La mala luce
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Anteprima del libro
La mala luce - Luigi Carbone
100-101
Uno
23 dicembre, lunedì mattina presto
Incurante del movimento corale e assonnato nei palazzi, il tale fermo sotto la pensilina guardava dritto davanti ai suoi occhi. Lo avreste detto uno di quegli sguardi che servono a non guardare niente. Ma forse qualcosa guardava, perforando con la linea che parte dalle pupille la cortina di fredda umidità che stava tra lui e il marciapiede di fronte.
Dall’altro lato della strada non c’era nulla.
Solo l’altra pensilina.
Vuota.
Lo era sempre a quell’ora, perché era troppo presto per uscire di casa e troppo tardi per tornarci. Che stava a guardare allora? Niente. Guardava il marciapiede, isola al di là di un mare insidioso e letale. La linea dritta rialzata dietro la schiena dell’asfalto era un approdo inarrivabile.
Cinque volte racceso e tante casso. Da quanto tempo stesse aspettando di riuscire ad attraversare se l’era scordato. L’attesa consuma, fa male ai piedi e alla testa, soprattutto se sei uno puntuale, che arriva sempre qualche minuto prima per essere in orario.
E lui puntuale lo era sempre stato.
Chissà come riusciva a stare immobile da... da quanto... ore... minuti... ere..., ma di uscire fuor del pelago alla riva non voleva saperne l’animo suo.
Maledetto corsivo.
Sopra la linea del marciapiede, al di là della tempesta c’era casa sua. Un palazzo di cinque piani. Abitava al quinto e sulla scrivania dello studio lo aspettava ancora la lezione su Dante che avrebbe dovuto preparare per il sabato prima.
Allegoria e simbolo nella Commedia. Ecco, per far capire ai suoi alunni cosa fosse un simbolo avrebbe usato l’immagine di se stesso bloccato dal corsivo, incurante della pioggia che cadeva giù con forza.
Simbolo dell’attesa.
Allegoria del non ritorno.
Fermo. La pensilina era di quelle col tetto in plexiglass che, squassato dalla pioggia, suonava come un tamburo stonato e caciarone.
Avrebbe dovuto spiegare non Dante agli alunni, ma il perché del suo incredibile ritardo.
A sua moglie.
Cosa del tutto normale, considerando che era l’antivigilia di Natale.
Doveva tornare a mezzogiorno del 21. Erano le sei di mattina di due giorni dopo.
Aprì la porta e il vento che arrivava dalle sue spalle si infilò rapido in casa, spalancando il balcone.
Preso dall’aura d’indifferenza con cui da giorni si avvolgeva, lo schianto dei vetri che in altri momenti lo avrebbe fatto spaventare stavolta lo fece solo imprecare dalla rabbia.
Quasi bestemmiò.
Quasi.
Le bestemmie lo infastidivano e si tratteneva, anche quando la bestemmia gli affiorava a fil di pensiero. Il santo di turno gli si affacciava dal pulpito del cervello e levava l’indice punitore. Lui serrava le labbra e non la diceva.
Ma la pensava eccome.
Rimase immobile chissà quanti istanti per sentire se qualcuno, in casa, si fosse svegliato. Il respiro trattenuto per poter percepire anche il più piccolo soffio.
Apnea. Silenzio. Mani ferme. Piedi immobili. Niente.
Ancora apnea. Basta non ce la faccio più ora mollo. Cadenzava il soffio che gli premeva sulle labbra gonfiandogli la bocca. Tutto tranquillo. Lasciò che l’ombrello sgocciolasse fuori e richiuse la porta.
Piano.
Lei l’aveva serrata con tutte le mandate.
Non sapeva se l’aveva cercato, perché aveva spento il cellulare. Non lo riaccendo mica adesso che mi suonano i messaggi. Si tolse il soprabito attento a fare meno rumore possibile e lo stesso fece con le scarpe. Aspettò che gli occhi si adattassero al buio e, indolente, si avviò verso il bagno per andarsi a spogliare dei vestiti umidi.
Sapeva che era sveglia.
Era impossibile che in casa ci fosse tutta quella calma.
Era impossibile che nessuna luce accesa lo stesse aspettando all’arrivo come faceva invece sua madre, quando tornava tardi dalla chiacchierata in piazza con gli amici. Nessuno lo aveva chiamato perché lui aveva spento il telefono, ma che nessuno lo avesse cercato e aspettato in piedi con la luce accesa...
Era impossibile e fuori posto.
Indossato il pigiama si era infilato sotto le coperte, in posizione fetale sul fianco destro, girato verso il lato esterno. Dicono sia naturale coricarsi così con la faccia verso fuori, è l’istinto che si mette in guardia o una cosa del genere. Dicono o me l’hanno detto. Balle, si era messo così per non respirarle addosso, non toccarla, non muoverla, non svegliarla. Ce l’aveva con lei perché non l’aveva aspettato con la luce accesa, non si era preoccupata, avrebbe preferito mille volte più una che gli avesse spaccato addosso insulti e sguardi furiosi come faceva sempre quando litigavano.
Invece niente.
Indifferente.
Steso sul fianco, nell’immobilità della posizione fetale e con una mano tra le cosce, i pensieri contro di lei gli impedivano di prendere sonno e si concentravano tra gli occhi, in un punto che iniziava a fare male. In realtà era una scusa per restare in attesa, pronto a scattare al suo primo movimento, anche il più impercettibile. Zitto, aspettava che il silenzio si ammorbidisse e si asciugasse fino all’assenza totale di suoni per sentire se lei respirava.
Iniziò a percepire il soffio che coincideva con l’alzarsi e abbassarsi del lenzuolo.
Aspetta aspetta aspetta, fermo, immobile, rigido per il mal di testa che si era fatto insopportabile, intanto dalla finestra passavano sull’armadio di fronte al letto i primi punti gialli della luce che nasceva. In un attimo il giallo scolorò nel grigio mezzo buio che ancora appestava la stanza col suo odore di corpi fiacchi.
Era l’alba ma non c’era luce.
Dante era lì sulla scrivania, lo aveva aspettato tutta la notte per niente.
Intanto, però, toccava mettere in moto la mattinata.
Guardò la sveglia sul comodino, i numeri verdi segnavano le sei e cinquantuno. Si alzò per preparare il caffè, magari non s’era accorta di niente e se lui l’avesse svegliata col caffè avrebbero fatto pace. Andando verso la cucina recitò a memoria, Poi ch’ei posato un poco il corpo lasso (gli capitava spesso di pensare in corsivo), la stanchezza gli bruciava ancora occhi e muscoli. Compì gesti noti, che lo facevano sentire protetto, accese il fuoco e aspettò, fermo su una gamba piegata, che salisse il caffè.
Senza accorgersene si trovò davanti al letto con in mano il piatto su cui aveva messo le due tazzine e i biscotti per la colazione.
Il caffè
.
Mmmh... a che... che ora è?
.
Quasi le sette
.
E tu a che ora sei tornato?
.
Tardi
.
Tardi quando?
.
Non mi hai aspettato
.
No. Hai portato solo il caffè?
.
Anche i biscotti
.
Oggi devo uscire presto
.
Perché non mi hai aspettato?
.
Avevo sonno. Oggi a che ora torni?
.
Oggi non torno. Oggi resto a casa. È il 23
.
Ci vediamo a ora di pranzo?
.
Mi sa che torni prima
.
Hai ragione ero stanca
.
Pensavo ti fossi preoccupata, avevo spento il cellulare
.
Ho chiamato una volta, ho pensato fosse scarico
.
Non mi hai cercato
.
Guarda dovevo fare un sacco di cose, i panni, gli zaini, il bagno. Ti ho stirato tre camicie
.
Sì... senti ti va
.
Ma non portare altri biscotti, solo caffè
.
No... volevo dire... chiudo la porta sennò si svegliano i bambini
.
Guarda che tempo fa
.
Piove
.
Ma tu hai guardato?
.
Piove ancora
.
Lascia aperto, vado in bagno adesso così poi è libero
.
Andò, riempì di nuovo le tazzine, le rimise sul piatto, tornò in camera da letto poggiò il piatto sul comodino e si tese, lasciando la porta aperta.
Oggi mi sa che non esco, non mi sento bene
.
Lei intanto era tornata in stanza, nuda davanti al letto profumava di deodorante, indossò slip e reggiseno, calze pantaloni camicia scarpe.
Si è meglio stai a casa riposati
.
Ma i bambini dobbiamo proprio mandarli?
.
Scuola aperta
.
Ma le scuole sono chiuse
.
Stamattina hanno la recita, te lo ricordi sì che è una scuola privata
.
Vado a prendere gli zaini
.
I bambini li accompagno io, tu resta a letto
.
Si girò dall’altra parte e finalmente prese sonno.
Quando si svegliò i numeri verdi segnavano le nove e sette minuti. Erano già usciti. Tutti. Tranne Dante che indugiava sulla scrivania. Si alzò per chiamare a scuola ma quando fece per afferrare la cornetta si ricordò che era vacanza. Stava per andare in cucina quando il telefono squillò.
Sì… Militano sono io... mamma... e che è stato?
.
***
Era già la terza volta che premeva il pulsante del campanello, per tre volte quel carillon bitonale che iniziava a maledire aveva diffuso le sue onde sonore dall’altra parte della porta, ma la signora del terzo piano non aveva ancora dato segno di essersi alzata dal letto.
Da un po’ di mesi Salvatore Annibale, professione postino precario che arrotondava il magro stipendio riproducendo e vendendo copie perfette di quadri d’autore, grazie ad un talento non comune ma annoiato, dedicava parte del proprio tempo a dare una mano agli inquilini più amabili, e anziani, del palazzo. In quell’edificio che segnava il confine tra il punto in cui la strada finiva di essere dritta e piana per scendere e curvare, c’erano otto appartamenti in tutto, al primo piano sulla sinistra abitavano Salvatore e la sua famiglia, moglie, due figli, un cane e un conto in banca che viveva sempre al confine con il fido, che non è il nome del cane.
L’appartamento di destra era occupato da una coppia che dava l’idea di essere ben poco assortita, lui alto e con lo sguardo fintamente acuto, in realtà guardava in quel modo perché il più delle volte non capiva quello che diceva chi gli stava davanti, lei minuta, bionda con ricrescita metà grigia e metà castana, tabagista convinta e con addosso vestiti decisamente al di sopra delle possibilità offertele dal suo lavoro di segretaria parzialmente in nero.
Avevano un unico figlio quindicenne, attualmente in lotta con l’acne e una carenza di sfogo ormonale parecchio evidente.
Il secondo piano era a conduzione familiare, due sorelle abitavano una di fronte all’altra con un marito a testa. La prima ad arrivare era stata la bionda, vera stavolta, che stava lì da quarant’anni. L’altra sorella, mora e con gli occhiali, in quella palazzina ci abitava da neanche un anno, casalinga lei impiegato quasi in pensione lui. La vita li aveva lasciati senza figli, per fortuna dicevano parenti e conoscenti sennò sai che minchioni, così riempivano il loro rapporto di coppia con continue telefonate, di lui a lei ovviamente, per raccontarsi il nulla romantico di giornate fintamente felici.
Al terzo piano ci abitavano a sinistra il farmacista del quartiere, che viveva da solo, lasciato dalla moglie per malattia, dai figli per lavoro e dalle badanti per molestie, e a destra una vedova che viveva anche lei da sola perché da un paio di anni l’unico figlio si era trasferito a Roma per lavoro con tutta la famiglia. Non ci stava moltissimo con la testa, negli ultimi tempi aveva anche sfoderato una certa intolleranza verso buona parte dei vicini, ma soprattutto delle badanti che, fuggite dal farmacista con l’istinto da piovra, venivano per lei assunte e da lei defenestrate al ritmo di una ogni paio di settimane.
Il quarto e ultimo piano era stato in parte colonizzato dagli inquilini del lato sinistro, lui ragioniere, commercialista e contabile di un paio di supermercati, lei segretaria a mezzo servizio nello studio di un collega del marito. Figli tre laureati e ormai lontani migliaia di chilometri, i due s’erano appropriati del pezzo di pianerottolo che dalla loro porta d’ingresso arrivava fino al corrimano delle scale, chiudendolo con un cancelletto di quelli a mezza altezza dagli spuntoni a freccia
Ci mancavano solo il fossato col ponte levatoio, i pentoloni di pece bollente e le nebbie di Avalon.
Col feudo inespugnabile confinava uno spazietto ristrettissimo che consentiva i movimenti essenziali di fronte all’altra porta del pianerottolo, dietro la quale si celava la vita tranquilla di una coppia d’insegnanti in pensione ormai da oltre un decennio, senza figli e con una passione per la cucina che faceva odorare di cipolla bollita tutto il palazzo a qualunque ora e in qualunque stagione. Completavano il quadro il pian terreno, con lo studio di un avvocato i cui clienti lasciavano sistematicamente il portone aperto, e il negozio di generi alimentari che occupava una specie di garage rialzato di fianco al portone d’ingresso.
Sul piccolo lembo di mattonelle coperto da uno zerbino con sopra il Colosseo, dono del figlio romano, stava al terzo piano quella mattina Salvatore Annibale, che aveva preso a cuore le sorti di quella vecchietta ormai trasformata in una sottospecie di monaca lunatica devota alla parzialclausura, tranne che quando andava al negozio sotto casa per quella spesa che una volta faceva da sola e adesso, talvolta, in compagnia di una badante o, più spesso, del suddetto Salvatore.
La vedova, che aveva alle spalle un passato glorioso di ostetrica, nemmeno guidava più, per cui ogni tanto il signor Annibale, che aveva fatto in modo da incrociare i suoi lunedì liberi con le uscite della signora, accompagnava quella cara anzianotta a fare i suoi giri che iniziavano, incontrovertibilmente, con la visita dal medico. Intendiamoci, la visita più che medica era stata sempre di pura cortesia della canuta al cerusico e non viceversa, lei chiedeva e lui si confessava. Ma ultimamente le cose si erano invertite. Nel frattempo la badante aveva il tempo di dare una pulita come si deve alla casa, senza paura di essere seguita e ripresa se per caso il secchio dell’acqua avesse sputato giusto un’anima di saliva profumata in più. Ogni tanto alle accompagnate ci scappava una mancia, che Salvatore educatamente rifiutava per poi garbatamente accettare dietro le decorose pressioni della cordiale, amabile, affabile, gentile, educata e parecchio svagata inquilina del terzo piano lato destro.
***
La telefonata era arrivata in centrale passando inizialmente inosservata attraverso il filtro della cornetta, aumentando in importanza e in volume insieme alla voce della denunciante.
A chiamare era stata la proprietaria del negozio di generi alimentari in fondo a via Nicola Pizi, preoccupata perché da una settimana la signora del terzo piano non stava andando a fare la spesa, che poi erano sempre pane mezzo chilo ogni tre giorni, pasta mezzo chilo ogni due giorni, e un po’ di formaggio tutti i giorni. Che quella era precisa come se non fosse meridionale e per di più calabrese, aveva detto accrescendo in volata il sovraccarico delle corde vocali quale maratoneta vicino al traguardo, per poi riprendere come un mantra l’elenco delle cose da mangiare comprate quotidianamente dalla signora, la quale nella concitata narrazione telefonica la negoziante aveva già etichettato come povera anzi amara emettendo così un’inappellabile sentenza di morte.
Dapprima aveva attribuito l’assenza prolungata al fatto che, da poco meno di una settimana, la signora era rimasta senza una donna che l’accudisse. L’ultima era andata via sbattendo la porta dopo l’ennesima offesa ricevuta gratis et amore dei, per cui la vedova anziana ma non troppo era rimasta da sola. Povera, morta, defunta, amara, ergo ottimo oggetto-soggetto delle chiacchiere di bottega per almeno qualche mese, certamente fino alla fine dell’estate. E si era a due passi dal Natale.
A mettere in allarme la solerte affettatrice di salami e trituratrice di cazzi altrui era stato il signor Annibale, il quale preoccupato dal fatto che la Militano non aprisse la porta era andato a chiedere se per caso non fosse già uscita e passata dal negozio, che quella quando era sola era capacissima di avere di queste pensate. Visto che era lunedì dovevano uscire per il giretto settimanale dal medico e al supermercato. Insomma, faceva per lei ciò che avrebbe fatto un parente, magari un nipote, un figlio, e intanto c’era già chi spettegolava insinuando un interesse non esattamente filantropico.
Da una sponda all’altra di via Pizi si riteneva infatti, con pervicace convinzione, che l’operoso signor Annibale intendesse farsi lasciare in eredità l’appartamento, approfittando della vaporosità cerebrale della signora.
Meschini.
Pettegoli.
Impiccioni.
Però però…
Abitava da sola la signora, aveva settantasei anni e quel figlio che risiedeva a Roma veniva a trovarla, riferivano le conversazioni al negozietto sotto casa, appena due volte all’anno, una settimana a Natale (dunque tra poco) e ad agosto in estate. In mezzo un paio di telefonate, sempre stando alle riferite conversazioni, poche e spedite in esilio nell’angolo remotissimo di materia cerebrale che la coscienza riserva alle feste comandate e ai sensi di colpa.
La signora, che di cognome faceva Militano e di nome Sina, nella maggior parte delle azioni e dei pensieri quotidiani