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La chiave di Auberon: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.3
La chiave di Auberon: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.3
La chiave di Auberon: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.3
E-book668 pagine6 ore

La chiave di Auberon: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.3

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Info su questo ebook

Matteo, ormai divenuto talentuoso giornalista d'inchiesta, si ritrova, suo malgrado, al centro delle cospirazioni esoterico finanziarie che hanno già inghiottito Ermes in Africa, ed è costretto a scendere in campo accanto a Milena, della quale conosce solo voce e parole virtuali, che lo attrae verso una Venezia affascinante e coinvolgente alla ricerca dell'unico che possa aiutare i Neracroce: Icaro. Nel frattempo Christian Ruggeri, invischiato in nere trame di spionaggio internazionale, indaga per decodificare, e ostacolare, i piani di Oruley, che sta ormai per stringere il cerchio intorno al traguardo più terribile mai realizzato dalla HiT: Auberon, un progetto nato nel lontano 1933, quando Lidia Furlan, ambiziosa e spregiudicata ricercatrice, lavora inconsapevolmente per la Fratellanza degli Illuminati, innestata nelle sperimentazioni naziste. Sarà la travolgente passione per il ricco Davide Ruggeri, affascinante spia e legato alla linea di sangue dei Valenti, a condurla a un cambio di prospettiva che la porterà tra gli intrighi della Berlino incupita dal presagio di una nuova devastante guerra, alla ricerca degli scritti perduti del Codice dell'Inquisitore.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2019
ISBN9788893781343
La chiave di Auberon: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.3

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    Anteprima del libro

    La chiave di Auberon - Vania Russo

    intenzionale.

    1

    Rive del Tagliamento, luglio 2018

    La storia in cui era caduto era fittamente frequentata da vivi e da morti. Per questo ogni volta, nella follia dell’oscurità, gli spettri tornavano. Così, rivedeva Ermes tra il porpora del sangue e l’ocra della sabbia, il volto cancellato dal colpo ravvicinato di pistola, le gambe dinoccolate, assurdamente piegate; e poi ritrovava sua madre Emma chiusa dentro un involucro di plastica nera, la cerniera lampo aperta e l’urlo muto del terrore a divaricare la bocca. Allora la smania dolorosa che lo malediva da mesi lo devastava di nuovo; ancora ficcata nello stomaco, come un verme che gli rodeva le interiora. Per questo per mesi aveva cercato di restare sveglio, come fosse un pazzo malato di insonnia cronica, ma, poi, inevitabilmente crollava. Alla fine aveva ritrovato un indulgente equilibrio con se stesso, sebbene sapesse che a ogni brandello di pace corrispondevano insostenibili asimmetrie di umore, fino all’insofferenza verso il più banale evento quotidiano. Ermes ed Emma erano stati uccisi. Matteo avrebbe voluto strappare le tende che nascondevano l’occulto, sarebbe stata l’unica vera soluzione possibile, per quanto drammaticamente la più impossibile. A quella diarchia di cuore e mente non aveva ancora trovato una soluzione, però ci pensava sempre.

    Ci pensava anche mentre camminava nella valle gonfiata dal buio delle due del mattino e dall’umidore del fiume che esasperava l’aria con un vapore pesante, che lo faceva sudare e lo costringeva a continui ampi movimenti delle braccia, per staccare la camicia dalla schiena. La musica techno, sparata a un volume insopportabile, rimbalzava espandendosi con la tipica disarmonia acustica di un effetto doppler. Corpi infiammati dalle luci si agitavano in un bailamme astruso, imprigionati in un febbrile allestimento multimediale in cui il ripetersi ossessivo di movimenti sempre uguali aggravava l’assillante sovraffollamento puntellato da accecanti neon stroboscopici.

    Lui si infilò con attenzione tra i partecipanti.

    «Dal casino che sento direi che sei entrato».

    La voce dal tono morbido, femminile si insinuò nell’orecchio di Matteo direttamente dall’auricolare, così piccolo da passare del tutto inosservato.

    «Sì, sono nella mischia».

    «Il posto è vicino al fiume?»

    Matteo si girò a guardare la magnifica serpentina d’acqua.

    «Attaccato al Tagliamento, come avevi detto», confermò.

    «Devi trovare Naraka».

    «Lo so, però in questo casino sarà un’impresa». Milena accese di respiri muti la conversazione, un intervallo sovraccarico di turbamento, e lui si fermò, aspettando che quel fiato metallico tornasse ad avere forma di parola. «Ci sei?», domandò.

    «Non credo sia in mezzo alla festa», riprese lei. «È uno che si tiene in disparte per mantenere tutto sotto controllo. Hai cambiato l’immagine del profilo», aggiunse, la variazione di tema vibrò nella voce. «I capelli corti sono a posto, però la barba tipo non mi rado da tre giorni ti invecchia».

    «Ho messo una foto recente», confermò Matteo, cedendo a un sorriso.

    «Ti sto guardando».

    «Mi stai distraendo».

    «È solo un commento come tanti».

    «Non per me».

    Superata l’ennesima ondata, Matteo si concentrò, cercando di individuare l’obbiettivo. Era disorientante trovarsi in quella ressa di ragazzini dal look post nucleare che si agitavano in preda a spasmi. Lo stato fisico di qualche partecipante era già raccapricciante. I più barcollavano stanchissimi, disidratati dalle droghe e con le pupille spalancate. Quelli più fatti erano del tutto dissociati, irrigiditi in atteggiamenti incomodi, reagivano in modo antagonistico verso chiunque osasse avvicinarsi, o solo guardarli. L’afrore di sudore stagnava nelle fibre sintetiche e si mescolava a quello di fumo e birra. Matteo passò oltre sfiorando il braccio di uno che blaterava di Nirvana a un cerchio celebrativo di menti catatoniche, magnificando il proprio sapere supremo, esaltando l’illuminazione interiore, e nel contempo offrendo dosi a pagamento per il vero trip: LSD, ecstasy, cocaina, anfetamine. C’era anche, nel sottofondo, odore di polvere da sparo, questo lo allarmava di più, ma non poteva fermarsi: cercare Icaro stava diventando un affare complicato e quel Naraka, stando a quanto avevano scoperto, doveva averlo incontrato piuttosto di recente, solo non era scontato che avesse voglia di parlarne. Ufficialmente, Matteo era là per fargli un’intervista perché quello slavo era il più osannato organizzatore di feste rave della zona: Udine, Trieste, Pordenone e via così, fino alle rive del Po e oltre confine, andando da Venezia alla Croazia. Milena si era detta sicura che qualcosa sarebbe saltata fuori. Aveva mosso qualche contatto in Rete per fargli avere il lasciapassare di accesso alla festa, altrimenti alla barricata non lo avrebbero nemmeno fatto passare; anche se era un free party, qualche controllo lo facevano, visto che ultimamente polizia e carabinieri avevano aumentato le ispezioni.

    I partecipanti erano là da giorni, Matteo lo capì quando inciampò nei corpi affiancati come salme da obitorio sulle rive del fiume, tra l’erba alta e gli arbusti. Certi erano ancora capaci di stare seduti, ma ubriachi da far schifo e strafatti; qualcuno si era appartato e, dalla sua posizione, vedeva coppie avvinghiate in amplessi frenetici, nascoste o anche in vista: solo ventre e foga bestiale in un groviglio indefinibile, nell’indifferenza degli altri. Tra tutti, Matteo trovò approdo breve nel mare rosso di due occhi impressionati dall’ecstasy. Era una ragazzina con le pupille dilatate da iridi di bambola paralizzata. Si agitava simulando involontariamente una marionetta, indossando un odore metallico di LSD.

    «Lo hai trovato?», domandò Milena, con un sussurro nell’orecchio invaso dall’auricolare.

    «Non ancora», rispose, scuotendosi e girandosi verso il fiume che, in quel punto di medio corso, era povero di acque.

    Notò così un gazebo bianco, sotto cui c’erano tre uomini e tre sedie di plastica. La notte era detersa dalla luce della luna e tutto era pallidamente visibile. Inquadrò uno dei tre: c’era qualcosa di dichiarativo nella noncuranza espressa dalle mani insaccate in tasca, dall’appoggiarsi annoiato allo schienale, dalle gambe accavallate senza gentilezza. L’uomo era risoluto a compiacersi di quello che stava guardando, come se fosse edificante.

    «Eccolo», disse con un certo impeto. «Ha i capelli rasati?», chiese poi, per conferma.

    «Sì, e mi hanno detto che in genere veste di bianco».

    «Perfetto, chiudo la chiamata e ti contatto dopo».

    «Matt, stai attento».

    «Sto attento».

    Mise giù, tirò il fiato e fece un segno verso il gazebo. Uno alzò il braccio in risposta, indicandogli che doveva avvicinarsi e raggiungerli. Quando fu prossimo a loro, Matteo fissò gli occhi su quello che aveva individuato, abbigliato come un europeo a Cuba, con tutti gli eccessi folcloristici del caso: vestito in lino grezzo, anelli alle dita; aveva perfino un sigaro appeso alle labbra e un cappello stile panama a tesa larga e nastro nero appoggiato sulle cosce. L’aria era satura di un profumo dolciastro, forse era cannabis, e l’afoso caldo di luglio inoltrato non migliorava la situazione. Dietro il gruppetto dei tre c’era l’idolo della festa: un bong di vetro, dal quale qualcuno stava tirando boccate intossicanti di salvia divinorum o hashish, incollato al bocchino con avidità sorprendente, pari a quella di un neonato alla tetta della madre.

    «Tu sei Matt Ruggeri, giusto?», disse l’uomo seduto, sbracciandosi in modo teatrale con il panama stretto tra indice e pollice della mano destra. «Ragazzi, dategli una sedia».

    La voce rauca era fastidiosa.

    «Posso anche stare in piedi», rispose Matteo, gentile e prudente.

    «Ci mancherebbe: io tratto con riguardo gli ospiti», rimarcò l’altro, ciondolando la testa come se fosse in preda a una mania invisibile o avesse una pallina nel cervello da far rimbalzare da una parte all’altra del cranio. Matt accettò l’offerta e si mise a sedere, trovandosi faccia a faccia con il sorriso complesso di Naraka.

    «Mi hanno detto che sei un blogger, che sei piuttosto in gamba, che sei, come posso dire, molto oggettivo e che non ti lasci trasportare dalle emozioni. E so che avresti delle domande da farmi».

    «Se tu sei quello che sto cercando».

    «Tu chi cerchi?»

    «Quello che si fa chiamare Naraka».

    «Allora parla, ti ascolto».

    2

    «Io non so niente della morte di quel ragazzo».

    Matteo non lo guardava, prendeva appunti su foglio, quanto a quello era all’antica. Del resto, Naraka era stato chiaro: nessun apparecchio tecnologico durante la chiacchierata.

    «Però è successo da queste parti».

    «Accadono parecchie cose da queste parti».

    L’accento slavo si faceva sentire, anche se l’altro lo camuffava bene. I due tizi in nero si erano messi seduti a poco dal bong e non facevano avvicinare più nessuno.

    «Quando muore qualcuno le cose si complicano», tenne duro Matteo, ma con il tono di chi non fosse minimamente coinvolto.

    «Il ragazzo è morto perché non ha saputo fermarsi per tempo. Ci sono degli equilibri da rispettare e se la gente non sa fermarsi e va oltre, non è mica affar mio».

    «I carabinieri stanno cercando il pusher che gli ha venduto la dose mortale. Ci sono un paio di testimoni, è probabile che lo trovino…»

    «Sono problemi del pusher».

    Chiuse la questione con un sorrisetto malevolo. Matteo lo guardava quasi stordito.

    «Va bene, ho quello che mi serviva per l’articolo».

    «Mi fa piacere. Conto su di te, spero che la gente capisca che queste feste non sono niente di così tremendo. Insomma, guardati intorno…»

    «Mi sono guardato intorno e ho visto individui al limite dell’overdose un po’ ovunque».

    Naraka rise in modo sconcertante.

    «È il tuo modo di guardare la realtà che te lo fa credere. Stanno solo ballando».

    «Sì, lo so… ho mandato a memoria la frasetta di rito del sociologo di turno: i rave sono luoghi non violenti, dove ci si libera dalla nevrosi quotidiana rielaborandola in un’estasi collettiva. È solo che mi viene difficile capire come questo possa giustificare la morte di un ragazzo di diciannove anni».

    «Te l’ho detto, non sapeva dosare… Un po’ di fumo non ha mai ucciso nessuno».

    «Può anche essere, del resto lui è morto per overdose di eroina», specificò Matteo, pungente.

    «Se tu fai abuso di ecstasy, o non fai passare abbastanza giorni tra un’assunzione e l’altra, arriva la depressione. La depressione è brutta ragazzo mio», rispose Naraka sporgendosi in avanti. «Cosa fai dal lunedì al venerdì aspettando il prossimo party? Ecco, diciamo che l’eroina è un buon modo per non pensarci».

    «Il mercato della droga lo fa l’offerta, non la domanda. Ha preso eroina perché lo spacciatore gli ha dato quella e ne ha data troppa», precisò, scaldandosi.

    «Anche il paracetamolo fa male se esageri. Bisogna dosare bene, seguire le istruzioni sul foglietto illustrativo...»

    Matteo lo fulminò con lo sguardo, l’altro tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia.

    «Abbiamo finito l’intervista?»

    «Ho un’ultima domanda…», agganciò, cercando di trattenerlo con prudenza. L’altro restò a fissarlo in attesa. «Riguarda un certo Icaro».

    Naraka divenne inespressivo.

    «Perché lo chiedi a me?»

    «Il mio contatto mi ha detto che hai avuto a che fare con lui di recente. Sto scrivendo un articolo sul mondo degli internauti e…»

    «Sono anni che non lo sento. Non mi ha nemmeno pagato le ultime dosi».

    «Icaro faceva uso di droghe?»

    «Come tutti gli all-nighters che lavorano per più di trentasei ore di fila davanti allo schermo di un computer. Gli fornivo le migliori nootropiche del mercato, a dosaggio forte e super pulite. Costose, molto costose. Ma lui non badava a spese, ne aveva bisogno. Sai ragazzo, le droghe possono essere molti utili, se usate con coscienza. Le nootropiche ti aiutano nel tempo, ti danno vigore, forza, perspicacia e allontanano il malessere. Uno non guadagna un milione di euro di interessi in una giornata, ma nel corso del tempo, man mano che gli interessi si accumulano. E se una persona può essere più produttiva, anche solo del dieci per cento nel corso dei suoi vent’anni di lavoro, la quantità di cose che può produrre diventa importante. A questo servono certe droghe».

    «Non posso credere che Icaro la pensasse così».

    «Il tuo amico la pensava esattamente così. Lui era nella Freegenome, insieme a un affarista straniero, un medico. Avevano messo su un laboratorio di biohacking. Una roba seria con degli scienziati disponibili a un po’ di elasticità etica».

    «Per fare cosa?».

    «Icaro gestiva i laboratori cercando di applicare la filosofia hacker alla ricerca scientifica libera e dalle Big Bio. Apparentemente lavoravano per scoprire in che maniera funziona il DNA delle piante d’appartamento. Ma la realtà era tutt’altra».

    «Sarebbe?»

    «È roba morta, per cui te ne posso parlare. Icaro cercava il modo di inserirsi in una sequenza di DNA umano per potenziarlo. Aveva accumulato negli anni un vero e proprio archivio di codici genetici».

    «Recuperati come?»

    «Comprati, rubati, donati che importanza vuoi che avesse per lui? Era stato uno dei pupilli di Craig Venter, il mestiere lo aveva imparato da lui. Parecchi hacker fanno finta di essere per la causa della libertà, amico mio, in realtà sono parte integrante del capitalismo digitale delle grandi imprese e sono pronti a trasformare tecnologie nate come forme di opposizione alla cultura dominante in modelli di business con scopi ben diversi da quelli di liberazione. Icaro era uno di questi, lo è sempre stato».

    «Chi è Craig Venter?»

    «Per essere un giornalista sei parecchio disinformato, sei sicuro di non essere un poliziotto invece?»

    «Se fossi un poliziotto avrei la pistola», rispose con un sorriso ironico molto marcato, tendente alla complicità.

    «Un po’ didascalico...», riprese Naraka. «Però chi era Venter non te lo so spiegare bene».

    «Allora sei pure tu un poliziotto?». Lo slavo rise, divertito. Matteo non si arrese. «Qualcosa devi saperla...»

    «So solo che è un biologo e che ha fondato una specie di Istituto con capitali privati, dove amici suoi, compreso Icaro, si sono messi a catalogare DNA».

    Matteo si appoggiò a sua volta alla sedia. Quelle rivelazioni erano ingombranti. Spostò lo sguardo verso il fiume, sentendo che aveva bisogno di spazio per il pensiero. In quei mesi aveva cercato un uomo che in realtà non aveva mai conosciuto, perché del passato di Icaro non aveva mai avuto alcuna idea.

    «Ti ho scioccato?», disse l’altro, derisorio.

    «Chi era il medico con cui collaborava?»

    «Conrad Oruley».

    Matteo sollevò la testa.

    «Impossibile…»

    «Quanta ingenuità», ridacchiò lo slavo. «A Oruley serviva qualcuno che potesse lavorare nei suoi laboratori e Icaro era molto bravo. Tra l’altro, produceva degli integratori a base di nootropi. Ero io a procurarglieli, insieme al vino. Mister Oruley è un intenditore: solo vini italiani».

    «Vino, droghe, integratori…»

    «Proprio così».

    «E poi che è successo tra loro?»

    «Questo te lo può dire solo Icaro, sempre che tu riesca a trovarlo».

    Ci fu un momento di stasi in cui Naraka si fermò, bloccandosi in una posa di attesa, teso a cogliere suoni e rumori provenienti da non troppo lontano. Matteo non sentiva niente, in realtà il clamore della musica era soverchiante. Eppure, l’altro si alzò in piedi, facendo segni piuttosto nervosi ai due guardaspalle, che si mossero immediatamente, facendo prima di tutto sparire il bong.

    «Hai portato qui la polizia!», accusò infine, quasi ringhiando.

    Matt raccolse quell’urlo con sorpresa e smarrimento. Era stato piuttosto accorto a non lasciare tracce.

    «Non io», si giustificò.

    Naraka rispose con una sfilza di incomprensibili imprecazioni in slavo. Il caos degenerò subito, e la gente, che fino a quel momento si era dimenata sotto le sferze elettroniche della musica, ritrovò una parvenza di consapevolezza e iniziò a defluire dentro i canali multipli del Tagliamento, dandosi alla macchia. Ragazzini e adulti convenuti al raduno sparivano dentro gli anfratti che fino a poco prima erano stati boudoir di sesso facile e senza rimorso, mentre il suono acuto e poco articolato delle volanti invadeva quello che restava dello spazio sonoro, spazzando via la psico musica.

    A quel punto, Naraka si avvicinò minaccioso a Matteo e lo afferrò per la camicia, larga, morbida, stringendola in gola.

    «Sei una talpa».

    «Lasciami, non ho fatto niente».

    Il braccio alzato annunciò il pugno in arrivo. Lui ruotò un po’ il corpo, alzò i gomiti, cercando di prepararsi a parare, ma la violenza fu tracimante e non riuscì a porvi del tutto argine. Preso allo zigomo, sentì l’occhio sinistro quasi schizzare via per il dolore e poi un flusso caldo e liquido imbrattargli le ciglia. Il secondo colpo andò allo sterno; il fiato soffiò fuori dallo stomaco come un maglio. Si ritrovò a terra, incapace di reagire, cosa che diede il tempo a Naraka di caricare un paio di calci, che lo raggiunsero alle cosce. Pur stordito, ebbe la lucidità di chiudersi a riccio, temendo altri colpi, ma dopo quei due non ne arrivarono altri. I lampeggianti dei carabinieri aggredirono il buio tutt’intorno; un tramestio confuso schiacciò la ghiaia. Poi più nulla.

    3

    Precenicco, marzo 1933

    La luce entrava dalle sottili fenditure della porta in un barbagliare aguzzo. Ogni tanto quei disegni brillanti sparivano perché davanti al fiotto di sole che li generava si frapponevano rami e fronde e tralci ciondolanti nella brezza di fiume. Era un gioco capzioso di luce e offuscamento; e intanto il tempo passava e quelle macchie si spostavano anche seguendo l’arco del giorno ormai maturato in un pomeriggio stanco, decadente, svogliato. Lei restava nuda sdraiata, impigrita e ingrigita nella penombra, quasi abulica dopo il frenetico consumarsi del desiderio trasfiguratosi in una specie di appagamento che ancora marchiava la pelle di un odore ferino, un connubio di sudore acidulo e sesso.

    Toni le era alle spalle, dietro, invisibile, ma reso presente dal russare anfrattuoso e ruvido. Dopo l’amplesso, lei si era avvolta con le lenzuola, e lui l’aveva lasciata tranquilla, come faceva sempre, fumandosi una Milit e restando zitto, con un sorriso compiaciuto sulla faccia. Lui era un abitudinario, faceva le cose sempre uguali: si toglieva la camicia lurida per il lavoro fatto nei campi, la baciava, la spogliava, si abbassava le braghe, la prendeva e poi si metteva supino per fumare. Dallo schifo che aspirava emanava un miasma coagulato e rigonfio di fumigo intossicante. Di simile lei ne aveva ingurgitato solo alla fermata dei treni. Lei pure aveva fumato qualcosa, di più leggero però, le Macedonia. Gliele aveva passate un’amica, il padre di lei era un borghese pieno di soldi, così in alto da entrare e uscire dal Minerva e conoscere personalmente il duce.

    Alzò gli occhi per guardare la finestra, con mezza faccia affondata nel guanciale che sapeva di sudore e saliva. Qualcosa la infastidiva svigorendo il piacere e accentuando quel raccapriccio esilissimo che la coglieva ogni volta che lei e Toni facevano sesso in quel modo. Si sentiva forte, lui, ogni volta che la prendeva, e forse questo le dava anche una certa soddisfazione, perché, tutto sommato, la confermava del fatto che lei ci sapesse fare, però c’era qualcosa che minava quella gratificazione; un lavacro nei sensi di colpa che Lidia cercava ostinatamente di disattendere, per timore di perdere il gusto alla trasgressione che si era ostinatamente guadagnata.

    Sua madre ne sarebbe morta. Benché negli ultimi anni le avesse consigliato di guardarsi intorno, di studiare, di affrancarsi, non avrebbe mai concepito l’irredimibile infilarsi nel letto di un uomo senza averlo sposato, e non per farci un figlio, bensì per divertirsi. Inconcepibile. Non è che lei si divertisse poi tanto, non era l’atto in sé, ma le piaceva l’idea di poter scegliere. La scelta riempiva di estasi la fuga erotica con quell’uomo. Toni non era mica uno sconosciuto, erano cresciuti insieme a Precenicco, venti anni lei, ventuno lui; una questione di mesi. Erano sempre stati amici, qualche innocente esplorazione da ragazzini, stimolata dalla curiosità più di lei che di lui, aveva acceso desideri all’epoca incomprensibili, estranei all’età, però poi le cose erano cambiate. Tutto era iniziato tre anni prima quando lei aveva deciso che concedersi a lui nel campo dietro casa non costituiva affatto un peccato o una questione etica; era puro istinto, natura, essenza dell’essere e dell’esistere e non avrebbe segnato la sua perdizione, tanto meno l’avrebbe privata di alcunché. La verginità era solo una questione di religione e lei, per dirla tutta, si era anche un po’ stufata di essere considerata un essere inferiore, destinato a figliare e stare davanti al fuoco del camino. Non coltivava certe romantiche inclinazioni, piuttosto cercava l’irrinunciabile piacere del momento, il battito cocente del singolo attimo.

    Si sollevò con un peso sul petto. Raccolse i vestiti da terra: le calze, la gonna, la camicia, e si vestì piuttosto in fretta. Recuperò la borsetta, uscì. Una volta oltre la soglia il primo sguardo andò al vigneto che si apriva davanti alla casetta: file ordinatissime di viti correvano per ettari, seguendo la diligente volontà del viticoltore. Reggendo le scarpe sotto il braccio, si avviò verso la staccionata di legno che teneva separati le vigne e un campo di fieno. La sera era inoltrata e faceva fresco; non c’erano contadini in giro. Il fiume Stella non era distante e mormorava.

    Superò un canneto e recuperò un viottolo rustico e selvatico, percorrendolo fino a un porticciolo abbandonato. La vegetazione in quel punto era ricca, anche se in quel periodo dell’anno gli alberi non erano ancora pieni di foglie. Si avvicinò al pontile e si mise seduta, con le gambe a penzoloni che sfioravano l’acqua. La carezza fredda sotto la pianta dei piedi la risvegliò del tutto, e solo allora fremette, sfiorata dal ricordo infantile di una poetica vergogna, posta senza assoluzione ai piedi del fantasma di suo padre che si aggirava per quei campi, e allacciata alla veste di sua madre piegata sulle zolle che rovistava passo al passo, dietro di lui: silente, devota, solenne; bellissima. Distolse gli occhi dal passato e si strinse la camicia al collo, quasi a coprirsi, nascondendo la pelle, fino alle guance, rivestendosi, infine, con quel poco che le restava. Doveva prepararsi ad andare, perché quella sera ci sarebbe stata l’ennesima riunione del gruppo di studio. Bisognava decidere cosa fare circa i fondi dei tedeschi. Era necessario organizzarsi o soldi non ne sarebbero più arrivati, questo era certo. Aprì la borsetta e tirò fuori specchietto e spazzola. Si guardò: due occhi d’un nero notturno, dentro un volto dalla carnagione chiara, contornato dalle morbide e sinuose onde scure e lucide dei capelli. Ravvivò la pettinatura, aggiunse il rosso granata con una lieve carezza del rossetto sulle labbra e si sentì pronta. Si incamminò scalza lungo il molo, con le scarpe penzolanti alle dita, sulle assi di legno scurito dall’umore del fiume, mentre il cielo s’imbruniva facendosi severo.

    Quando arrivò in paese, la gente se ne stava entrando nelle case, soprattutto le donne. Lei, immodesta e sfottente, passò davanti al Canevòn – l’antico edificio in pietra che ricordava i fasti passati dell’Ordine Teutonico – picchiando le suole contro l’acciottolato granoso della piazza principale, proprio davanti al porto. Tacco e punta davano lo slancio a tutta la figura fasciata nella gonna scura e nella camicia bianca. La riunione con gli altri era al bar non lontano dalla sede del Partito Fascista. Da quando i suoi erano morti, Lidia abitava in un casolare con la zia, una vecchia zitella acida e orgogliosamente analfabeta che le chiedeva sempre di consultare qualche libro per lei. Per il resto, l’anziana parente non capiva molto di quanto lei facesse né si intrigava più di tanto negli studi che stava portando a compimento a Padova, pagandosi le rette con le borse di studio, anche se per una donna stava iniziando a diventare una faccenda complicata l’accesso all’università. Lidia aveva compreso da tempo che se voleva violare quel regime sociale per soli uomini, e imporsi all’attenzione del mondo accademico, aveva bisogno di fondi e quelli dovevano arrivare da qualcuno interessato alle sue capacità di archeologa e archivista: dovevano arrivare dai tedeschi giunti a Precenicco per trovare tutti i documenti legati alla misteriosa famiglia veneziana dei Valenti. Loro bramavano scovare qualunque reperto – documentale o manufatto – collegato a quella linea di sangue; il perché le era ancora oscuro. La caparbietà del loro capo, Carl Brandt, era ossessiva, quasi si trattasse di una questione di vita o di morte. I Valenti avevano un passato tragico e pressoché impenetrabile: intrighi, inquisitori, morti sospette e infine la sparizione nel nulla degli ultimi membri della famiglia. Carl Brandt e la sua truppa di nazisti agivano in merito come se fossero i più assidui promotori di una specie di misticismo culturale nazista, qualcosa che Lidia non riusciva a comprendere per i limiti linguistici nel comunicare con loro, esiliati all’interno di un misurato ed essenziale italiano. Quale che fosse il loro scopo, i tedeschi volevano i Valenti e lei li avrebbe accontentati; doveva solo trovare la maniera di farsi dare altro denaro, per continuare le ricerche. Con i risultati ottenuti, anche Mussolini l’avrebbe notata e allora non avrebbe avuto più ostacoli a fermarla. Il successo le avrebbe sorriso, sarebbe finalmente diventata qualcuno e avrebbe lasciato la terra ingrata che l’aveva vista nascere.

    Una fiammata di vento lagunare la costrinse a fermarsi. Squadrò con occhio quasi ostile il paese poi, stringendo la borsetta al petto, proseguì fino all’ingresso della locanda. La porta emise un gemito di umidità e usura, ma si aprì docile. Lei varcò la soglia e indagò l’interno; individuato ciò che le interessava, si tranquillizzò. Con determinazione, e un tocco di sensuale frivolezza, camminò fino al tavolo dove già erano accomodati due uomini, uno era giovane fascista: Gilio Bressan. Lidia gli dedicò una lunga occhiata, abituata com’era al corteggiamento di lui. In genere quelle del giovane erano carezze di sguardi, raramente un tocco in punta di dita gestito con straordinaria naturalezza per cercare un contatto che paresse casuale; una sola volta l’aveva stretta con la scusa di trattenerla da una scivolata. La cosa non le aveva dato alcuna emozione. Bressan era carino, ma non le interessava; gestiva la distanza tra loro con pause del tutto naturali, soffici urti casuali, parole amichevoli e vuote, sguardi studiati e indugianti.

    Lui le sorrise. Il berretto a bustina grigio verde era sul tavolo, stretto in modo inconsapevole tra le dita della destra, la camicia nera fasciava il corpo atletico, in stasi perfetta. Aveva un bel sorriso, quello doveva proprio concederglielo, e i capelli scuri, a onde in brillantina, ricordavano certi attori americani, di cui aveva visto le foto sulle riviste lette per sua zia.

    «È mai possibile che tu non riesca mai a rispettare un appuntamento?»

    Ad aggredirla verbalmente, con i soliti modi brutali, era stato l’altro, Moreno.

    «Dovevo studiare», tagliò corto. «Allora Bressan, avete novità?», domandò, cordiale.

    «Purtroppo no, signorina Lidia».

    Lei spostò la sedia e si mise seduta, liberando un sospiro deluso.

    «Ecco, lo sapevo», commentò Moreno. « I tedeschi lo avevano detto: avete un anno. Sono stati anche buoni, loro, visto che ci hanno concesso quattordici mesi. La verità è che a Precenicco e dintorni non c’è un bel niente da cercare. Qua ci sono solo fame e sassi».

    «Ma cosa ne sai tu…», lo rimbrottò Lidia. «A stento sai trovare le cicche nella sabbia, figuriamoci dei documenti antichi. Da queste parti ci sono le tombe dei Valenti, si tratta solo di capire in quale stramaledetto convento, chiesa, o buco comune le abbiano infilate».

    «Non potremmo cercare qualche altra cosa?», replicò Moreno con voce lamentosa. «Non basterebbe una reliquia qualunque? Potremmo rubarla da una chiesa».

    «Non è quello che vogliono. Devo trovare quei documenti del Seicento e avremo la gloria, i soldi, e ce ne andremo da questo posto infame».

    «Non parlate così signorina Furlan…», la riprese Bressan, con gentilezza. «Siamo tutti nati qui».

    «Certo, avete ragione…», corresse lei con immediata cortesia. «Però se non arrivano i soldi dei tedeschi non possiamo pagare gli uomini che scavano e nemmeno i mezzi per il trasporto».

    «Per questo avrei una possibile soluzione», riprese Bressan.

    «E parli adesso?», ringhiò Moreno. «Sputa, maledetto ti».

    Il giovane si calò sul tavolo, come fosse un cospiratore. Dalle finestre alle loro spalle entrava il tramonto, corposo come un sanguigno Refosco. La locanda si era riempita, a ogni tavolo sostava qualcuno, per lo più uomini; le uniche ragazze servivano, vestite in modo semplice, adeguato al decoro, esibendo sorrisi di legno.

    «È presto detto: la soluzione potrebbe essere a una decina di chilometri da qui, verso Pocenia».

    «Andando verso il mare?», chiese perplesso Moreno.

    «Ma quale mare! Si sale verso Udine, saranno sette, otto chilometri da qui. C’è un’enorme tenuta vinicola».

    «Enorme quanto?», si intrigò l’altro.

    Lidia sollevò di nuovo gli occhi scuri, insinuandosi in quelli del giovane fascista, strappandogli un caldo compiacimento. Infatti rispose alla domanda fissando lei.

    «Più di cinquanta ettari», concluse.

    «Come hanno fatto a conservarsi tanto terreno? Nessuno lo ha requisito?», domandò ancora Moreno.

    «Il proprietario è un buon amico di gente che conta, inoltre il vino che produce piace a molti. Gli hanno imposto la costruzione di una casa di controllo, ma niente di più».

    «Voi proponete di chiedere a lui i soldi?», si intromise Lidia, cercando di arrivare al dunque.

    Bressan si appoggiò di nuovo alla spalliera di legno della sedia, raccogliendo il berretto e tenendolo in entrambe le mani, con una certa fierezza.

    «Sì, e sono anche sicuro che ce li darebbe».

    «Perché questa convinzione?», insisté Moreno, ancora perplesso.

    «Ho visitato la tenuta insieme a un mio superiore e devo dire che è incredibilmente bella. Il padrone è un tipo elegante, tranquillo, sicuro di sé. Nella casa, che non vi dico quanto è immensa, ha decine e decine di pezzi d’arte. È un collezionista, e indovinate? Particolarmente di antichi documenti e libri».

    Lidia si accarezzò le labbra, in punta di dita, qualcosa già vibrava in lei.

    «Pertanto noi andiamo là e gli chiediamo i soldi?», riprese Moreno.

    «Direi di no», chiosò Bressan, con l’irritazione del maestro verso un discepolo tardo. «Tra due giorni, il padrone della tenuta terrà una grandiosa festa. Ha invitato parecchi pezzi grossi e artisti, tra le altre cose è un mecenate molto generoso. Io e la signorina Furlan ci andremo insieme».

    Lei lo fissò, il giovane fascista ricambiò.

    «Non posso! Che direbbe la gente?»

    «Proprio niente, io sono uno del Partito, non oserebbero. Comunque, anche in questo caso ho la soluzione: diremo che siete la mia fidanzata».

    Lidia lo fissò con improvviso imbarazzo, quasi durezza.

    «Questo dovrebbe pormi al riparo dalle critiche? Non so, non vorrei dare un dolore troppo grande a mia zia».

    «Quando mai te n’è fregato qualcosa di tua zia? L’idea di Bressan è buona», commentò Moreno.

    «È solo una finzione», aggiunse il fascista prontamente. «Magari fosse vero, ma non vi offenderei mai con una simile proposta, a meno che voi…»

    «Riassumendo», lo interruppe di nuovo Moreno. «Voi due andate alla festa e incontrate questo riccone. Tu gli hai parlato già, no?»

    «Certo, quel giorno l’ho avvicinato e gli ho accennato al fatto che conosco qualcuno in grado di recuperare documenti antichi».

    «Lui cosa ha detto?», chiese Lidia,

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