza dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia stanza da letto ridiventava il punto fisso e doloroso delle mie preoccupazioni. Avevano sì escogitato, per distrarmi, le sere in cui trovavano che avessi un’aria troppo infelice, di regalarmi una lanterna magica con cui, in attesa dell’ora di cena, veniva coperta la mia lampada; e che, alla maniera dei primi architetti e maestri vetrai dell’età gotica, sostituiva all’opacità delle pareti iridescenze impalpabili, soprannaturali apparizioni multicolori dov’erano dipinte leggende come in una vetrata vacillante ed effimera. Ma la mia tristezza non era che accresciuta, perché nulla come il cambiamento di illuminazione valeva a distruggere l’abitudine che avevo della mia stanza e grazie alla quale, escluso il supplizio di coricarmi, mi era diventata sopportabile. Ora non la riconoscevo più ed ero preso dall’agitazione, come in una stanza d’albergo o di chalet in cui fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno.

    Al passo caracollante del suo cavallo, Golo, l’animo pieno di un atroce disegno, usciva dalla piccola foresta triangolare che vellutava di verde cupo il pendio di una collina, e avanzava sobbalzando verso il castello della povera Geneviève de Brabant. Il castello era tagliato secondo una linea curva che altro non era se non il bordo di uno degli ovali di vetro, montati su un telaio, che si inserivano nelle guide di scorrimento della lanterna. Era solo un’ala del castello, davanti alla quale si estendeva una landa e in quella, Geneviève, che indossava una cintura azzurra, era assorta in fantasticherie. Il castello e la landa erano gialli, ma non avevo dovuto aspettare di vederli per conoscerne il colore perché, prima ancora dei vetri della lanterna, me l’aveva rivelato distintamente la sonorità mordorée del nome di Brabant.

    Golo si fermava un istante ad ascoltare tristemente, con l’aria di comprenderla alla perfezione, la didascalia letta ad alta voce dalla mia prozia, e uniformava il proprio atteggiamento alle indicazioni del testo con una docilità che non escludeva una certa regalità; dopo di che si allontanava con la stessa andatura caracollante. E niente che potesse arrestare la sua lenta cavalcata. Se si spostava la lanterna, vedevo il cavallo di Golo continuare la sua avanzata sulle tende della finestra, gonfiarsi sulle pieghe, sprofondare nei loro solchi. Il corpo stesso di Golo, di un’essenza non meno soprannaturale di quella della sua cavalcatura, s’adattava a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi oggetto ingombrante che gli capitasse di incontrare, assumendolo come ossatura e incorporandolo, fosse anche la maniglia della porta alla quale si adattava immediatamente e sulla quale galleggiavano invincibilmente la sua veste rossa e il suo volto pallido, sempre ugualmente nobile e malinconico, ma che non lasciava trasparire il minimo turbamento per quella transvertebrazione.

    Certo, trovavo affascinanti quelle brillanti proiezioni, che sembravano emanare da un passato merovingio, e facevano scorrere intorno a me riflessi di storia così antichi. Ma non so dire che malessere, nello stesso tempo, provocasse in me una simile intrusione del mistero e della bellezza in una stanza che avevo finito col riempire del mio io al punto da non far più caso né all’uno né all’altro.

    Venuto meno l’effetto anestetizzante dell’abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire, cose talmente tristi! Quella maniglia della porta della mia stanza, che differiva per me dalle maniglie di tutte le altre porte del mondo perché sembrava aprirsi da sola, senza ch’io dovessi girarla, tanto il gesto m’era divenuto automatico, ecco che ora serviva da corpo astrale di Golo. E appena suonavano per la cena, ero ansioso di correre nella sala da pranzo, dove il grande lampadario, ignaro di Golo e di Barbe–Bleue, ma che sapeva tutto dei miei genitori e del manzo in casseruola, spandeva la sua luce di ogni sera, e mi rifugiavo tra le braccia della mamma che le sventure di Geneviève de Brabant mi rendevano più cara, mentre i misfatti di Golo mi spingevano a esaminare la mia coscienza con maggiore scrupolo.

    Dopo cena, ahimè, ero subito costretto a lasciare la mamma, che restava a conversare con gli altri, in giardino, se era bel tempo o nel salottino, dove tutti si ritiravano quando il tempo era brutto. Tutti, tranne la nonna, che trovava un «peccato restare al chiuso in campagna» e che aveva continue discussioni con mio padre, nei giorni di grande pioggia, perché mi mandava a leggere nella mia stanza invece di farmi restare fuori all’aperto. «Non è così che lo renderete robusto ed energico», diceva lei tristemente «proprio questo bambino che ha tanto bisogno di acquistare forza e volontà». Mio padre alzava le spalle e scrutava il barometro perché amava la meteorologia, mentre mia madre, evitando di fare rumore per non disturbarlo, lo guardava con un rispetto intenerito, ma senza troppa insistenza, per non tentare di penetrare il mistero delle sue superiorità. Ma la nonna, lei, con qualsiasi tempo, anche quando la pioggia imperversava e Françoise aveva riportato dentro, precipitosamente, le preziose poltrone di vimini perché non si bagnassero, la si vedeva nel giardino deserto e sferzato dall’acquazzone, sollevare le sue ciocche disordinate e grigie perché la fronte assorbisse meglio la salubrità del vento e della pioggia. «Finalmente si respira!», diceva, e percorreva i vialetti inzuppati d’acqua, – troppo simmetricamente allineati per il suo gusto dal nuovo giardiniere, sprovvisto del sentimento della natura e a cui mio padre aveva chiesto, sin dal mattino, se il tempo si sarebbe aggiustato, – con il suo breve passo entusiasta e saltellante, regolato sui diversi moti che le destavano nell’animo l’ebbrezza del temporale, il potere dell’igiene, la stupidità della mia educazione e la simmetria dei giardini, piuttosto che sul desiderio, a lei ignoto, di evitare le macchie di fango sotto le quali spariva quasi completamente la sua gonna color prugna fino a un’altezza che era il cruccio e la disperazione costante della sua cameriera.

    Quando quei giri della nonna in giardino avvenivano dopo cena, una sola cosa aveva il potere di farla rientrare: ed era quando – in uno di quei momenti in cui la rivoluzione della sua passeggiata la riportava periodicamente, come un insetto, davanti alle luci del salottino dove venivano serviti i liquori, sul tavolo da gioco – era quando la mia prozia le gridava: «Bhatilde! Vieni a dire a tuo marito che lasci stare il cognac!» In effetti, per stuzzicarla, (la nonna aveva portato nella famiglia di mio padre uno spirito così diverso che tutti la prendevano in giro e la tormentavano), siccome i liquori al nonno erano proibiti, la prozia gliene faceva bere un goccetto. La nonna, poverina, correva dentro casa, pregava ardentemente il marito di non toccare il cognac; lui si irritava, ne beveva un sorso lo stesso, e la nonna se ne andava via, triste e scoraggiata, ma sempre sorridente, perché era così umile di cuore e così dolce, che la sua tenerezza per gli altri e la scarsa importanza in cui teneva la propria persona e le proprie sofferenze, si conciliavano nel suo sguardo in un sorriso dove, contrariamente a quello che si vede sul volto di tanti esseri umani, non c’era ironia se non per se stessa, e per tutti noi, invece, come un bacio dei suoi occhi che non potevano posarsi sulle persone che le erano care senza accarezzarle appassionatamente con lo sguardo. Quel supplizio che le infliggeva la mia prozia, lo spettacolo delle vane preghiere della nonna, della debolezza, sconfitta in partenza, con cui cercava inutilmente di strappare al nonno il bicchierino di liquore, era una di quelle cose alla cui vista ci si abitua col tempo fino a riderci sopra e a prendere le parti del persecutore con sufficiente risolutezza e allegria da persuaderci che non si tratta di persecuzione; ma allora, mi ispiravano un tale orrore che avrei voluto picchiarla la mia prozia. E invece appena sentivo: «Bhatilde, vieni subito, dì a tuo marito di non toccare il cognac!», essendo già uomo in quanto a viltà, facevo quello che facciamo tutti, una volta divenuti adulti, davanti alle sofferenze e alle ingiustizie: non volevo vederle; e salivo a singhiozzare nella parte più alta della casa, accanto allo studio, sotto il tetto, in una piccola stanza odorosa di iris, e che anche un ribes selvatico, cresciuto all’esterno tra le pietre del muro, e che insinuava un ramo fiorito attraverso la finestra socchiusa, riempiva del suo profumo.

    Destinata a un uso più specifico e più volgare, quella stanza, da cui di giorno la vista spaziava fino alla torre di Roussainville–le–Pin, mi servì a lungo da rifugio, senza dubbio perché era l’unica che mi fosse consentito chiudere a chiave, per tutte quelle tra le mie occupazioni che richiedevano un’inviolabile solitudine: la lettura, le fantasticherie, le lacrime e il piacere. Ahimè! Non sapevo che, ben più tristemente delle piccole trasgressioni del marito alla sua dieta, erano la mia mancanza di volontà, la mia salute delicata, l’incertezza che l’una e l’altra proiettavano sul mio futuro, ad angustiare la nonna durante quelle incessanti deambulazioni del pomeriggio e della sera, quando la si vedeva passare e ripassare tenendo sollevato verso il cielo il suo bel volto dalle guance scure e solcate di rughe, divenute con l’età di un colore quasi malva, come i campi arati d’autunno, protette, quando usciva, da una veletta sollevata a metà, e sulle quali, portata là dal freddo o da qualche pensiero triste, era sempre sul punto di asciugare una lacrima involontaria.

    La mia sola consolazione, quando salivo a coricarmi, era che, una volta a letto, la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio. Ma quella buonanotte durava così poco, lei ridiscendeva così presto, che il momento in cui la sentivo salire e l’attimo dopo, quando il fruscio leggero del suo abito da giardino di mussola azzurra, da cui pendevano dei cordoncini di paglia intrecciata, percorreva il corridoio a doppia porta, era per me un momento doloroso. Era l’annuncio di quello che sarebbe seguito, quando mi avrebbe lasciato, quando sarebbe ridiscesa. Così arrivavo ad augurarmi che quella buonanotte che amavo tanto, giungesse il più tardi possibile, affinché si prolungasse il tempo di tregua durante il quale la mamma non era ancora venuta. A volte, quando, dopo avermi baciato, apriva la porta per andarsene, avrei voluto richiamarla, dirle «dammi un altro bacio», ma sapevo che si sarebbe infastidita, perché la concessione che faceva alla mia tristezza e alla mia agitazione salendo ad abbracciarmi, a recarmi quel bacio di pace, irritava mio padre, che trovava assurdi quei riti, e lei avrebbe voluto tentare di farmene perdere il bisogno, l’abitudine: altro che lasciarmi prendere quella di chiederle, quando stava già per varcare la soglia, un altro bacio.

    Ora, vederla contrariata, distruggeva tutta la calma che mi aveva recato un istante prima, quando aveva chinato sul mio letto il volto amoroso e me l’aveva offerto come un’ostia per una comunione di pace da cui le mie labbra potessero attingere la sua presenza reale e il potere di addormentarmi. Ma le sere in cui la mamma, tutto sommato, restava così poco tempo nella mia stanza, erano ancora dolci in confronto a quelle in cui c’era gente a cena e lei, per questo, non saliva a darmi la buonanotte.

    La gente, di solito, si riduceva a Swann il quale, tolto qualche estraneo di passaggio, era più o meno la sola persona che venisse da noi a Combray, a volte a cena, tra vicini, (più raramente da quando aveva fatto quel cattivo matrimonio perché i miei non volevano ricevere sua moglie), a volte dopo cena, senza preavviso. Le sere in cui, seduti davanti a casa sotto il grande castagno, intorno al tavolo di ferro, sentivamo dal fondo del giardino, non il sonaglio invadente e chiassoso che sommergeva, che stordiva al passaggio con il suo rumore ferruginoso, instancabile e gelido, tutti quelli di casa che lo scuotevano entrando senza suonare, ma il doppio tintinnio timido, ovale e dorato della campanella per gli estranei, tutti si chiedevano subito: «Una visita, chi può essere?», ma si sapeva benissimo che non poteva essere che Swann; la prozia, parlando a voce alta per dare l’esempio, in un tono che si sforzava di rendere naturale, diceva di non bisbigliare a quel modo; niente è più scortese nei confronti di una persona che viene in visita, che darle l’impressione che si stia parlando di cose che non deve sentire; e si mandava in avanscoperta la nonna, sempre felice di avere un pretesto per fare un altro giro in giardino, e lei ne approfittava per strappare furtivamente, di passaggio, qualcuno dei sostegni dei rosai, per restituire alle rose un po’ di naturalezza, come una madre che, per renderli più ariosi, passi una mano tra i capelli del figlio che il parrucchiere abbia troppo appiattiti.

    Restavamo tutti in attesa delle notizie che la nonna ci avrebbe portato del nemico, come se si potesse esitare fra un gran numero di possibili assalitori, e subito dopo il nonno diceva: «Riconosco la voce di Swann». In effetti Swann lo si poteva riconoscere soltanto dalla voce; il suo viso dal naso aquilino, gli occhi verdi sotto un’alta fronte contornata di capelli biondi, quasi rossi, pettinati alla Bressant, lo si poteva distinguere a malapena perché in giardino tenevamo meno luce possibile per non attirare le zanzare e io, senza averne l’aria, andavo a dire di portare gli sciroppi; la nonna attribuiva grande importanza al fatto che gli sciroppi non comparissero come qualcosa di eccezionale, di riservato solo alle visite, lo trovava più cortese.

    Swann, benché molto più giovane di lui, era molto legato a mio nonno, che era stato uno dei migliori amici di suo padre, uomo eccellente ma singolare, al quale pareva a volte bastasse un niente per interrompere gli slanci del cuore, mutare il corso del pensiero. Più volte all’anno sentivo il nonno raccontare a tavola degli aneddoti, sempre gli stessi, sul comportamento tenuto da Swann padre, alla morte della moglie, che aveva vegliato giorno e notte. Il nonno, che non lo vedeva da molto tempo, era accorso da lui, nella tenuta che gli Swann possedevano nei dintorni di Combray, ed era riuscito, per evitare che assistesse alla chiusura della bara, a fargli abbandonare per un momento, in lacrime, la camera mortuaria. Fecero qualche passo insieme nel parco, dove c’era un po’ di sole. Tutt’a un tratto il vecchio Swann, prendendo mio nonno per un braccio, aveva esclamato: «Ah, mio vecchio amico, che gioia passeggiare insieme con questo bel tempo! Non li trovate una delizia, tutti questi alberi, questi biancospini, e il mio stagno, per il quale non m’avete mai fatto i complimenti? Ma… avete un’aria da funerale! Non lo sentite questo venticello? Eh, si ha un bel dire, la vita ha qualcosa di buono dopo tutto, mio caro Amédée!» Poi, bruscamente, era stato assalito dal ricordo della moglie morta e, trovando senza dubbio troppo complicato indagare come avesse potuto, in un momento simile, lasciarsi andare a un moto di gioia, si contentò, con un gesto che gli era familiare ogni volta che una questione difficile gli si presentava alla mente, di passarsi la mano sulla fronte e asciugarsi gli occhi e le lenti del pince–nez. E però non seppe consolarsi della morte della moglie, ma nei due anni che le sopravvisse diceva a mio nonno: «È strano, penso molto spesso alla mia povera moglie, ma non riesco a pensarci più di un tanto per volta».

    «Spesso ma un tanto per volta, come il povero Swann padre» era diventata una delle frasi predilette di mio nonno, che la pronunciava nelle occasioni più disparate. Avrei pensato che quello Swann padre fosse un mostro se il nonno, che io consideravo il migliore dei giudici, e le cui sentenze avevano per me valore di giurisprudenza, e mi hanno spesso aiutato, in seguito, ad assolvere colpe che sarei stato incline a condannare, non avesse protestato: «Ma cosa dici? era un cuore d’oro!»

    Benché per molti anni, soprattutto prima del suo matrimonio, Swann figlio venisse spesso a trovarli a Combray, la prozia e i nonni non ebbero mai il sospetto che lui non vivesse più nella società un tempo frequentata dalla sua famiglia, né di accogliere sotto quella sorta di incognito che gli assicurava in casa nostra il nome di Swann, – con la perfetta innocenza di onesti albergatori che, senza saperlo, diano ospitalità a un famoso brigante – uno dei più eleganti membri del Jockey–Club, amico prediletto del conte di Parigi e del principe di Galles, uno degli uomini più vezzeggiati dell’alta società del faubourg Saint–Germain.

    La nostra ignoranza circa la brillante vita mondana che Swann conduceva, dipendeva evidentemente, in parte, dalla riservatezza e dalla discrezione del suo carattere, ma anche dal fatto che i borghesi di allora avevano della società un’idea un po’ induista, nel senso che la consideravano composta di caste chiuse in cui ciascuno, sin dalla nascita, si trovava collocato nello stesso rango occupato dai suoi genitori e al quale nulla, tranne il caso di una carriera eccezionale o di un matrimonio insperato, avrebbe potuto sottrarlo, per farlo penetrare in una casta superiore. Swann padre era un agente di cambio; Swann figlio si trovava dunque a far parte, per tutta la vita, di una casta all’interno della quale le fortune, come in una categoria di contribuenti, variano a seconda del reddito. Si sapeva quali fossero state le frequentazioni del padre, dunque si sapeva quali fossero le sue, quali persone fosse in condizione, per così dire, di frequentare. Se ne conosceva di altro genere, erano relazioni da scapolo sulle quali dei vecchi amici di famiglia, come erano i miei parenti, chiudevano un occhio con tanta maggiore indulgenza in vista del fatto che, da quando era rimasto orfano, aveva continuato molto fedelmente a farci visita; ma c’era da scommettere di sicuro che le persone a noi sconosciute che frequentava, fossero del genere che non avrebbe osato salutare se, trovandosi in nostra compagnia, gli fosse capitato di incontrarle. Volendo a tutti i costi applicare a Swann un coefficiente sociale personale, rispetto agli altri figli di agenti di cambio di condizione pari a quella dei suoi genitori, quel coefficiente sarebbe stato per lui leggermente inferiore perché, molto semplice di modi e da sempre affetto da una infatuazione per gli oggetti antichi e la pittura, abitava allora in un vecchio palazzo dove accatastava le sue collezioni, e che mia nonna sognava di visitare, ma era situato sul quai d’Orléans, un quartiere dove la mia prozia trovava fosse indecente abitare. «Ma almeno ve ne intendete? Ve lo chiedo nel vostro interesse, perché temo che vi facciate rifilare delle croste dai mercanti», gli diceva la prozia; in effetti, non gli attribuiva la minima competenza, e non aveva una grande opinione, nemmeno dal punto di vista intellettuale, di un uomo che, nella conversazione, evitava gli argomenti seri e mostrava una pedanteria molto prosaica, non solo quando, entrando nei minimi dettagli, ci forniva delle ricette di cucina, ma anche quando le sorelle della nonna parlavano di argomenti artistici. Sollecitato da loro a dare il suo parere, a esprimere la sua ammirazione per un quadro, manteneva un silenzio quasi scortese, ma in compenso si prendeva la rivincita se poteva fornire, sul museo dove il quadro si trovava o sulla data del dipinto, un’informazione concreta. Ma di solito si contentava di cercare di divertirci ogni volta col racconto di una nuova storia che gli era appena capitata con persone scelte tra quelle che conoscevamo, il farmacista di Combray, la nostra cuoca, il nostro cocchiere. Certo erano racconti che facevano ridere la mia prozia, ma senza che lei capisse se fosse per il ruolo ridicolo che Swann immancabilmente vi si attribuiva o per lo spirito che metteva nel racconto: «Siete proprio un bel tipo, Swann!», gli diceva. Essendo la sola persona un po’ volgare della nostra famiglia, aveva cura di far notare agli estranei, quando si parlava di Swann, che se lui avesse voluto, avrebbe potuto abitare in boulevard Haussmann o in avenue de l’Opéra, che il padre doveva avergli lasciato quattro o cinque milioni, ma quella è una sua stranezza. Stranezza che lei, del resto, doveva ritenere molto divertente per gli altri visto che a Parigi, quando Swann veniva il giorno di Capodanno a portarle il suo pacchetto di marrons glacés, non mancava mai, se c’era gente, di dirgli: «E allora, Swann, abitate sempre vicino al Deposito dei vini, per essere sicuro di non perdere il treno quando dovete andare a Lione?» E sbirciava di traverso, al di sopra dell’occhialetto, gli altri ospiti.

    Ma se avessero detto alla mia prozia che quello Swann, che in quanto Swann figlio, era perfettamente qualificato per essere ricevuto da tutta la buona borghesia, dai notai o dai procuratori più in vista di Parigi (privilegio che lui sembrava non tenere in gran conto), conduceva, come di nascosto, una vita completamente diversa; che, uscendo da casa nostra, a Parigi, dopo averci detto che andava a dormire, tornava invece sui suoi passi, appena girato l’angolo, e si recava in uno di quei salotti che mai occhio d’agente o di socio d’agente poté contemplare, questo le sarebbe parso tanto straordinario quanto, a una dama più letterata, il pensiero di essere personalmente legata ad Aristeo e di venire a sapere che, dopo aver chiacchierato con lei, lui corre a sprofondarsi in seno ai reami di Teti, in un impero sottratto alla vista dei mortali, e dove Virgilio ce lo descrive accolto a braccia aperte; oppure, per limitarci a un’immagine che aveva più probabilità di venirle in mente, perché l’aveva vista dipinta sui nostri piattini da dolce a Combray – d’aver avuto a pranzo Alì Babà, il quale, appena sarà certo di essere solo, s’infilerà nella sua caverna abbagliante di tesori insospettati.

    Una volta, che Swann era venuto a trovarci a Parigi, dopo cena, scusandosi d’essere in abito da sera, e Françoise, dopo che se n’era andato, aveva detto di aver saputo dal cocchiere che aveva cenato «da una principessa», – «Sì, da una principessa del demimonde!» aveva detto la zia alzando le spalle senza sollevare gli occhi dal lavoro a maglia, con serena ironia.

    Così, la zia lo trattava con scarsa considerazione. Convinta che lui dovesse sentirsi lusingato dai nostri inviti, le pareva del tutto naturale che quando veniva a trovarci, d’estate, si presentasse immancabilmente con in mano un cestino di pesche o di lamponi del suo giardino, e che da ogni suo viaggio in Italia mi portasse delle fotografie di capolavori.

    Non ci facevamo il minimo scrupolo di mandarlo a chiamare se ci serviva una ricetta per preparare una maionese gribiche o un’insalata all’ananas in vista di qualche cena importante alla quale non lo si invitava, non riconoscendogli un prestigio sufficiente per poterlo presentare a degli estranei che venivano per la prima volta. Se la conversazione cadeva sui prìncipi della Casa di Francia, «gente che né voi né io conosceremo mai, e ne facciamo volentieri a meno, non è vero?», diceva la prozia a Swann, che magari aveva in tasca una lettera proveniente da Twickenham; le sere in cui la sorella della nonna cantava, gli faceva spostare il pianoforte e girare le pagine dello spartito, usando, nel trattare quell’essere altrove così ricercato, la rozzezza ingenua di un bambino che giochi con un ninnolo da collezione senza maggior cautela che con un oggetto da pochi soldi. Senza dubbio, lo Swann conosciuto in quegli anni da tanti membri del Jockey Club era assai diverso da quello cui dava vita la mia prozia, quando la sera, nel piccolo giardino di Combray, dopo ch’erano risuonati i due rintocchi esitanti della campanella, lei iniettava e vivificava, con tutto quello che sapeva sulla famiglia Swann, l’oscuro e incerto personaggio che, seguito da mia nonna, si stagliava, su uno sfondo di tenebre, e che riconoscevamo dalla voce. Ma anche sotto il profilo delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un insieme materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non ha che da prendere visione come di un capitolato d’appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui. Persino l’atto così elementare che chiamiamo vedere una persona che conosciamo è in parte un atto intellettuale. Noi riempiamo l’apparenza fisica dell’essere che ci sta davanti di tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell’immagine totale che di lui ci rappresentiamo, quelle nozioni hanno senza dubbio la parte più importante. Finiscono per gonfiare con tanta perfezione le gote, per seguire con tale esatta aderenza la linea del naso, si incaricano così bene di sfumare la sonorità della voce, come se questa non fosse che un involucro trasparente, che ogni volta che vediamo quel viso e sentiamo quella voce, sono loro le nozioni che noi ritroviamo, che noi ascoltiamo. Senza dubbio, nello Swann che si erano costruiti, i miei avevano omesso, per ignoranza, di far entrare una quantità di particolari della sua vita mondana che davano modo ad altre persone, quando erano in sua presenza, di vedere l’eleganza regnare sul suo volto e arrestarsi al suo naso aquilino come al proprio confine naturale; ma, in compenso, avevano potuto concentrare in quel viso, svuotato del suo prestigio, vuoto e spazioso, in fondo a quegli occhi deprezzati, il vago e dolce residuo – metà memoria, metà oblìo – delle ore di ozio passate insieme dopo le nostre cene settimanali, intorno al tavolo da gioco o in giardino, durante la nostra vita di buon vicinato campagnolo. L’involucro corporeo del nostro amico ne era stato così ben colmato, con l’aggiunta di qualche ricordo dei suoi genitori, che quello Swann era diventato un essere compiuto e vivente, e io ho l’impressione di lasciare una persona per andare verso un’altra e ben distinta, quando, nella mia memoria, dallo Swann che ho conosciuto più tardi con esattezza, passo a quel primo Swann – a quel primo Swann nel quale ritrovo gli incantevoli errori della mia giovinezza e che d’altronde somiglia meno all’altro che non alle persone da me conosciute nello stesso periodo, come se della nostra vita fosse come di un museo, dove tutti i ritratti di una stessa epoca hanno un’aria di famiglia, una tonalità comune – a quel primo Swann immerso nell’ozio, avvolto dal profumo del grande castagno, dei cestini di lamponi e di un pizzico di dragoncello.

    Tuttavia, un giorno che la nonna era andata a chiedere un favore a una signora conosciuta al Sacré–Cœur (e con la quale, a causa del nostro concetto di caste, non aveva voluto restare in relazione nonostante la reciproca simpatia), la marchesa di Villeparisis, della celebre famiglia di Bouillon, questa le aveva detto: «Credo che voi conosciate bene M. Swann, è un grande amico dei miei nipoti des Laumes».

    La nonna era tornata da quella visita entusiasta della casa che aveva la vista sui giardini, e dove Mme de Villeparisis le consigliava di prendere in affitto un appartamento, e anche per un farsettaio e per sua figlia che avevano la bottega nel cortile, e dai quali era entrata per chiedere che le dessero un punto alla gonna che s’era strappata sulle scale. La nonna li aveva trovati perfetti, diceva che la ragazza era una perla e il farsettaio il più distinto e il migliore degli uomini. Per lei, infatti, la distinzione era qualcosa di assolutamente indipendente dal rango sociale. Era rimasta entusiasta per una risposta che lui le aveva dato, e aveva detto alla mamma: «Sévigné non avrebbe detto meglio di così!» e invece, di un nipote di Mme de Villeparisis, conosciuto in casa sua, aveva detto: «Ah, figlia mia, com’è ordinario!»

    Ora quel discorso su Swann aveva avuto per effetto non già di innalzarlo agli occhi della mia prozia, ma quello di abbassare Mme de Villeparisis. Era come se la considerazione che noi, sulla parola della nonna, accordavamo a Mme de Villeparisis, le imponesse il dovere di non far nulla per rendersene meno degna, dovere al quale era venuta meno apprendendo dell’esistenza di Swann e permettendo a dei suoi parenti di frequentarlo. «Ma come! conosce Swann? Una persona che, come tu dicevi, sarebbe parente del maresciallo Mac–Mahon?» Quella opinione dei miei sulle amicizie di Swann, parve loro più tardi confermata dal suo matrimonio con una donna della peggiore società, quasi una cocotte, che d’altra parte lui non cercò mai di presentarci, continuando a venire a casa nostra da solo, pur se sempre più di rado, ma attraverso la quale credettero di poter giudicare – supponendo che da lì l’avesse presa – l’ambiente, a loro sconosciuto, che lui abitualmente frequentava.

    Una volta, però, mio nonno lesse in un giornale che Swann era uno dei più assidui frequentatori dei pranzi domenicali in casa del duca di X..., il cui padre e il cui zio erano stati gli uomini di stato più in vista durante il regno di Luigi Filippo. Ora il nonno era curioso di ogni minimo fatto che potesse aiutarlo a penetrare idealmente nella vita privata di uomini come Molé, come il duca Pasquier o il duca di Broglie. Fu deliziato di sapere che Swann frequentava qualcuno che li aveva conosciuti. La prozia, invece, interpretò la notizia in senso sfavorevole a Swann: uno che sceglieva di frequentare persone al di sopra della casta in cui era nato, al di fuori della propria classe sociale, subiva ai suoi occhi un increscioso declassamento. Le sembrava che si rinunciasse di colpo al vantaggio di tutte le buone relazioni con gente per bene, che le famiglie previdenti avevano onorevolmente intrattenuto e accumulato per i loro figli (lei aveva addirittura smesso di frequentare il figlio di un notaio, nostro amico, perché aveva sposato un’altezza reale e quindi era decaduto, secondo lei, dal rispettabile rango di figlio di notaio al rango di uno di quegli avventurieri, ex camerieri o stallieri, ai quali si dice che le regine concedessero a volte qualche favore). La prozia biasimò il progetto del nonno di interrogare Swann, la prima volta che fosse venuto a cena da noi, su quegli amici che noi gli avevamo scoperto. Dal canto loro le due sorelle della nonna, anziane signorine che avevano la sua stessa nobiltà d’animo, ma non la stessa intelligenza, dissero di non comprendere quale piacere il cognato potesse trarre dal discorrere di simili sciocchezze. Erano persone di elevate aspirazioni e proprio per questo incapaci di interessarsi a quello che si dice un pettegolezzo, fosse pure di interesse storico, e in generale a tutto quanto non avesse direttamente a che fare con un argomento estetico o virtuoso. Il disinteresse dei loro pensieri per tutto ciò che sembrava più o meno vagamente collegarsi alla vita mondana era tale che il loro senso uditivo – avendo finito per rendersi conto della propria momentanea inutilità ogni volta che a tavola la conversazione assumeva un tono frivolo o semplicemente terra terra, ad onta dei tentativi delle due zitelle di riportarla ai loro argomenti preferiti – metteva a riposo gli organi di ricezione, lasciando che subissero un vero e proprio principio di atrofia. Allora, se il nonno aveva bisogno di attirare l’attenzione delle due sorelle, doveva far ricorso a quei segnali fisici che usano i medici alienisti con certi maniaci della distrazione: colpi battuti a più riprese su un bicchiere con la lama di un coltello, insieme a un brusco richiamo della voce e dello sguardo – mezzi violenti che gli psichiatri trasferiscono spesso nei loro normali rapporti con persone sane, sia per abitudine professionale, sia perché ritengono che tutti siano un po’ matti.

    Le due anziane signorine manifestarono maggior interesse quando, la vigilia di un giorno in cui Swann doveva venire a cena, e aveva inviato a loro personalmente una cassa di vino di Asti, la zia, con in mano un numero del «Figaro» dove, a fianco del titolo di un quadro esposto a una mostra di Corot, c’erano queste parole: dalla collezione di M. Charles Swann, ci disse: «Avete visto che Swann è salito agli onori del Figaro?» – «Ma ve l’ho sempre detto che aveva molto buon gusto», disse la nonna. «Ecco, naturalmente tu, quando si tratta di contraddirci», rispose la prozia la quale, sapendo che la nonna non era mai d’accordo con lei, e non essendo ben sicura che noi, a nostra volta, le dessimo sempre ragione, voleva strapparci una condanna in blocco delle opinioni della nonna cercando di farci solidarizzare per forza con le sue. Ma noi restammo in silenzio. Le sorelle della nonna avevano manifestato l’intenzione di parlare a Swann di quel trafiletto riportato dal «Figaro», ma la prozia le sconsigliò. Ogni volta che vedeva negli altri un elemento di superiorità, per quanto piccolo ma che lei non aveva, si persuadeva che non fosse un elemento di superiorità ma un male, e li compiangeva per non essere costretta a invidiarli. «Credo che non gli fareste piacere; per me sarebbe molto sgradevole vedere il mio nome stampato così a tutte lettere sul giornale, e non sarei affatto lusingata se qualcuno me ne parlasse». Non dovette, del resto, far molta fatica a convincere le sorelle della nonna perché queste, per orrore della volgarità, spingevano a tali vette l’arte di dissimulare, sotto perifrasi ingegnose, un’allusione personale, che spesso passava inavvertita dalla persona stessa cui era rivolta. Quanto a mia madre, cercava solo di ottenere da mio padre che consentisse a parlare a Swann non della moglie, ma della figlia, che Swann adorava e a causa della quale, si diceva, aveva finito per fare quel matrimonio. «Potresti dirgli almeno una parola, chiedergli come sta. Dev’essere una cosa talmente crudele per lui». Mio padre si irritava: «Ma no! che idee assurde. Sarebbe ridicolo».

    Ma il solo tra noi per cui la visita di Swann divenisse oggetto di una preoccupazione dolorosa, ero io. Infatti, le sere in cui c’erano degli estranei, o soltanto Swann, la mamma non saliva nella mia stanza. Cenavo prima di tutti gli altri e poi andavo a sedermi a tavola, ma solo fino alle otto, quando era convenuto che dovessi salire in camera mia; quel bacio prezioso e fragile che la mamma mi affidava di solito quando ero nel mio letto al momento di addormentarmi, mi toccava trasportarlo dalla sala da pranzo alla mia camera e custodirlo per tutto il tempo in cui mi spogliavo, senza che la sua dolcezza si infrangesse, senza che si disperdesse o evaporasse la sua volatile virtù e, proprio quelle sere in cui avrei avuto bisogno di riceverlo con maggiore precauzione, occorreva che lo afferrassi, che lo sottraessi bruscamente, in pubblico, senza nemmeno avere il tempo e la libertà di spirito necessari per dedicare, a quello che facevo, quell’attenzione speciale

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