Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I Neracroce: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.2
I Neracroce: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.2
I Neracroce: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.2
E-book633 pagine5 ore

I Neracroce: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.2

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Mosso ormai da una sola ragione di vita: opporsi alla HiT, Ermes Ruggeri è in Africa, dove scopre, con orrore, che la Holding farmaceutica sfrutta a proprio vantaggio il "turismo medico", usando l'umanità del terzo mondo per crudeli traffici illegali in Occidente. Proprio in Africa incontra Conrad Oruley, inquietante e ambiguo capo degli Illuminati, e comprende che i segreti della Fratellanza sono sepolti nel silenzio da molti secoli. Nel mentre a Venezia, quattrocento anni prima, Marco Valenti è chiamato a difendere l'onore del fratello, l’inquisitore Ruggero, e della sua intera famiglia, ma è preda della Fratellanza, che lo manovra per ottenere ciò che cerca da tempo: il Codice dell'Inquisitore, con tutti i suoi segreti. Sedotto dall’incontro con un’enigmatica donna, e coinvolto suo malgrado nella battaglia per il potere tra la Serenissima e il Papato, Marco dovrà salvare i manoscritti, con l’aiuto di un inatteso alleato: un cavaliere straniero. Il secondo volume della trilogia dell'Inquisitore sviluppa e approfondisce i temi del primo, affascinando il lettore con gli intrighi veneziani seicenteschi e le grinfie mediche odierne.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2018
ISBN9788893781329
I Neracroce: La trilogia dell'Inquisitore - Vol.2

Leggi altro di Vania Russo

Autori correlati

Correlato a I Neracroce

Ebook correlati

Narrativa di azione e avventura per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I Neracroce

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I Neracroce - Vania Russo

    intenzionale.

    Capitolo 1

    Dar es Salaam

    aprile 2017

    Il colore del sangue è impressionante. Ogni volta che il sangue scorre, il mondo diventa grigio, a volte nero, o solo bruno. Incendiato dal sole, l’oceano Indiano abbagliava e snervava lo sguardo. Ermes si deterse il volto dal sudore e smise di pensare per un istante, un unico istante muto, basso, impregnato di attese, ficcato nello stomaco, contratto e nauseato. Alzò le mani sporche dell’arancione chimico dei disinfettanti.

    Era in Africa: lui bianco come un osso dentro i ribollenti pigmenti di quella terra. Sciolse il respiro, cercando di alleggerire il carico dell’umidità che esalava dall’oceano, gravido di vapore e perennemente asfissiato da un afrore ferroso di umori umani e di terra. Le piogge erano vicine, dopo sette anni passati sotto il cielo tanzaniano aveva imparato a riconoscere i segni dell’inevitabile.

    L’esuberante orizzonte era un dipinto dai toni fuggiaschi, governati dal rosso, ma raffreddati dal cobalto maestoso che colorava la volta oltre la linea rovente del cielo. L’acqua dell’inquieta distesa oceanica era stranamente immota, e destava inquietudine. Il Mtoni, l’indecifrabile fiume che scorreva a poco da Ermes, vi scivolava sensuale e colloso, come sangue imbrattato da muschio verde, morto. Era un fiume dal profluvio velenoso. I pescatori di Temeke, il distretto di Dar es Salaam nel quale tracciava il suo serpeggiante, lento, mastodontico percorso, lo chiamavano sumu che in swahili voleva dire veleno, e infatti malaria e infezioni di ogni tipo ne emergevano a ondate inarginabili. Il Mtoni era così predominante da dare il nome a quel ward appartenetene al periferico sobborgo di Temeke, agglomerato disumanizzante di baracche fatiscenti, affastellate lungo i bordi di strade polverose e irrespirabili, accasciato su sponde paludose, soffocate dalle mangrovie e affollate dai pescatori dalla pelle d’ebano.

    Si alzò e si diresse verso gli alloggi di legno della missione nella quale prestava gratuito servizio. La piccola chiesa dedicata a san Francesco era al centro del campo, architettura locale, essenziale, con le pareti lignee, le foglie di palma per il tetto e uno sterrato bianco tutto intorno. D’attorno erano dislocate, in modo ordinato, varie costruzioni, tutte rettangolari, sollevate da terra come palafitte su mari di polvere rossa; erano afose, ma pulite. Dietro l’edificio sacro c’era l’ospedale costruito su due piani, con un loggiato colonico bianco, messo a recinto di terrazzi pieni di sedie di vimini, lettini e cycas dalle foglie sottili e puntute. La frase della suora fondatrice, di cui lui non ricordava mai il nome, Chi non arde, non incendia, campeggiava sul frontale della palazzina.

    «Dottor Ruggeri, mi scusi, dottor Ruggeri...»

    Si fermò a mezza via. Niente tempo, solo spazio sconfinato in Africa, madida, eterna, femminile.

    «Giordano», disse infine, riconoscendo l’altro, cui tese la mano. «Finalmente, disperavo di vederla».

    «Ho avuto molto da fare».

    «Certo, immagino...». Lo trattenne sulla via, un istante rappreso dentro la polvere che invadeva le narici. «L’importante è che sia venuto», concesse, fiducioso. «Venga, andiamo verso l’ospedale. Il caldo sta per scemare, ma intanto l’afa uccide».

    Giordano parve tentennare, ma poi lo accontentò, blandendo la propria incertezza dietro un sorriso improbabile.

    Capitolo 2

    «Queste strade avrebbero bisogno di manutenzione, non trova?», commentò Giordano, quasi non sapesse che discorso intavolare, mentre si avvicinavano all’ospedale, lungo lo sterrato pieno di avvallamenti, voragini e pozze di fango rinsecchito sotto il sole, su cui sostavano lucertole enormi e policrome.

    «L’asfalto non è una priorità vitale».

    «Renderebbe il contesto urbano più civile».

    «Ha buone notizie da darmi, Giordano?», tornò al punto.

    «Non proprio».

    Ermes rallentò fino quasi a fermarsi, ma non si girò a guardarlo, proseguì nel cortile del palazzetto, sopravanzando l’altro di un passo. Si fermò al pozzo posto al centro del piazzale di sabbia rossa e afferrò il braccio a leva della pompa, iniziando a tirare un po’ di acqua. Un nugolo di bambini urlanti arrivò sotto il tubo, modellando le mani a coppa per raccogliere il flebile rivolo che ne usciva, spintonando gli altri, giocando, facendo frotta. Il tramonto era magma incandescente che si diluiva nella calma piatta del Mtoni; era poetico, ancestrale. Eppure c’era qualcosa di tetro dietro ogni rivolo di luce.

    «C’è bisogno di altri farmaci», riprese, fissando dritto negli occhi Giordano, rimasto come in attesa, senza partecipare più di tanto alla scena, limitandosi a scrollare via il rosso sabbioso che si era depositato sui jeans sbiaditi.

    «Mi dispiace, dottore, la casa farmaceutica ha deciso di sospendere gli invii».

    «La motivazione?»

    «Difficoltà finanziarie».

    «Trovi un’altra casa farmaceutica disposta a darci medicinali non scaduti, l’ultima partita di antibiotici era inutilizzabile».

    «Dottor Ruggeri, io posso provarci, ma ogni volta che faccio il suo nome le porte si chiudono».

    «Che hanno da dire? Ho sempre documentato l’utilizzo di fondi e mezzi».

    «Non vogliono sostenere il suo lavoro qui, o comunque, per farlo, gradirebbero in cambio che lei se ne andasse».

    Una folata di vento torrido alzò polvere e addossò loro una bolla di umidità condensata e fetida di carne strinata.

    «È per via della denuncia alla clinica? Avevo tutte le ragioni del mondo, utilizzano medicine tossiche, vanno ritirate dal mercato».

    «La clinica di Ilala è una certezza per la gente di qui».

    «La certezza di entrare vivi e uscire morti», bloccò sul nascere la protesta dell’altro e continuò. «So da dove provengono i fondi che ne finanziano l’attività e sono luridi come le loro coscienze».

    «La invito a essere prudente su questo fronte: i responsabili della clinica sono a conoscenza delle sue ingerenze».

    «Io sto cercando di fare il mio lavoro, le ingerenze sono le loro».

    «Non può impedire alla clinica di utilizzare quegli integratori fino a quando saranno considerati legali, e lo stesso discorso vale anche per le medicine. Io le ho dato la mia disponibilità, è vero, e quando l’ho fatto credevo in quello che facevo. Lavoro qui da anni e ho pensato che dare una mano alla missione potesse essere… opportuno dal punto di vista umanitario».

    «Che stronzate da occidentali».

    «Come?»

    «Lei è uno che ha sempre lavorato all’ombra dei platani del golf club: riunioni programmatiche, grafici di bilancio e target da individuare. Ma qui», sollevò il braccio a indicare l’ospedale, «qui non si fa carriera, non si scalano le classifiche, e le medicine hanno un costo in vite umane. I medici qui sono professionisti che curano la gente, non broker per le holding farmaceutiche».

    Il volto brunito dal sole del giovane, che non dimostrava più di una trentina di anni, divenne ancora più scuro, mentre con un gesto guardingo si avvicinava a Ermes.

    «Ruggeri, io mi sono esposto per lei, avrei potuto anche farne a meno».

    «Vuole una medaglia sulla giubba? Spiacente, le ho finite».

    «Non le conviene farsi altri nemici».

    Era vero, avevano bisogno di quelle medicine: antibiotici, antipiretici, vaccini, e Giordano, come rappresentate di diverse case farmaceutiche con concessione negli ospedali di Dar es Salaam, era uno dei pochi agganci rimasti. Era come se qualcuno stesse tagliando tutti i rifornimenti, nel tentativo di danneggiare la missione e farli desistere. Ermes sapeva bene che si trattava della HiT. Da quando aveva deciso di opporsi al lavoro della holding le concessioni di farmaci si erano drasticamente ridotte e diversi medici della missione erano stati raggiunti da strane telefonate, in seguito alle quali avevano deciso di tornare in patria. Ma l’apice era giunto quando aveva scoperto che la clinica nel distretto di Ilala svolgeva la sua attività per conto della HiT: l’ennesimo poliambulatorio medico a copertura di traffici illeciti, solo con un nome diverso.

    «Va bene, non la coinvolgerò più nella faccenda», riprese più accomodante, con una vertigine nello stomaco. «Ma almeno la partita di antibiotici e di farmaci all’artemisinina per i malarici...»

    «Farò quello che posso», concesse il rappresentante, con voce impostata, avviandosi per andarsene, ma si fermò un istante prima che la distanza fosse troppa per aggiungere qualcosa. «Non sono qui per la carriera, ci tengo anch’io a questa gente. Se lei vuole fare l’eroe in solitaria, faccia pure, ma la smetta di complicarsi la vita e si limiti a fare il suo mestiere».

    Ermes non rispose, continuando a fissarlo mentre si allontanava verso la via principale.

    Capitolo 3

    Alba rovente. Ermes si alzò con il corpo di piombo e l’anima muta. Si vestì in fretta, lasciando che Emma continuasse a dormire tranquilla sul letto di bambù imballato nelle zanzariere; il corpo nudo era sudato e respirava con un po’ di affanno. Smise di spiarla, sapendo che sul profilo promettente dei fianchi di lei ogni sua reticenza sarebbe declinata e l’avrebbe raggiunta di nuovo. Lasciò libero l’ultimo bottone della camicia azzurra, guardandosi nello specchio: stava invecchiando, lo si vedeva dai capelli sbiancati alle tempie e da qualche segno di troppo intorno agli occhi dall’azzurro chiarissimo. La cosa non gli pesava affatto.

    Si accostò a un tavolino e raccolse un appunto scritto su un foglietto di carta ruvida al tatto, grezza, marchio dell’ecologico riciclo, e lesse a voce bassa.

    «Al Julius Nyerere Airport, ore 10.00».

    Aveva tempo sufficiente prima che il volo di Ettore atterrasse. Distolse l’attenzione dalla mappa, per dedicarsi alla considerazione dei documenti, quelli storici, quelli sulla HiT, quelli che studiava incessantemente alla ricerca di tutte le risposte che gli servivano per affossare per sempre quella maledetta holding, da quando aveva deciso di immergersi nel lago dove nuotava l’Idra mostruosa, andando così oltre l’apparenza scintillante della superficie. La lusinga di sedersi e riprendere la sua analisi cercò di sedurlo. La clinica era a quasi un’ora di auto da loro, lungo la Julius K. Nyerere Road e la Nelson Mandela Road, nel distretto di Ilala, ovviamente il più ricco di Dar es Salaam, vicino al Downtown Dar, il centro ideale della città, quello che la gente chiamava anche Central Business District. In poche parole la HiT aveva scelto la zona più ricca dove insediarsi, onde assicurarsi un certo bacino di utenza con il relativo guadagno.

    «Ermes?»

    La voce giunse ovattata dall’esterno, indecisa, e annerita da una specie di inquietudine. Il mormorio vitale del fiume invase la casetta di legno non appena ebbe aperto l’uscio per capire chi fosse. Giovanni Spangaro, il cardiologo volontario della missione era alla sua porta, spettinato e assonnato, e si stava ancora sistemando la camicia e allacciando la cintura alle braghe.

    «Meglio se vieni», lo allarmò. «I pescatori sono venuti a chiamare fra’ Leone. Erano spaventati, sembrava avessero visto un fantasma».

    «Questa gente vede fantasmi dappertutto».

    «Mi sa che stavolta il fantasma c’era davvero».

    Ermes lo fissò un istante, indeciso, ma poi lo seguì verso la struttura ospedaliera. La confusione era montata rapidamente: su tutto aveva la meglio il vociare delle suore, che cercavano di calmare alcune donne sedute a terra, dondolanti come canne al vento, spaurite; le mani sulle orecchie, sulle bocche, sugli occhi.

    «Che succede?», chiese ai quattro medici presenti nel cortile, l’équipe al completo, ma nessuno azzardò una risposta. Da lontano le urla salivano, poi si chetavano, quindi tornavano e a quelle ondate sonore rispondeva il lamento delle donne ora più numerose intorno al pozzo: strilli acuti, canti, litanie.

    «Dov’è fra’ Leone?», domandò infine Ermes, avviandosi verso le sponde del fiume, laddove si erano raccolti dei pescatori con le loro canoe e parevano alimentare una conversazione concitata con gesti di autentico panico.

    «Non lo sappiamo. Se n’è andato con quelli che sono venuti a chiamarlo», rispose Giovanni, l’unico che si era mosso dietro di lui, mentre gli altri, rimasti nel cortile, cercavano di calmare gli animi, visto che anche i malati si stavano affacciando alle finestre, urlando, vestiti di bianco, tanto da sembrare spettri sconcertati da un terrore più grande di quello che essi stessi avrebbero mai potuto evocare.

    «Gli altri due frati?»

    «Frate Girolamo è laggiù, con i bambini, il seminarista non so dove sia».

    Raggiunto il gruppo di uomini, Ermes alzò le mani, mostrandole, come erano soliti fare i nativi quando volevano intavolare una discussione amichevole. Sorrise, benevolo e cercò con ogni mezzo di attirare la loro attenzione, badando a placarne il tono esagitato. Quando ebbe ottenuto un po’ di silenzio si fece avanti, entrando nel cerchio dei cinque pescatori.

    «Che succede? Cosa vi spaventa?»

    «No bene, mganga wa meno, no bene».

    «Cosa non è bene? Sta forse male qualcuno?»

    «La morte ha camminato sopra il fiume».

    Ermes fu toccato dalla loro paura, concreta e credibile. Si accorse di avere i pantaloni bagnati fino alle ginocchia, senza rendersene conto era sceso dentro l’acqua melmosa, oppure il Mtoni era salito fino a lui; si scostò con un senso di inquietudine a invaderlo. La luce dell’alba si era fatta più forte e il caldo già assaliva. Lui stava sudando, tutto puzzava di sudore e pesce marcio.

    «Laggiù, guarda, Kabane sta arrivando su una canoa», annunciò Giovanni.

    Ermes si voltò e vide il giovane tanzaniano che, in compagnia di altri uomini, stava risalendo il fiume. Il ragazzo stava già facendo deviare l’imbarcazione verso la sponda e, quando furono all’argine, fece loro cenno di salire.

    «Si può sapere che è successo?», domandò Ermes stesso, con una certa autorevolezza.

    «Hanno trovato delle cose», rispose a testa bassa. Le mani stringevano il remo.

    «Cosa? Dove?», lo incalzò.

    «Alla discarica, dove si abbassa nel Mtoni».

    Non fecero altre domande. La canoa governata da Kabane ridiscese rapida il corso d’acqua verde, malata e scura, in cui si calavano serpenti e piccoli coccodrilli dalle sponde più remote. La placida calma che regnava nei dintorni iniziava a incutere timore, il mondo stava a guardare, era ammutolito, raggelato nell’afa africana. Quando furono alla giusta altezza, il giovane virò e spinse lo scafo contro l’argine di argilla, facendolo parzialmente incagliare, perché potessero scendere. Ermes si diresse subito verso fra’ Leone, poco più avanti, al margine della immane discarica che invadeva lo spazio in terra e in cielo, con la presenza e con l’odore stomachevole, asfissiante e insopportabile. Si coprirono il volto, come già gli altri presenti avevano fatto. Quando il religioso lo vide sopraggiungere, gli andò incontro, abbracciandolo. Ermes non si divincolò subito dal corpulento frate, biondo come un teutonico, con occhi piccoli e dinamici, ora un abisso di rabbia sconvolta.

    «Pace e bene, figlio mio, pace e bene».

    «Perché tutta questa agitazione?», chiese Giovanni, appena arrivato.

    «Venite, per carità, venite».

    Li condusse oltre un intricato groviglio di bassa vegetazione cespugliosa, irritante e piena di spine. Lo spiccare in volo di un gruppo di fenicotteri rosa, disturbati da quell’andirivieni di uomini, li fece sobbalzare. Fra’ Leone andò oltre, tirando quasi per il braccio Ermes fino a una striscia più nascosta della grande discarica, per raggiungere la quale avevano dovuto pestare ogni genere di residuo e sozzura, senza farsi troppe domande. Fu Giovanni il primo ad avvicinarsi al punto esatto, ma, quando vide, comprese, sbiancò e si fece da parte, volgendo altrove lo sguardo, e poi piegandosi in avanti, preda di un violento conato. Ermes, che aveva osservato l’insolito atteggiamento del collega, in genere molto controllato, si accostò a sua volta per confrontarsi con quanto aveva scosso l’amico.

    «Santo Cielo...», incespicò nelle parole, inorridendo e spalancando la bocca, quasi annaspando per trovare un appiglio nella ragione. Arretrò, barcollando.

    «Non è l’unico posto dove ne abbiamo trovati, guardate laggiù», disse fra’ Leone.

    Alzando gli occhi, come quando intorno a una stella nel cielo notturno la vista cattura improvvisamente una distesa sterminata di incantevoli luci, essi videro moltiplicarsi l’orrore e si resero conto della sua vera portata, perché intorno a quel primo macabro sacrificio, ve ne erano decine e decine di altri, semi sommersi dalle immondizie, resi putridi e quasi irriconoscibili.

    «Sono un’infinità», mormorò Ermes, sondando con lo sguardo fin dove potevano spingersi ragione e coscienza.

    «Uomini, donne, bambini. Bambini soprattutto. Ci sono centinaia di piccoli corpi abbandonati, alcuni non sono nemmeno del tutto formati», spiegò il frate, sconvolto.

    Ermes dondolò tra professione e sgomento. Vicino ai suoi piedi c’era il braccio minuto, esile, indifeso, di un esserino piccolo, il cui corpo era disseccato, ma ancora coperto di pelle attaccata alle ossa, come se fosse parzialmente mummificato. Si piegò in ginocchio e scavò, liberando i resti del bambino, in parte devastato dal pasto di chissà quale animale, con segni evidenti del taglio di bisturi e arnesi da sala operatoria.

    «Era un feto a termine gravidanza, grande e formato abbastanza da nascere. Pelle bianca», disse.

    Fra’ Leone si abbassò, raccogliendo il corpicino tra le braccia, incurante del fetore, dello stato di decomposizione, della morte.

    «È proprio di pelle bianca», confermò Giovanni. «Non ho mai visto nulla del genere».

    Il sole saliva.

    «Dobbiamo trovarli tutti e dare loro sepoltura. Il battesimo, sì, dobbiamo ricomporli battezzarli e seppellirli», disse il frate, con la frenesia della fede.

    «Dobbiamo capire cosa è successo», lo interruppe Ermes.

    «Qualcosa posso spiegarvela io».

    Si girarono tutti e tre verso Kabane.

    Capitolo 4

    Serenissima Repubblica di Venezia

    10 dicembre 1605

    Quando passava per Rialto, Marco si soffermava a ponderare con aria assorta il Gobbo, figura di pietra contorta nell’atto di reggere il ponte, l’uomo privo di vita che per ultimo guardava negli occhi i condannati a morte della Serenissima. Poi andava oltre, camminando piano, per osservare meglio la gente, la numerosa, variopinta, affollante gente che si riversava ogni volta possibile nelle zone di mercato e che gli trasmetteva lo spirito inesausto di quelle calli corteggiate dal riverbero liquido dei canali. Lui sopra il ponte ci passava quasi tutti i giorni per andare nel sestiere Castello, dove lavorava con un mercante, un certo Giovanni Calbano.

    Ma c’era anche un altro motivo per cui a Marco Valenti piaceva fare sempre lo stesso tragitto, evitando le gondole: perché là c’era l’abitazione che gli interessava più di ogni altra. Si fermò, infatti, non appena fu abbastanza vicino. Ca’ Zorzi era piuttosto grande, vicina a un sotoportego decorato di una spensieratezza orientale che a lui piaceva parecchio, come gli piaceva la figlia minore degli Zorzi. L’aveva vista una domenica camminare con un codazzo di altre fanciulle di rango e servette fino alla chiesa di San Francesco della Vigna, non lontana da dove lui lavorava. La ragazza, di nome Francesca, non si era nemmeno accorta della sua presenza, e Marco aveva potuto amministrare, inosservato e da lontano, l’emozione crescente nell’ammirare la figura snella e delicata di lei, con spalle esili, sulle quali s’arricciava una stoffa rossa come l’alcanna d’oriente; schiena spavaldamente scoperta, per godere del sole che rompeva gli indugi in un ottobre generoso di tiepidi scorci. Su quella schiena, imprudentemente denudata e seducente, s’adagiavano lunghi capelli d’un castano chiaro, dai riflessi del miele. Castani erano anche gli occhi, incastonati nel viso tondo, vezzoso, che Francesca coloriva con decine di minute espressioni.

    Fin da quel primo incontro, Marco aveva sentito l’immediata attrazione per lei, ma da riservato e timido quale era, non aveva osato far nulla, fino a novembre, quando, superando tutti quegli ostacoli di carattere, si era presentato come il figlio dei nobili Valenti. La fanciulla si era subito incuriosita al vedere il giovane così piacente, dai capelli biondi, ramati e ricci, e soprattutto incontrando gli occhi azzurri di lui, grandi ed emotivi. Nel sentire dei Valenti, lei gli aveva chiesto con voce sottile se fosse parente dell’inquisitore Ruggero. Quella domanda lo aveva spiazzato, ma del resto non era la prima volta che gliela ponevano, facendo riaffiorare il dolore che cinque anni prima aveva costernato la famiglia con violenza: Ruggero, il maggiore di loro due, era morto alla chiesetta di San Siro, alle pendici del Monte Grappa, mentre era in missione per il Senato.

    L’ultima volta che Marco lo aveva visto vivo era stato nell’aprile del 1600, quando era rientrato a Venezia, dalla Terraferma, dove, per l’appunto, stava seguendo un caso difficile, qualcosa che riguardava un certo ebreo convertito, uno scienziato o un medico, o entrambe le cose. Lo aveva visto parlare col padre, ma poi la porta dell’ammezzato paterno s’era chiusa e la cosa era rimasta in camera caritatis. A maggio avevano ricevuto dal doge la notizia che Ruggero era morto, ucciso, adduceva, per causa di popolo. Forse era caduto nell’eresia, forse la Chiesa aveva deciso di eliminare ipso facto il proprio inquisitore per disobbedienza. Marco non aveva spiegato mai quell’affare a Francesca Zorzi, e la fanciulla non s’era mai addentrata con altre richieste; così il tutto si era fermato a quella domanda portata nel loro primo incontro.

    Arrivato al giardino di Ca’ Zorzi, si affacciò oltre le cancellate e guardò all’interno in cerca della ragazza. La trovò senza sforzo: stava attraversando il cortile, diretta probabilmente da una parte all’altra della casa, e tratteneva in mano qualcosa, come fogli.

    «Francesca», chiamò.

    Lei si voltò e lo vide. Un delicato risolino la distolse subito da quanto stava facendo e la portò ad attraversare il piccolo campo. Dondolando allegra arrivò fino a lui e aprì il cancello, portandosi oltre, senza farlo oltrepassare.

    «Mio padre non c’è, non posso farvi entrare».

    Marco le sorrise, godendo delle infinite deliziose espressioni con le quali accompagnava ogni parola, arcuando le sopracciglia sottili, piegando le labbra, muovendo le mani.

    «Non vi preoccupate, sono solo di passaggio. Sono diretto all’Arsenale».

    «Quanto tempo sprecato a lavorare!»

    «Mio padre ha sempre lavorato, perché non dovrei farlo io?», spiegò appoggiandosi al muretto dentro il quale il cancello si agganciava con cardini pesanti ed efficienti. «Cosa state leggendo?»

    Lei, con moto di entusiasmo infantile, come se non aspettasse altro che si sentirsi rivolgere quella domanda, si sollevò tutta, arcuando la schiena e ciondolando frivola la testa.

    «Il merito delle donne scritto da Moderata Fonte». Francesca lo guardò soddisfatta, come se già solo quel titolo dovesse bastare a far comprendere il contenuto dell’Opera. «È stata una mia cara amica a procurarmi il testo, perché è intima del tipografo Imberti e così mi ha fatto il favore».

    «E vi piace?», domandò lui dubbioso.

    «Moltissimo», lo fissò con intensità «Soprattutto perché afferma che maschi e femmine sono uguali e anzi, che le femmine sono, per certi versi, superiori a voi altri».

    «Ma è donna lecita questa vostra amica?»

    «Non è scritta sul libro delle cortigiane, se è questo che intendente dire!»

    «Non intendevo affatto questo», corse ai ripari, mentre Francesca riapriva il cancello per ritirarsi. «Aspettate, vi prego, non volevo offendervi».

    «Però lo avete fatto. A me pare normale che gli uomini debbano smetterla di pensarsi superiori alle donne. Del resto se non fosse per noi altre, voi non avreste alcun partito da difendere, non una famiglia da mantenere, non un angelo del fuoco a scaldare le vostre notti gemendo tra le lenzuola a vostro comando!»

    Il Valenti la fissava ora del tutto perplesso.

    «Che modo di parlare è il vostro?»

    «Siete davvero troppo ingenuo Marco, non credevo».

    «E voi lo siete troppo poco, Francesca».

    Lei lo guardò irosa, stringendo gli occhi grandi e castani e i fogli al petto, quasi le fossero più preziosi della vita.

    «Non meritate altre parole. Mio padre ha ragione quando dice che non devo parlarvi e che i Valenti avranno vita breve».

    Lui si irrigidì e respirò a fatica l’aria complessa, inspessita dal tanfo dei canali e dall’imbarazzo.

    «Cos’avete detto circa i Valenti?»

    «Quel che ho detto poi. Mio padre non vi stima e non vuole che parli con voi, e inizio a dargli ragione».

    Si infilò nel cancello, facendo fremere le inferriate per il vigore della serrata. Marco restò attonito a guardarla, combattuto, ma poi si scostò e si diresse alla chiesa di San Francesco; aveva la gola secca.

    Capitolo 5

    Una volta arrivato si fermò a contemplare la dimenticanza mistica e spirituale che aleggiava nel campo erboso, proprio davanti alla chiesa. Così sostava, un po’ piegato, molle sulle gambe, perplesso. Venezia sembrava improvvisamente vuota. Poi, fu scosso dal rintocco della campana che risuonò nove volte dall’alta torre campanaria.

    «Marco, ragazzo mio, se proprio avete da contemplare qualcosa, fatelo all’interno, dove Nostro Signore di certo gradirà la vostra visita più che se restate qua a meditare le colonne del Palladio».

    Si voltò: un frate avanzava rubicondo e stanco, gli occhi azzurri un po’ acquosi per il vento; biondissimo, quasi albino, dallo sguardo di uno tenace e sofferente. Gli si fermò davanti, mettendo giù i due secchi colmi di terra che stava trasportando, detergendo il volto sudato, nonostante il gelido dicembre. Smanettò furiosamente il saio marrone, un po’ logoro agli orli di maniche e veste, e quindi piantò i pugni chiusi sui fianchi, in una posa di smania e pazienza.

    «E allora? Non siete a lavoro? Guardate che è tardi». Nessuna risposta. Marco taceva, perplesso, disorientato. Il frate lo scrutò con maggiore attenzione. «Vi vedo sconvolto. Venite, così ne parliamo».

    Lo condusse a destra della maestosa facciata palladiana, dopo aver varcato il discreto accesso che introduceva a un riparo silenzioso e contemplativo. Da qui, lo sguardo di Marco andò ai due chiostri ritmati da colonne, all’erba che attorniava le vere da pozzo, ai cipressi che sorvegliano la pace del luogo, custodia, tra l’altro, per le tombe di molti nobili veneziani, poiché il cortile maggiore aveva proprio funzione di camposanto.

    Fra’ Iulio lo precedeva di un passo, occhieggiando a destra e a manca in cerca di un angolo solitario e meno freddo, dove magari un filo di luce portasse tepore alle membra che la bora aveva raggelato davanti alla chiesa. Il Valenti, invece, esplorava il pavimento composto dalle numerose lapidi con iscrizioni, cosa che si ripeteva lungo i quattro lati che circondavano il giardino. Ma non erano le parole incise sulla pietra a rimbalzare nella mente, bensì quelle di Francesca Zorzi.

    Ser Zorzi non era tipo da dire cose che non avessero un peso, da politico quale era, vicino ai Dieci, al doge e al Senato intero. Non che avesse mai avversato apertamente i Valenti, ma in quelle poche parole riferite dalla figlia, Marco aveva avvertito un’eco alle proprie recondite preoccupazioni e subito dopo l’agitazione provata aveva concretizzato ancora di più i suoi timori.

    Fra’ Iulio, nel frattempo, si era messo seduto sul muretto tra due colonne, sotto la volta di una delle arcate e gli aveva fatto segno di accomodarsi al suo fianco. Lui si accostò e vi prese posto, lasciando sfuggire un sospiro corposo, al quale il frate rispose con una pacca affettuosa sulla gamba. Dietro di loro il giardino era spoglio, benché vi fossero dei piccoli miracoli color lilla in vasi di coccio posti intorno al pozzo, fiori di inverno deliziosi, dei ciclamini con il capo erto e fieri d’essere portatori di limpida speranza nella mestizia di un periodo di cupa lontananza di primavera. I cipressi erano muti, senza il vento a sfiorare loro le gole frondose, e il mare era calmo. La nascita del Signore era vicina, dopo tutto, e quello era motivo di animazione al convento, dove la preghiera d’Avvento s’era fatta fervida e l’attesa era diventava elevazione dello spirito, almeno per chi si lasciava raggiungere dal senso profondo dell’avvenimento.

    «Era da qualche tempo che non vi vedevo così abbattuto, ragazzo mio, anzi, mi sembravate particolarmente allegro in questo periodo».

    «Voi sapete perché», rispose.

    «Francesca?»

    «Lei».

    «Quindi ora è causa del vostro stare male?»

    Alzò lo sguardo ed entrò negli occhi del frate.

    «Mi ha fatto un discorso parecchio strano».

    «Cosa vi ha detto?»

    Marco lo guardò, irrisolto, ma poi concesse di ripetere la frase che la ragazza gli aveva riferito, al che lo sguardo del frate si fece tetro e consapevole.

    «Così vi ha detto che la famiglia Valenti si estinguerà».

    «Sì».

    «Vorrei potervi dire che non dovreste dare peso allo sfogo di un padre tanto possessivo quale è Filippo Zorzi, ma sarebbe menzogna».

    «Siete a conoscenza di qualcosa che io non so?»

    «Di questa cosa dovreste parlare con vostro padre, non con me».

    «Fra’ Iulio, cosa sapete?»

    «Purtroppo anche vostro padre teme che la famiglia Valenti possa essere fatta oggetto diciamo... di particolari attenzioni da parte del Consiglio dei Dieci».

    «Perché? È per il modo in cui è morto Ruggero?»

    «Oh no, è per il modo in cui Ruggero è vissuto, piuttosto».

    Un lieve vento scivolò lungo le alte mura, si insinuò all’interno, discese verso il basso, accarezzò il prato e la corolla dei ciclamini che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1