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Eterofobia
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E-book380 pagine5 ore

Eterofobia

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Info su questo ebook

Sebastianos Diamantikos ha quindici anni e ha commesso un grave peccato: si è innamorato di una ragazza. Nella sua società questo è un abominio, come recitano i testi sacri del Tempio e perfino il Motto del Ministero, “i Simili con i Simili”. Gli uomini con gli uomini, le donne con le donne: solo questo è consentito. I due padri di Sebastianos sono infatti preoccupati per il futuro del loro figlio e decidono che l’unica cura possibile per la sua anima sia quella promessa dal Programma di Conversione. Lì, sopra le falesie della Tessaglia, nell’eremo della meteora, lontano dagli occhi del mondo, tra preghiere e terapie di gruppo, il ragazzo potrà nuovamente essere riportato sulla retta via.
A vent’anni dagli eventi narrati in Omocrazia torniamo nel mondo della Società dei Simili per raccontare una nuova storia di amore, dolore, odio, lotta e speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2020
ISBN9788868674458
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    Anteprima del libro

    Eterofobia - Adriano Bernasconi

    sai.»

    ATTO PRIMO - Tenore solista

    «Per colpa di un equivoco diffuso in malafede

    molti presidi, temendo di dover fornire spiegazioni

    a genitori arrabbiati e male informati,

    evitano di invitarci a discutere nelle scuole di omofobia.»

    Damiano Fiorato, consigliere nazionale Arcigay

    «È imperdonabile che la nostra società non intervenga

    per impedire che il termine gay sia usato come un insulto da cortile.

    Questo tipo di bullismo non influisce solamente su coloro

    che un giorno potrebbero scoprirsi gay o che hanno genitori gay,

    ma colpisce ogni genere di giovani che, per qualche motivo, appaiono differenti:

    dai ragazzi che fanno sempre i compiti alle ragazze che sono brave nello sport.

    Il bullismo omofobo non è solo nemico dell’omosessualità,

    ma anche della gentilezza, del rispetto, della socievolezza.»

    Elton John, musicista

    «L’Italia è un Paese libero, ma esiste l’omofobia

    e chi ha questi atteggiamenti

    deve fare i conti con la propria coscienza.»

    lettera scritta da un ragazzo ventunenne di Roma

    prima di lanciarsi dall’undicesimo piano

    Allegro

    I suoi due padri l’avevano desiderato a lungo.

    Un bel maschietto dagli occhi vivaci come quelli di pa’ Constantine e dalla corporatura snella e atletica di pa’ Heron. I capelli li avrebbe presi dal ramo familiare del genitore erastes, che a quarantacinque anni suonati aveva ancora una folta chioma, come tutti i suoi antenati genetici.

    Il Ministero della Discendenza aveva però atteso quasi dieci anni prima di dare un parere positivo alla loro richiesta di paternità congiunta. Lungo e difficoltoso era stato – per Constantine ed Heron – il cammino per avere il figlio che avevano con pazienza e cura progettato. Il grosso scoglio era stata la presenza, nella famiglia di Heron, di casi isolati di talassemia. L’Editto sulla Discendenza aveva da tempo stabilito l’obbligo, nei genomatori, di impedire la riproduzione di individui portatori di malattie ereditarie.

    Poi, quando ormai anche pa’ Heron si era rassegnato e si era comprato un piccolo carlino per sentirsi meno solo a casa, ecco che gli Stati Uniti d’Europa avevano deciso di ratificare la revisione dell’Editto sulla Discendenza. In tutta l’Ellade s’era acceso un grande dibattito: gli Opliti dell’Aurora, la frangia più estrema e conservatrice, erano scesi in piazza per protestare contro le richieste innovatrici di quell’Europa che spaventava molti di loro, rigidamente chiusi in un mondo antico e idealizzato che – se mai era davvero esistito – trovava ospitalità unicamente nelle loro teste.

    Alla fine però il buonsenso era riuscito a prevalere ed ecco che, un terzidì di termidoro, il genomatorio aveva inviato ai coniugi Diamantikos una risposta positiva alla loro decima richiesta di paternità congiunta. C’erano stati grandi festeggiamenti, con amici e parenti, tante lacrime e tante risate. Sarebbero stati genitori su con l’età quando il loro figlio sarebbe stato un adulto, ma la gioia era tanta e tale che un pensiero del genere non riusciva neanche lontanamente ad arginarla.

    Fu così che, nove mesi dopo, il quintidì della seconda decade di fiorile, pa’ Heron e pa’ Constantine strinsero tra le braccia un fagotto strillante. Dieci anni e nove mesi, c’erano voluti, prima di poter infilare un dito in quelle manine rugose e forti, prima di fissare quegli occhi neri e fondi, prima di sentire sulla loro pelle il calore intenso e il lento abbassarsi del diaframma di un bambino che dorme.

    Così a lungo amato, così a lungo desiderato – una lenta attesa, una grande ricompensa.

    «Sebastianos» avevano detto in sincrono i due padri, ed era stato amore a prima vista.

    Così gli avevano raccontato, tante di quelle volte che aveva ormai perso il conto. La storia della sua nascita. La sua storia.

    Così avevano finito per mitizzare il suo passato. Un dono del Cielo, ecco cos’era stato. Il bambino a lungo atteso. Il bambino buono e carino. Il bambino perfetto.

    Finché non aveva portato a casa sua Daphne.

    Due cose dicevano sempre di lui da bambino: che era incredibilmente curioso e che sorrideva sempre.

    Sebastianos appariva così: con quei denti sempre in mostra, gli occhi curvati in uno sguardo gioioso, scattante, energico. Amava la vita e correva sempre da qualche parte, come dominato da un’energia inesauribile.

    Lo riconoscevano i commessi dei negozi in cui entrava coi suoi genitori, cui facevano sempre complimenti per la sua educazione e per l’allegria. In particolare il macellaio del paese gli regalava sempre qualche lecca-lecca sottobanco, strizzandogli l’occhio. Lo sapevano bene nonni e zii che lo chiamavano il nostro bel nipotino e se lo coccolavano in mille e più modi. Lo percepivano gli altri bambini, che volevano giocare con lui con spazzole e cavalli da pettinare, con le costruzioni a mattoncini, con i giochi da tavolo e le carte. In classe lo volevano vicino di banco, amico, compagno di compiti e merende.

    L’allegria di Sebastianos gli aveva aperto molte porte, era un bel passe-partout nella sua quotidianità – e lui un po’ alla volta aveva imparato a capire come funzionava quella chiave segreta con cui accedere all’approvazione degli altri e l’aveva usata sempre più consapevolmente.

    Era anche un bambino estremamente curioso, come dicevamo poco fa.

    La sua fase dei perché era stata estremamente faticosa per i suoi papà: Sebastianos chiedeva la ragione di pressoché qualunque cosa nell’universo e lo faceva di continuo. Perché il fuoco scottava? Perché nonno Crisos aveva i capelli bianchi? Perché doveva andare a dormire? Perché la vicina di casa, la signora Dukas, non riusciva a salire le scale? Perché di notte non c’era il sole? Perché non poteva mangiare solo cioccolata? Perché il suo amico Markellos aveva due mamme e lui invece due papà? Perché? Perché? Perché?

    Pa’ Heron e pa’ Constantine avevano cercato di rispondere con pazienza a quei mille interrogativi, anche quando erano sfiniti dopo una giornata di intenso lavoro, anche quando la risposta a una domanda ne sollevava altre dieci, anche quando le risposte sembravano non soddisfare affatto Sebastianos.

    Poi c’erano le domande che mettevano in imbarazzo, ovviamente. Quelle prima o poi arrivano sempre. Un giorno la vecchia signora Dukas era morta e i parenti erano venuti a farle visita. C’era stata una vera e propria processione sulle scale del condominio. Anche i coniugi Diamantikos erano andati a farle visita in casa, prima della cremazione. Avevano portato con sé anche Sebastianos e si erano trovati nel bel mezzo di una p róthesis di rito tradizionale, con la morta avvolta in un sudario, due monete sugli occhi chiusi, odore d’incenso e candele nell’aria e lo straziante grido di prefiche e prefici che interrompeva le litanie. Il bambino era rimasto stupito e dubbioso di ciò che aveva visto. Per giorni e giorni aveva interrogato i suoi genitori sul perché la signora Dukas non si svegliasse, sul perché non la liberassero dalle bende, sul perché quelle donne e quegli uomini gridassero, su dove fosse ora la signora Dukas. Era il suo primo contatto con il concetto di morte e spaventarlo non sarebbe servito a nulla, ma neppure quella di mentirgli sembrava una scelta matura. Per qualche giorno, in ansia per la possibilità che anche pa’ Constantine e pa’ Heron sparissero all’improvviso per non tornare più, Sebastianos aveva dormito nel lettone coi genitori. Poi le cose si erano lentamente sistemate e il bambino aveva ripreso il suo luminoso sorriso di sempre.

    Tuttavia non fu il tema della morte a cogliere impreparati i Diamantikos, bensì quello della sessualità – e non nel modo in cui si aspettavano. Era normale, sebbene scomodo, ricevere dal proprio bambino di tre-quattro anni domande su come nascono i bambini, da dove fosse venuto lui, su cosa fossero le femmine e se fosse vero che non avevano il pisello. Constantine ed Heron affrontarono tutte quelle cose cercando una risposta semplice ma chiara. No, non furono quelle domande a farli sentire in soggezione.

    Fu quella volta in cui stavano camminando per strada nel centro storico della città e sotto il peristilio del Tempio un ragazzo e una ragazza si tenevano per mano. Sebastianos aveva visto tanti erómenos che camminavano mano nella mano col proprio erastes, e così pure tante eispnelas aites che amoreggiavano con teneri abbracci. Uomini con gli uomini. Donne con le donne. I Simili con i Simili, come dicevano al Ministero. Ma un uomo e una donna? Quando mai s’erano visti?

    Probabilmente Sebastianos non li avrebbe neppure notati, non fosse stato per gli sguardi attoniti dei passanti. C’era chi li additava e ridacchiava, chi invece li evitava come appestati. Qualcuno – non era riuscito a vedere chi – aveva sputato uno schifosi culichiusi abbastanza ad alta voce perché tutti lo potessero sentire.

    «Che cos’è un culichiusi?» aveva chiesto a pa’ Constantine, mentre i suoi papà acceleravano il passo e stringevano con più forza la sua mano.

    «Una brutta parola» gli aveva risposto suo padre, con la voce vibrante di disprezzo «Non pronunciarla mai più.» Sebastianos si era sentito in colpa per aver detto una parolaccia. Sapeva che le parolacce non si dicevano. Non voleva dire una parolaccia. Solo che non sapeva che fosse una parolaccia.

    Prima di svoltare l’angolo aveva però sbirciato di nuovo con la coda dell’occhio i due ragazzi. Sembravano contenti, allegri. Che cos’avevano fatto di male?

    Un’altra volta, quando aveva già sei anni e aveva cominciato la scuola primaria, era andato a cena con i suoi papà in una tavola calda. Quando ripensava a quel momento, Sebastianos ricordava la pita che stava mangiando e che fuori dalla finestra stava nevicando, pertanto doveva essere stato frimaio o nevoso. Fatto sta che nella tavola calda c’era un grosso videotrasduttore acceso su una partita di sferomachia, con le giocatrici che correvano da un lato all’altro del campo di erba sintetica. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo della partita avevano dato un kinemero sulle notizie dell’ultim’ora. Pa’ Constantine e pa’ Heron stavano chiacchierando e d’improvviso era calato il gelo.

    «…nuove proteste nelle piazze di Novioduno, Vermazia, Capocastiglia, Ispalice e Bisanzio. Gli attivisti delle associazioni eterosessuali dell’Europa stanno coordinando le loro proteste affinché siano garantiti alla comunità trans-bi-etero i diritti che in alcuni stati come il Brabante, le Fiandre o la Frissonia già sono realtà da alcuni anni. Ragazzi e ragazze di tutte le età hanno invaso le strade delle grandi capitali europee, ma a sentire la gente del luogo la manifestazione ha assunto più i toni della parata goliardica che non…»

    Con un colpo secco di telecomando la gestrice del locale aveva cambiato canale. «Ah, quegli sporcaccioni degli etero» aveva detto, scuotendo il capo e rivolgendosi a una sua amica al bancone «Dici che vogliono farci diventare tutti come loro?»

    «Quelli sono malati, te lo dico io» aveva detto l’altra donna, finendo la sua pinta di birra.

    «Ci vogliono far credere che sono normali» aveva ribattuto la gestrice, facendo zapping in attesa del secondo tempo della sferomachia «In Brabante possono addirittura sposarsi.»

    La seconda donna aveva fatto una smorfia piena di disgusto. «Un uomo e una donna che si sposano» aveva detto «Dove andremo a finire?»

    «Io alle prossime elezioni voto gli Opliti dell’Aurora. Glielo metteremo in culo a quelle cagne succhiafave, sta’ a vedere se non sarà così.»

    «E magari gli piacerà anche.» Risero assieme, con grassa baldanza.

    I suoi genitori sembravano sconvolti. Anche Sebastianos lo era, anche se non aveva capito bene di cosa stessero parlando: non gli piaceva tutta quella volgarità gratuita.

    Pa’ Heron aveva afferrato il polso del suo erastes, come faceva sempre per tranquillizzarlo quando sapeva che la rabbia stava montando.

    «Tesoro…»

    «Davanti ai bambini certi discorsi non si fanno» disse a denti stretti Constantine, trattenendosi a stento.

    «Pa’, che cos’è un etero?» aveva chiesto Sebastianos. In qualche modo sapeva già cosa fossero o quantomeno l’aveva intuito. Sapeva anche che quella parola inusuale, etero, indicava quelle persone… strane.

    Pa’ Constantine si era voltato verso di lui, carico di astio. «Nulla che ti deve interessare» aveva tagliato corto.

    Era intervenuto subito pa’ Heron, col suo modo di fare più gentile e accomodante. «Caro, forse…»

    «No.»

    Poi, senza che Sebastianos avesse aggiunto alcunché, pa’ Constantine gli aveva puntato gli occhi addosso e gli aveva detto: «Meglio un figlio drogato che un figlio etero, ricordatelo.»

    L’allegria era fluita via da lui, come sangue da una vena squarciata.

    Se lo sarebbe ricordato.

    Per molti, molti anni a venire.

    Grave

    Quand’è che le cose avevano cominciato ad andare molto male nella sua vita?

    Sicuramente l’apice del conflitto coi suoi papà fu la sua arpaghé, l’iniziazione al mondo della vita adulta. Anche se non era più come ai tempi dei suoi nonni – quando ragazzi e ragazze di quattordici anni venivano letteralmente venduti dalle loro famiglie al miglior offerente per ricevere un’educazione sessuale in cambio di una congrua somma di denaro, potere o prestigio – essa rimaneva, nella società dell’Ellade, un rito di passaggio di enorme importanza. Sottrarvisi, anche se non era più considerato reato, rimaneva comunque un vero e proprio stigma sociale: solo passando attraverso l’arpaghé si poteva essere considerati veri uomini e vere donne.

    Suo nonno Meletios raccontava ancora di quando l’altro nonno, Nestor, di ben quindici anni più vecchio di lui, si era presentato a casa sua per condurlo con sé a festeggiare assieme il kòmos, la festa di danze ebbre che dava inizio all’arpaghé. Lo narrava come fanno i vecchi, con le parole che si sono ripetuti fra sé decine e decine di volte, lavando via le parti sporche di verità e trasformando la storia in mito. In qualche modo, però, Sebastianos era riuscito a leggere tra le parole di nonno Meletios: c’era un non detto, in quel racconto, la storia di un ragazzino spaventato nelle mani di un trentenne ricco e potente.

    I tempi erano cambiati, fortunatamente, e ora erano solitamente amici e amiche di famiglia ancora scapoli che si offrivano come erastes o eispnelas per l’arpaghé dei giovinetti e delle giovinette; esistevano anche le hetaire e gli hetairi, esperti dei piaceri della carne che offrivano i propri servigi a pagamento per quei fanciulli e quelle fanciulle troppo timorosi, affinché l’arpaghé avvenisse nel modo più indolore possibile. Non era insolito neppure che l’erastes fosse già sposato e avesse concordato col compagno di dedicarsi all’educazione di un ragazzo. Per le famiglie concedere il figlio a un erastes famoso o potente o ricco o influente era sempre stato un modo per affermare il proprio status sociale.

    Sebastianos però attendeva con ansia crescente l’arrivo della sua arpaghé. Già a undici anni, quando aveva compreso l’entità del momento che si stava avvicinando, aveva cercato avidamente informazioni nell’Internodo e si era recato su forum di discussione a tema per confrontarsi con altri coetanei o con ragazzi e ragazze che avevano da poco superato il momento critico. Il vero dramma dell’Internodo era che non potevi mai sapere chi davvero ci fosse dall’altra parte dello schermo: erano davvero i suoi coetanei, quelli che gli posavano metaforiche pacche sulle spalle parlando delle loro arpaghé, oppure erano adulti curiosi che indossavano maschere da adolescenti per soddisfare qualche loro strana morbosità? I suoi genitori e i suoi professori l’avevano messo in guardia più volte dai rischi dell’Internodo e mentre leggeva pagine e pagine di botta e risposta aveva le mani gelate, i brividi lungo la schiena, l’ansia costante che qualcuno alle spalle lo osservasse. Come se stesse facendo qualcosa di sbagliato. Come se stesse facendo qualcosa di sporco.

    Però a ben vedere l’inizio del suo conflitto interiore – che presto sarebbe sfociato in una guerra esterna – era qualcosa che affondava nelle radici della sua storia personale. Giusto un anno prima, col finire della scuola primaria, s’era ritrovato a studiare spesso a casa di Agathe, che era una bambina carina e diligente. Nelle pause tra un compito e l’altro lei voleva sempre giocare al pallone e non voleva saperne del bambolotto che Sebastianos si portava appresso da quando aveva sei anni. All’inizio lui aveva cercato di farle capire che era bello giocare con un bambino finto e dargli da mangiare e coccolarlo e fingere di essere il suo papà o la sua mamma, ma lei era arrivata dritta al nocciolo del problema: loro erano un maschio e una femmina, e il bambino poteva avere solo due papà o due mamme. Una coppia spaiata non s’era mai vista, parola sua. Perché? Perché era così che funzionava il mondo, aveva sentenziato serena Agathe, riprendendo a giocare a pallone in cortile. Perché così dicevano le sue due madri. Perché sua sorella l’avrebbe presa in giro per secoli se l’avesse vista girare per casa con un bambolotto, come un maschio. Perché i Simili dovevano stare con i Simili, era risaputo.

    Sempre durante l’ultimo anno della primaria aveva fatto uno strano sogno: era su un galeone di legno come quello delle costruzioni che teneva in cameretta, assieme a tante piratesse – alcune delle quali col volto delle sue compagne di scuola. Non ricordava bene i dettagli del sogno, ma in qualche modo lui e i suoi compagni maschi erano stati imprigionati. Agathe lo teneva stretto con delle corde all’albero maestro e lui si sentiva in qualche modo eccitato da quella situazione. Lei lo stuzzicava avvicinando le labbra, come facevano le eroine delle pellicole al kinetoscopio. Poi il sogno era sfumato, senza soluzione di continuità, in un’ambientazione più domestica. C’era una vasca da bagno in un bagno di piastrelle verdi sbiadite e Agathe vi era distesa dentro, immersa fino al collo nell’acqua calda. Era completamente nuda. Sebastianos poteva vederla dall’alto, come uno spirito incorporeo che galleggiava sul soffitto. Si era risvegliato eccitato e con uno strano senso di angoscia: che cosa aveva sognato? Perché? Era normale o era sbagliato?

    Un articolo su una rivista di gossip che pa’ Heron aveva incautamente lasciato sul tavolo della sala un pomeriggio d’estate spiegava che non c’era nulla di cui preoccuparsi: i sogni di tipo eterosessuale non erano infrequenti nell’adolescenza. Una non meglio precisata ricerca di una non meglio precisata università di New Amsterdam aveva stabilito che addirittura un adolescente su quattro dichiarava di avere avuto almeno un sogno eterosessuale! L’articolo continuava spiegando che la fase adolescenziale era un terreno di scoperta della sessualità, specie nelle nuove generazioni – così disinibite rispetto alle precedenti, così bombardate da messaggi non univoci – e dunque una fase transitoria e a volte necessaria prima di approdare a una più normale e matura omosessualità. Sebastianos aveva letto e riletto avidamente l’articolo, col cuore in gola e badando bene di non farsi notare da nessuno, come un ladro nella notte. Era stato tranquillizzato dalle parole dell’articolo – sì, ma non fino in fondo.

    Poi c’era stata quella volta che s’era rifiutato di partecipare ai lavoretti di punto croce che la maestra della scuola primaria aveva loro commissionato per i Giorni della Rivoluzione di fine anno solare, perché voleva – alla stregua delle compagne femmine – dedicarsi all’intaglio del legno.

    E quella volta che, a sei anni, aveva fantasticato di essere un’amazzone che doveva salvare una principessa. E quella volta. E quell’altra. E quell’altra ancora.

    Un giorno, quando Sebastianos era già un’adolescente con una mente ben più razionale e analitica, aveva ripercorso la sua storia e aveva visto come, in realtà, tutti i segnali fossero ben presenti fin dall’inizio. Sotto lo sguardo di chiunque. Tranne forse, il suo sguardo e quello dei suoi padri.

    Così, quando giunse il periodo della tanto temuta arpaghé, questo conflitto nascosto, questa guerra fredda continua, questa battaglia sotterranea era riemersa con tutta la sua forza e violenza, facendosi calda e rovente come mai si sarebbe aspettato anche solo un anno prima.

    La causa di tutto fu Daphne, ovviamente. Daphne e l’incauta lingua di Sebastianos.

    Daphne, che l’avrebbe condotto alla meteora e al tentato suicidio.

    Ma abbiate pazienza ancora un po’.

    Prima dobbiamo parlare dell’altro amore di Sebastianos, io e voi.

    Brillante

    Fu amore a prima vista.

    A pa’ Heron piaceva la musica leggera e pop della radio. Pa’ Constantine, invece, era un collezionista di microsolchi in vinile di musica classica. Nei ricordi di Sebastianos, nei giorni di festa – quando pa’ Constantine era a casa dal lavoro – la loro abitazione si riempiva di delicate arpe, tribali tamburi, maestosi organi, struggenti pianoforti, eleganti violini, acuti clarinetti, pastosi fagotti, squillanti trombe, conturbanti oboi, battaglieri corni, gravi contrabbassi. Una versione più piccola e innocente di lui ascoltava rapito quei suoni che provenivano come per magia dal vinile, trasformando il loro appartamento in un’orchestra.

    C’era stato poi un giorno particolare, ancora vivido nella sua memoria. Aveva circa sei anni ed era inverno. C’era la neve, tanta neve. Scendeva lenta, fuori dalla finestra, ricoprendo il cortile, cancellando la presenza del girello e del triciclo, appesantendo i rami secchi e morti degli alberi e seppellendo tetti, automobili, strade e la città tutta sotto una coltre di freddo, isolante silenzio. E lui dentro, a scaldarsi al tepore del caminetto acceso, con la casa addobbata per i Saturnali: la tavola imbandita, il rosso sgargiante e l’oro su infissi e pareti, le strenne augurali ben impacchettate e impilate sotto le candele bianche delle Sette Virtù. I papà erano in qualche altra stanza. Forse preparavano una cena, forse stavano semplicemente ridacchiando assieme di cose da adulti, non ricordava bene.

    Quello che invece ricordava era il piacevole tepore in lui, l’atmosfera calda e domestica, il pensiero di amore per i suoi genitori che lo riempiva, la neve bianca e soffice, il freddo che appannava i vetri. La musica: soprattutto ricordava la musica.

    Si levava alta, chiara, integrandosi alla perfezione con la natura silente e candida, con la doratura dei piatti, con le vive fiamme che danzavano sopra le braci. C’erano gli archi ad accompagnare, ma un limpido e brillante suono li copriva e superava in altezza, un suono così piacevole e acuto da non sembrare neppure artificiale. Cardellini trillavano, usignoli gorgheggiavano, tordi zirlavano, rondini zinzulavano, fringuelli chioccavano, passeri cinguettavano e canarini cantavano, ma un solo strumento bastava per imitare quella pletora canora ornitologica.

    Sebastianos aveva ascoltato tutto il brano, dall’inizio alla fine della sua esecuzione, completamente rapito dal suono magico di quello strumento. Quando i due papà erano tornati nel salotto, subito il bambino era corso loro incontro.

    «Papà, papà!» aveva urlato, con urgenza.

    «Dimmi, tesoro.»

    «Cos’è questo?»

    Pa’ Constantine ci aveva messo un attimo a interpretare la domanda. Poi aveva compreso.

    «Questo, Sebastianos, è un flauto traverso.»

    Quando, quattro anni più tardi, era entrato nella banda cittadina, Sebastianos aveva in testa un’unica cosa: imparare a suonare il flauto traverso. I suoi genitori erano contenti: il flauto era uno strumento raffinato, adatto a un maschio omosessuale. Erano stati due anni di solfeggio ed esercizi di base, durante i quali aveva imparato a distinguere i vari strumenti musicali della banda: l’ottavino e il clarinetto, il saxofono e il corno, il trombone e il tamburo, la cassa e i piatti.

    Lui non aspettava altro che i dodici anni, quando gli sarebbe stato assegnato uno strumento dal direttore in base alle performance e alle attitudini. Già si immaginava con le mani che scorrevano sulle chiavi, le braccia che si allargavano con eleganza, le labbra che baciavano la boccola sulla testata. Il signor Petrakis era piuttosto anziano e la sua età stava diventando un impedimento all’esecuzione corretta del suo strumento, che era proprio un flauto traverso – l’unico presente nella banda. Menélaos, l’altro ragazzo presente nella banda e suo coetaneo, non gli aveva mai manifestato interesse per uno strumento specifico, quindi Sebastianos era convinto che un qualunque saxofono o flicorno gli sarebbe andato bene.

    Era stato quindi con sommo rammarico e dolore che aveva appreso, un ottidì di fine pratile, che sarebbe stato proprio Menélaos ad avere il flauto traverso, mentre a lui sarebbe toccato – a partire dal successivo anno – un flicorno tenore. A Sebastianos non parve vero: cos’aveva Menélaos di così diverso da lui? Perché maestro Carras non era riuscito a capire il suo amore per il flauto traverso? Aveva provato il flicorno, cercando di trovarvi interesse e piacere: niente da fare. Era enorme e pesante, lo schiacciava con quel peso e allo specchio gli sembrava di essere ancor più bambino in compagnia di quel gigante d’ottone. Era ingombrante e sgraziato, con un suono grave e tragico, tutto l’opposto del suo amato flauto traverso.

    Nella sua fantasia si immaginava tutti quei volatili che fuggivano via: cardellini e rondini, passeri e usignoli. Si libravano in aria, liberi. Nessuno rimaneva se non la rana flicorno, degna solo di un reietto come lui. Si sentiva immensamente frustrato e non sapeva come esprimere il proprio dolore.

    Sulla via di casa il suo umore vacillava come un equilibrista sospeso sul vuoto: per un attimo si riscuoteva, trovando una soluzione geniale al problema che avrebbe stupito tutti; l’attimo dopo era di nuovo deluso, depresso, pessimista, certo che nulla avrebbe potuto davvero funzionare. Quando era giunto alla porta d’ingresso, era sull’orlo delle lacrime. Solo un notevole sforzo lo tratteneva.

    Per sua fortuna aveva incrociato pa’ Heron, il quale gli aveva immediatamente letto negli occhi che qualcosa non andava. Sebastianos aveva annunciato che non avrebbe più fatto parte della banda. Come mai? Perché non gli andava più e basta, discorso chiuso. Era un posto pieno di vecchi e di falliti. Non gli piaceva. Aveva altre cose da fare. Qualunque risposta, pur di non dire l’unica di cui si vergognava.

    Mentre discuteva era giunto a casa anche pa’ Constantine, che s’era intromesso: «Hai sempre desiderato suonare il flauto traverso. Lo ricordo come se fosse ieri. Cosa ti ha fatto cambiare idea?»

    Sebastianos era ammutolito all’istante. Non riusciva a barare con pa’ Constantine come faceva invece con Heron. Aveva tentennato. Poi le lacrime erano riuscite a trovare la strada sul suo viso.

    Era stato come un fiume in piena che si riversava sui suoi genitori: il signor Petrakis, maestro Carras, Menélaos, il flicorno tenore. L’argine non aveva retto e ora tutto il suo cordoglio tracimava dagli occhi, dal balbettare, dai singhiozzi, dalle parole sconnesse. Aveva afferrato pa’ Heron e nascosto il viso nel suo petto, come faceva da bambino. Non aveva più dodici anni, ma otto, sei, quattro, due.

    Un mese più tardi i suoi papà gli avevano comprato un flauto traverso e avevano pagato una flautista professionista affinché

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