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Sfregiata
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E-book739 pagine5 ore

Sfregiata

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Info su questo ebook

Ispirandosi a una vicenda reale, Sfregiata è il primo volume di un'avvincente serie che si basa su casi autentici e indagini realmente realizzate dal più famoso patologo forense tedesco. Racconta la scioccante storia di un serial killer che colpisce in prossimità degli aeroporti europei in modo veloce, imprevedibile e crudelmente efferato. Le sue vittime sono esclusivamente donne sole, sul cui corpo inerme l'assassino lascia una firma personalizzata. Indizio imprescindibile per il medico legale Fred Abel cui è stato affidato questo caso.

Michael Tsokos, medico patologo forense e docente. Dal 2007 è direttore dellíIstituto Nazionale di Medicina Legale e Sociale a Berlino.  Finora è l'unico autore tedesco di cui i titoli, in particolare su spettacolari casi di medicina legale, sono tutti best seller pubblicati sia nelle collane di saggistica sia in quelle di narrativa.

Andreas Gößling, scrittore, editore, germanista, politologo e scienziato della comunicazione è nato a Gelnhausen nel 1958. Attualmente vive e lavora a Berlino. Nella sua carriera ha pubblicato, anche sotto pseudonimo, molteplici saggi e romanzi per adulti e ragazzi. 
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2019
ISBN9788899706555
Sfregiata

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    Anteprima del libro

    Sfregiata - Michael Tsokos

    .

    PROLOGO

    Aprì di colpo la portiera del furgone color ocra, nel momento giusto. Metallo colpì contro metallo e la ragazza precipitò a terra con la bicicletta. Il suo corpo sollevò una nuvola di fango e polvere quando impattò con la piccola strada sconnessa. Esattamente come lo aveva immaginato. Centinaia di volte, per giorni e notti interi.

    Scese lentamente dal furgone e ostentò un ampio sorriso con denti che sembravano zanne. Il suo battito era così accelerato che aveva quasi le vertigini. L’adrenalina era tornata. Finalmente.

    Fai con calma, si ripeté, se no finisce tutto subito. L’enorme brivido che sognava da tempo.

    Osservò quell’intreccio di gambe e braccia nude, di raggi e ruote che giravano nel vuoto. Immaginò mentalmente di strapparle i vestiti dal corpo.

    Avrebbe inciso, attentamente e lentamente, ogni singola parte del suo corpo. Si era procurato una collezione di coltelli completa, e non era stato facile. Ogni volta che spariva un coltello diventavano tutti nervosi. Un giorno un coltellaccio per verdure, un altro giorno quello da macellaio che sembrava un’ascia, con la quale al bisogno si potevano anche fare a pezzi le ossa.

    Al bisogno, pensò. Certi bisogni possono anche capitare.

    Il viottolo conduceva in mezzo al bosco, molto lontano dalla città. A quell’ora del mattino non c’era nessuno in giro. Si chinò sulla ragazza e afferrò la bicicletta per il manubrio e il telaio. Sotto ai raggi contorti il volto pallido della giovane era imbrattato di fango. Piagnucolò qualcosa, ma lui non le prestò attenzione. Era ora di portarla via.

    Gettò la bicicletta nella sponda del canale incolto lungo la strada. Lì sotto giaceva ogni genere di immondizia, nessuno sarebbe andato a cercare lì una bicicletta. E in ogni caso chi se ne frega, pensò.

    Quando si voltò nuovamente, la ragazza stava cercando di sgusciare via. «Non pensarci neppure, carina!» le gridò.

    Con tre balzi fu su di lei. La ragazza girò la testa per guardarlo. Aveva la fronte e le guance nere, rosse e grigie, macchiate di olio, sangue e polvere. Gli occhi spalancati e pieni di paura. La nuda paura di ciò che sarebbe accaduto.

    Non doveva sforzarsi per colpire con forza. La gente si stupiva spesso di questo. Non era particolarmente alto, ma compensava ampiamente grazie alla potenza dei suoi pugni. La colpì di lato, al collo e il suo corpo cadde inerte all’istante.

    La buttò nel retro del furgone, salì anche lui e si accovacciò al suo fianco. Quando la ragazza ricominciò a muoversi e a lamentarsi, fu sul punto di farsi prendere dal panico. Merda, non aveva pensato che avrebbe dovuto farla stare calma in qualche modo. Morta no, ma calma. Durante il viaggio non poteva andare continuamente dietro per rimetterla ko.

    Il suo sguardo vagò all’interno del furgone. Sul pianale era inserita una specie di botola e quando l’aprì fuoriuscì una corda arancione. Un cavo da traino, forse un po’ grosso per i suoi scopi, ma riuscì a legarla mani e piedi.

    La giovane si agitò, gemendo più forte e roteando gli occhi. Ma dopo che l’ebbe di nuovo colpita, questa volta alla tempia, si accasciò. Con una striscia di cerotto adesivo preso dalla cassetta del pronto soccorso riuscì a chiuderle anche la bocca.

    Pronti per il viaggio, pensò e scese. Solo quando aprì la portiera si accorse dell’ammaccatura sotto alla maniglia. Maledizione, suo fratello si sarebbe infuriato. La vernice era completamente graffiata e la rientranza così profonda che poteva infilarci dentro mezzo pollice.

    Gli salì il sangue alla testa. Tutta colpa di quella stronza! Fu assalito dalla visione di lui che strozzava la troietta là dietro con le proprie mani. Immaginava che fosse distesa sotto di lui, che tremasse e gemesse aggrappandosi a lui come quando si fa l’amore. Lottò a lungo contro la tentazione di farla secca sul posto.

    Non rovinare di nuovo tutto, si ripeté. Hai preparato ogni cosa perfettamente, quindi segui il piano.

    Respirò profondamente un paio di volte e fu di nuovo padrone della situazione.

    A suo fratello avrebbe raccontato una qualsiasi balla merdosa. Che aveva parcheggiato la carriola da qualche parte e al suo ritorno c’era quella maledetta ammaccatura. A chi importava una cosa tanto idiota come un’ammaccatura o un graffio alla carrozzeria?

    A lui no di certo, a lui interessavano i graffi sui corpi femminili, gli altri no. E le parole, che finalmente avrebbe inciso sulla sua pelle, come sognava da tempo.

    No, questa volta non avrebbe rovinato tutto. Aveva perfino trovato un nascondiglio in cui avrebbe potuto inciderla in tutta tranquillità. Nessuno li avrebbe cercati laggiù. A nessuno sarebbe venuto in mente che in quel buco ci fosse qualcosa oltre ai topi.

    Scivolò al volante del furgone, chiuse la portiera e partì sgommando.

    1

    Berlino-Tegel

    Giovedì 2 luglio, ore 19:45

    Nel corso degli anni il piccolo supermercato era diventato fatiscente come tutto il resto del popolare complesso edilizio alla periferia nord-ovest della città, così come buona parte dei suoi abitanti.

    Irina Petrowa era in fila alla cassa e le doleva ogni singolo osso del suo corpo settantaseienne. Sebbene la città languisse ormai da otto giorni sotto una campana bollente, l’anziana signora rabbrividiva nel suo soprabito estivo. Aveva la vista appannata dalla cataratta e nelle orecchie le rimbombava il suono eterno dell’acufene. Perciò cercava di tenere occhi e orecchie ben aperti per cogliere quanto più possibile di ciò che le accadeva intorno.

    Tuttavia in quel momento non accadeva nulla di particolarmente interessante. Tutti quelli in fila sembravano stanchi ed esausti. Alcuni di loro avevano indubbiamente un’intera giornata di lavoro alle spalle e facevano un bel po’ di spesa prima della chiusura dei negozi. La maggior parte dei clienti sembrava però condurre una vita da single, visto che nei loro carrelli c’erano solo pochi prodotti. Come in quello di Irina Petrowa.

    Centimetro dopo centimetro spingeva avanti il carrello con una mano mentre con l’altra stringeva l’impugnatura del suo antiquato bastone. Lo aveva ereditato da Sascha, suo fratello più giovane che era morto l’estate precedente a soli settantuno anni. La vodka, la maledizione della Russia, pensò. Il volo a San Pietroburgo per assistere al funerale aveva esaurito le sue ultime forze.

    Il viaggio, la città della sua giovinezza, i ricordi che da quel momento non l’avevano più abbandonata.

    Irina Petrowa era arrivata in Germania già ai tempi della Guerra Fredda, naturalmente per amore. Un amore che però era subito appassito nel grigiore della quotidianità della ddr. Più o meno aveva trascorso la sua intera vita di adulta nella capitale, prima a Berlino Est e poi, dalla caduta del muro, si era trasferita a Berlino Ovest. Da oltre dieci anni era rimasta vedova.

    Sulla tomba di Sascha le era venuto per la prima volta il pensiero di aver perso la propria vita così come si perde un treno alla stazione. Da allora si sentiva ribollire dalla voglia di vivere. La gran parte dei suoi coinquilini, nella residenza per anziani, si era arresa. Irina Petrowa no, lei voleva vivere, anche se ogni giorno di più qualsiasi movimento le costava dolore.

    Non aveva mai visto prima la ragazza alla cassa. O lì cambiavano le cassiere ogni due giorni oppure la sua memoria a breve termine la stava rapidamente abbandonando, come la sua vista. Irina Petrowa pregò la commessa di aiutarla a insacchettare la spesa e si avviò verso casa con il bastone e la borsa di plastica.

    Vicino all’uscita erano state allestite delle offerte per gli amanti del giardinaggio. Percepì solo come un’ombra sfocata il robusto nero che osservava l’esposizione di sdraio e barbecue. Passo dopo passo si trascinò attraverso il parcheggio e l’ombra scura la seguì.

    Sul lato sinistro c’era un piccolo spazio verde con alcune panchine su cui, come sempre, erano seduti degli alcolizzati. Irina Petrowa fece attenzione a non avvicinarsi troppo a quei vecchi dalla voce roca, ma non servì a nulla. Sono come Sascha. Anche se il becchino aveva fatto del suo meglio, il suo povero, giovane fratello sembrava una mummia nella bara. Emaciato e accartocciato, come se l’alcol lo avesse bruciato da dentro.

    Una volta superato il parcheggio la porta d’ingresso distava solo un centinaio di metri, ma a Irina Petrowa sembrò una marcia forzata attraverso il deserto. Il sole serale era ancora accecante e la colpiva agli occhi, così che tutto appariva avvolto da una nebbia abbagliante. Rivoli di sudore le colavano lungo la schiena e allo stesso tempo sentiva un freddo intollerabile. Avanzava ostinatamente sul vialetto spingendo davanti a sé il bastone con l’impugnatura argentata a testa di falco. Avrebbe potuto farsi consegnare la spesa a domicilio, certo, ma la cosa era fuori questione: l’uscita serale al supermercato era il momento più eccitante della sua giornata.

    Ogni mattina alle nove la badante, una bellezza caraibica di nome Mercedes Camejo, arrivava per sbrigare le faccende domestiche e aiutarla nell’igiene personale. Ma Irina Petrowa era sempre felice quando quella ragazzona se ne andava. Non riuscivano ad avere una sola conversazione decente: la badante parlava un tedesco stentato e Irina coglieva solo un parlottio senza senso.

    Finalmente Irina Petrowa aveva raggiunto il blocco a sei piani da cui si poteva già vedere l’aeroporto di Tegel. Ospitava sessanta anziani in appartamenti adattati alla terza età. Si piegò in avanti, posò il bastone al muro accanto alla porta d’ingresso e cercò le chiavi nelle tasche. Sulla strada di fronte l’uomo con la pelle color fumo studiava i manifesti di una colonna pubblicitaria. Irina Petrowa intuiva vagamente che quell’ombra la seguiva, ma nella sua testa si era trasformata in un’altra cosa. Dopo decine di anni di separazione lei e suo fratello Sascha si erano riavvicinati poco prima della sua morte. Si erano scritti delle lettere e si telefonavano più volte al mese. Irina aveva sempre considerato Sascha un tipo grezzo e spavaldo che riteneva una perdita di tempo qualsiasi riflessione profonda. Ma poco prima della sua morte, grazie a una prodigiosa trasformazione, era praticamente diventato un mistico.

    O prima aveva sempre recitato o la vodka lo aveva fatto diventare saggio, pensava Irina Petrowa. Ma entrambe le opzioni le apparivano improbabili. Irina stava lottando con la chiave che si era impigliata nella tasca del soprabito e provava un caldo terribile.

    Le ombre che ci avvolgono non sono altro che i nostri pensieri impuri, le aveva spiegato Sascha poche settimane prima di cadere in coma. Lo capisci, Irina?

    A dire il vero non aveva capito. Non era logico, perlomeno di primo acchito. Certo, se uno la guardava dal punto di vista della saggezza mistica, poteva anche avere un certo senso.

    Con la mano che tremava spinse la chiave nella serratura. Dopo avere aperto e ripreso il bastone si trascinò all’interno dell’atrio. L’ascensore stava lì, tentandola con la porta aperta e la luce al neon ronzante, ma Irina Petrowa si voltò decisa in direzione delle scale. L’ascensore lo hanno inventato i becchini, le aveva inculcato anni prima Grigorij, il sacerdote della sua parrocchia ortodossa.

    Questa cosa aveva convinto Irina Petrowa, senza bisogno della mistica. Il suo medico le aveva detto praticamente la stessa cosa ma senza nominare i becchini. In ogni caso giorno dopo giorno si prendeva la briga di salire per le scale fino al primo piano. Si stupì leggermente di non aver udito la porta chiudersi alle sue spalle, ma nelle sue orecchie c’era il rumore di un tram sferragliante.

    Tuttavia quando fu sul pianerottolo del primo piano si voltò per guardare in basso. Non c’era nessuno, o al massimo un’ombra a metà delle scale, e di nuovo tornò a pensare a Sascha. Le ombre non esistono, capisci Irina?

    Sì, fratellino, capisco cosa vuoi dire. Davanti alla propria porta dovette ripetere il fastidioso rituale. Posò il bastone contro la parete, estrasse la chiave dalla tasca del soprabito e aprì. Poi prese nuovamente il bastone e con la punta ricoperta di gomma spinse la porta.

    In quell’istante fu colpita da un urto violento alla schiena. Cos’è stato? Per l’amor di Dio! Inciampò nel piccolo ingresso buttando per aria le braccia e il bastone e la spesa caddero dalle sue mani atterrando sul tappeto. Tentò di voltarsi ma ricevette un secondo colpo alla schiena, ancora più forte che la fece cadere definitivamente a terra. Irina Petrowa rimase distesa. Le braccia e i polsi, con cui aveva tentato di attutire la caduta, le dolevano in modo infernale. Avrebbe voluto urlare ma non ci riuscì. Due mani potenti le afferrarono testa e spalle premendole il viso contro il tappeto che puzzava di muffa. Rimase prona e inerme lottando per non perdere conoscenza.

    Ombre, pensò, e di colpo fu tutto buio.

    Quando riprese i sensi, era ancora distesa nell’ingresso, ma stranamente di schiena. La porta dell’appartamento era chiusa e accanto a lei un uomo inginocchiato sul pavimento la fissava attentamente. Il bianco degli occhi e dei denti risaltava in modo irreale sul volto scuro. Sebbene intontita, Irina Petrowa sapeva che quello era l’uomo tarchiato visto all’uscita del supermercato.

    Sulle ombre ti sei sbagliato, Sascha, pensò. È solo un ladro che ha messo gli occhi sui miei gioielli.

    La bocca dell’uomo si apriva e si chiudeva, evidentemente le stava parlando. Ma Irina Petrowa non capiva una parola. L’acufene le tintinnava nelle orecchie. Aveva il cuore in gola. «Prenda tutto!» strillò.

    L’uomo digrignò i denti, le afferrò la gonna e la spinse su, fino al bacino. Poi le sfilò le calze.

    Irina Petrowa si sentì raggelare. Un pervertito, pensò. Oh, mio Dio, vuole violentarmi!

    Stava per gridare aiuto ma l’uomo le mise la mano sul collo e premette. Se solo avessi il bastone! Presa dal panico Irina Petrowa tastò il pavimento con le mani. Ma non riuscì a trovare quel maledetto arnese. Si dimenò e divincolò ma non servì a nulla, allora conficcò le unghie nelle mani dell’uomo che le stringevano la gola come un laccio d’acciaio.

    Ma non aveva nessuna speranza. Un ultimo spasmo attraversò il suo corpo, le sue braccia caddero esanimi e il suo sguardo si vuotò per sempre.

    2

    Berlino, Treptowers

    bka, Ufficio Federale di Polizia Criminale

    Unità Delitti Estremi

    Venerdì 3 luglio, ore 7:25

    Mentre faceva colazione il dottor Fred Abel aveva ricevuto una chiamata dalla segreteria: quella mattina presto in un piccolo aeroporto nella regione dell’Uckermark un aereo Cessna era caduto durante la fase di atterraggio. Otto paracadutisti più l’equipaggio. Nessun superstite.

    Tutti i medici legali disponibili dell’Istituto Federale di Medicina Forense di Berlino e dell’Istituto di Medicina Legale della Charité erano stati convocati sul luogo del disastro per identificare i cadaveri in un obitorio allestito provvisoriamente. Così ancora una volta Abel e i suoi colleghi dell’Unità Delitti Estremi dovevano intervenire per sostituirli nel servizio di reperibilità. L’Unità Delitti Estremi faceva parte del Dipartimento di Medicina Legale del bka¹, l’Ufficio Regionale di Polizia Criminale. Nei giorni successivi, fino a quando i colleghi di entrambe le istituzioni berlinesi non avessero terminato l’identificazione dei paracadutisti precipitati, si sarebbero ritrovati sui tavoli autoptici tutti i casi di morti anche solo remotamente sospette.

    Anziché iniziare la giornata facendo con calma colazione con Lisa, la sua compagna, Abel aveva bevuto in fretta il caffè e si era precipitato fuori di casa.

    A quell’ora dalla sua casa di Grünau fino alla Treptowers occorreva almeno mezz’ora di auto.

    Come se non avessimo già abbastanza cadaveri nel seminterrato, pensò Abel mentre parcheggiava l’Audi A5 nera nel posteggio della Treptowers. Il box accanto in cui di solito sostava la Range Rover di Herzfeld era vuoto. Proprio oggi.

    Il giorno prima il professor Paul Herzfeld, il direttore del loro reparto speciale, aveva iniziato la sua breve vacanza di cinque giorni. Essendo Abel il suo diretto sostituto toccava a lui il discutibile onore di coordinare il caos in arrivo.

    Va bene, andiamo.

    Inspirò profondamente mentre varcava l’ingresso dell’imponente grattacielo del quartiere berlinese di Treptow. A quell’ora il caldo era ancora sopportabile ma più tardi, verso mezzogiorno, il termometro avrebbe segnato temperature tropicali. In ogni caso non all’interno dell’enorme complesso di uffici che era dotato di un sistema di condizionamento spietatamente efficiente.

    Il complesso di Treptowers deve il nome alla torre ricoperta di vetri sulla sponda dello Sprea, che con i suoi centoventicinque metri di altezza rappresenta l’edificio più alto di Berlino. Abel lavorava al bka già da cinque anni, ma aveva avuto poche occasioni per ammirare la leggendaria vista dalla terrazza sul tetto. Il reparto speciale di medicina legale con le sue celle frigorifere, i laboratori e le sale per le autopsie si trovavano a più di dieci metri sotto terra.

    Entrato nella hall dell’ingresso salutò il portiere con un cenno e scese con l’ascensore al secondo piano sotterraneo.

    Per fortuna al primo incontro della giornata, che si teneva ogni mattina alle 7:30 nella sala riunioni arredata con mobili grigi, non mancava nessuno dei colleghi in servizio. Come al solito il medico assistente austriaco, il dottor Alfons Murau, stava raccontando aneddoti piccanti in un dialetto sguaiato. Nel frattempo si accarezzava la grossa pancia, come se il suo umorismo viennese fosse un piatto gustoso. La dottoressa Sabine Yao, la delicata cinese-tedesca, lo ascoltava con un mezzo sorriso mentre sorseggiava il tè da una minuscola tazza in porcellana.

    Solo il dottor Martin Scherz, medico primario e il più anziano in termini di servizio al dipartimento, come al solito pareva ignorare gli altri esseri umani vivi. Bevendo rumorosamente dalla sua tazza di caffè fissava il vuoto con aria annoiata. Con la rada barba grigia, che esaltava il doppio mento più che nasconderlo, e l’espressione scontrosa non offriva una piacevole immagine. Decine di anni al tavolo dell’obitorio lo avevano reso privo di emozioni. Ma anche se Scherz non era un personaggio gradevole, Abel lo stimava molto come medico legale. Quell’uomo grezzo possedeva un’immensa esperienza e nella sua memoria infallibile racchiudeva centinaia di referti di autopsie che, come in un archivio digitale, poteva citare in ogni momento con nome, data e risultati.

    «Mi duole guastare il buon umore» disse Abel dopo aver salutato i presenti. «Ma nei prossimi giorni dovremo occuparci non solo delle vittime di delitti estremi, ma di tutti i casi di morti sospette della città». Picchiettò sulla pila di classificatori che giaceva davanti a lui sul tavolo riunioni. «Si tratta di mutua collaborazione con i colleghi dell’Istituto Federale di Medicina Forense e con quelli della Charité».

    Yao sollevò le sopracciglia che sembravano disegnate con un pennellino per ideogrammi. Scherz emise un lungo sibilo che sembrava l’ultimo sbuffo d’aria esalato da un canotto bucato. «Porca troia, anche questo» grugnì.

    Solo Murau non sembrava colpito dall’incombente carico di lavoro, al contrario il suo volto tondo esprimeva trepidazione. Si accarezzò la pancia e cominciò a recitare a mezza voce:

    «È un mietitore, si chiama morte

    Ha il potere dal Dio più forte

    Oggi la lama vuol affilare

    Certo a fondo potrà tagliare

    Molto presto l’affonderà

    Un grande dolore ci colpirà.

    Stai attento a te, bel fiorellino²».

    Abel ammirava molto il repertorio di poesie nere di Murau, ma quel giorno non era proprio in grado di apprezzare digressioni e divagazioni liriche. Il suo umore era già abbastanza nero.

    «Forse venendo qui avrete sentito la radio». In poche parole riassunse quanto accaduto all’aeroporto nell’Uckermark. «Ovviamente i delitti estremi hanno la priorità». Picchiettò nuovamente sulla pila di cartelline. «Ma dobbiamo tenere presente che in ogni momento e per qualsiasi caso di omicidio o attentato il Dipartimento Regionale di Polizia Criminale, l’lka³, potrebbe richiedere la nostra collaborazione».

    Prese i raccoglitori uno dopo l’altro ed espose brevemente ogni caso. A Charlottenburg era saltato per aria un bancomat imbottito di esplosivo, la vittima dilaniata era probabilmente il ladro stesso; fino a quel momento non c’erano indizi sulla sua identità. In una zona boscosa a nord-est di Berlino era stato trovato il cadavere di una donna ormai da tempo ridotto a scheletro, con il cranio crivellato da più colpi, momento del decesso sconosciuto. A Kreuzberg una donna di origine turca era stata selvaggiamente massacrata dal marito con una scimitarra. E per finire l’uomo aveva scaraventato la testa della moglie dal balcone del quarto piano giù nel cortile interno. Il tutto sotto agli occhi dei loro quattro figli e di numerosi condomini richiamati alla finestra dalle urla della donna che lottava per la sua vita.

    Per il caso più bizzarro della giornata entrava in gioco un evidente cannibalismo a scopo sessuale. O una follia finita fuori controllo. Forse entrambe le cose. In ogni caso, la polizia aveva trovato in un appartamento alla periferia di Berlino il corpo di un trentacinquenne, squartato e violato post mortem. Si chiamava Maximilian Kowalske ed era un manager di successo nel mondo della finanza. Accanto al lavoro al mercato della borsa e alla famiglia, conduceva una vita parallela piuttosto insolita. I piccanti incontri omosessuali con l’insegnante d’arte Markus Bossong, di dieci anni più anziano e con cui era entrato in contatto attraverso un sito specifico, gli erano evidentemente sfuggiti di mano: alla fine la sua testa cuoceva in una pentola sulla piastra a induzione di Bossong, e il suo tronco e le estremità giacevano segati in dodici parti e impacchettati con cura nell’appartamento dell’insegnante.

    Bossong stesso aveva avvisato la polizia sostenendo che Kowalske lo avrebbe costretto a legarlo mani e piedi e a incollargli dapprima la bocca con l’attaccatutto e poi a sigillarla ermeticamente con nastro da imballaggio. «Desiderava che fosse l’ultimo brivido sessuale della sua vita» aveva dichiarato Bossong nel verbale. L’insegnante aveva però messo il nastro in modo che Kowalske ricevesse ancora un po’ di ossigeno, ma purtroppo non era stato sufficiente, come aveva poi dovuto constatare. Poi, come desiderato dall’altro uomo, aveva introdotto nell’ano del manager finanziario una grossa quantità di schiuma di poliuretano espanso con una pistola a spruzzo, cosa questa che lo aveva ulteriormente eccitato. Solo quando Kowalske non aveva più dato segni di vita si era reso conto che era morto.

    «Il signor Kowalske voleva così» aveva dichiarato ripetutamente Bossong durante la deposizione. Il motivo per cui alla fine avesse fatto a pezzi il corpo e messo a cuocere la testa rimase un mistero anche dopo l’interrogatorio. Il giudice aveva ordinato di chiarire con l’autopsia le effettive circostanze e le cause della morte.

    «Si può proprio dire che qualcuno ha perso la testa per il godimento» osservò Murau con la sua solita malizia. Scherz tirò su rumorosamente col naso. Il climatizzatore nell’angolo della sala riunioni lanciava sbuffi di aria gelida.

    «Lei prenda in carico il caso di Kreuzberg, per favore» disse Abel a Sabine Yao, che annuì con un cenno del capo. Il suo volto pallido e dai lineamenti minuti gli ricordava una raffinata maschera di porcellana.

    «Lei si occuperà della vittima dell’esplosione e lei del cadavere trovato nel bosco» disse rivolgendosi a Murau e Scherz. L’autopsia di Maximilian Kowalske l’avrebbe eseguita lui stesso.

    Chiuse la riunione mattutina e tutti si alzarono dalle sedie. L’esile Sabine Yao, che per lavorare al tavolo dell’autopsia era costretta a salire su uno sgabello, gli arrivava a malapena ai fianchi. Ma col suo metro e ottantanove Abel superava di qualche centimetro anche Alfons Murau, un uomo piuttosto alto. Abel era snello e abbastanza muscoloso per essere alla metà dei quaranta, quindi sembrava molto più in forma di come si sentisse. Il lavoro gli concedeva solo poco tempo per le attività sportive e lo svago. Inoltre negli ultimi mesi la salute della madre era rapidamente peggiorata e Abel aveva dedicato ogni ora libera alle visite in ospedale.

    Mentre lasciavano la sala riunioni Murau recitò:

    «Morte, vieni, io non ti temo

    Presto, vieni, col taglio estremo⁴».

    Scherz si tirò le bretelle facendole schioccare.

    «Era una sorta di applauso, caro collega?» gli chiese Murau.

    Il medico dalla barba grigia grugnì.

    «Sembrerebbe di no», sospirò Murau.

    Contrariamente al solito Abel non prese parte alle spiritosaggini dei colleghi, ma non perché si desse arie da capo. Durante l’assenza del professor Herzfeld il supervisore e responsabile del dipartimento speciale era lui, ma il team funzionava solo se tutti lavoravano insieme e si sentivano parte di esso. I suoi colleghi non erano meno bravi di lui, anche se probabilmente a loro mancava il suo rinomato fiuto per le indagini.

    Ma quel giorno non era del suo umore più brillante. Sua madre era morta di sclerosi multipla la settimana precedente, a sessantanove anni. Il dolore per la perdita era calato come un’ombra sulla sua anima. In aggiunta, il giorno prima, sua sorella Marlene gli aveva telefonato accusandolo di essere in qualche modo responsabile della morte della madre.

    Ma la cosa peggiore era una vocina dentro che gli sussurrava: Forse Marlene ha ragione!

    1 Il Bundes Kriminal Amt, Ufficio Federale di Polizia Criminale, ha carattere nazionale, fa riferimento direttamente al ministro degli Interni ed è collegato all’Interpol.

    2 Es ist ein Schnitter, der heißt Tod / Hat Gewalt vom höchsten Gott / Heut wetzt er das Messer / Es schneid’t schon viel besser / Bald wird er drein schneiden / Wir müssen’s nur leiden. / Hüte dich, schön’s Blümelein!

    Arnim, Achim von; Brentano, Clemens, Des Knaben Wunderhorn. Alte deutsche Lieder, 3 Bde; Tübingen: J. C. B. Mohr, 1926; Ristampa dell’edizione: Heidelberg: Mohr und Winter, 1819.

    Il corno magico del fanciullo è un ciclo di poesie e canti popolari pubblicato in Germania da Clemens Brentano e Achim von Arnim. La poesia citata nel testo non è mai stata pubblicata in italiano.

    3 lka, Landes Kriminal Amt, Dipartimento Regionale di Polizia Criminale, organo di polizia del Land.

    4 Tod, komm her, ich fürcht dich nicht / Eil daher in einem Schnitt.

    Arnim, Achim von; Brentano, Clemens, Des Knaben Wunderhorn. Alte deutsche Lieder, op.cit

    3

    Berlino, Treptowers

    bka, Ufficio Federale di Polizia Criminale

    Unità Delitti Estremi

    Venerdì 3 luglio, ore 7:45

    Abel e i colleghi lavorarono l’intera mattinata sui quattro tavoli autoptici nelle rispettive sale autopsie. Per prima cosa Abel scannerizzò tutte le parti del corpo di Maximilian Kowalske col tomografo, per analizzare i segni lasciati dalla sega nei punti di separazione fra il tronco e le estremità. Alla fine, come un puzzle grottesco, ricompose sul lucido acciaio del tavolo le dodici parti del corpo e la testa bollita. Poco dopo fu possibile stabilire con certezza che Kowalske era morto soffocato. Il largo nastro per imballaggi con cui Bossong gli aveva tappato la bocca era scivolato verso l’alto, molto probabilmente perché non aveva potuto aderire alle labbra imbrattate di colla rapida. In tutti i casi il nastro gli aveva chiuso le narici, cosa difficilmente compatibile con la sopravvivenza di Kowalske.

    In chiusura dell’autopsia Abel sezionò il retto del manager finanziario con una forbice per enterotomia portando alla luce i due chili e mezzo di poliuretano espanso indurito. Murau si era appena lanciato in un monologo ricco di citazioni su riti e oggetti di penetrazione omosessuali dall’antica Grecia fino al presente, quando la segretaria Renate Hübner irruppe nella sala autopsie. Tendeva il braccio reggendo un antiquato telefono mobile la cui antenna consumata oscillava avanti e indietro.

    «Potenzialmente idoneo» commentò Murau, cosa che strappò l’accenno di un sorriso perfino al collega Scherz.

    Renate Hübner, un’ossuta signora sui cinquanta terribilmente priva di umorismo, lanciò all’austriaco un’occhiata aspra.

    «Una chiamata per lei, signor direttore generale» comunicò ad Abel col calore di un navigatore satellitare. «È il commissario capo dell’lka 1⁵. È urgente».

    Abel represse un sospiro. Il Dipartimento Regionale di Polizia Criminale, pensò. Si trattava sicuramente di un delitto generico, cosa per cui loro, medici forensi del bka, erano senza dubbio fin troppo specializzati. Ma la collaborazione è collaborazione. Fino a quando i colleghi delle altre istituzioni fossero stati impegnati con l’identificazione dei paracadutisti non gli restava altro da fare che perdere tempo con morti che nella maggior parte dei casi si sarebbero rivelate di natura non criminale.

    Prese il telefono, salutò il commissario capo e ascoltò senza parlare la sua breve relazione.

    «Sono nella polizia criminale da oltre vent’anni, ma una cosa del genere non l’avevo ancora vista» disse Markwitz prima di chiudere. «Quando potrà venire sulla scena del crimine, dottore?».

    5 lka 1, Delikte am Menschen – Abteilung 1 dell’lka. Si tratta dell’unità numero 1, sezione omicidi del Dipartimento Regionale di Polizia Criminale.

    4

    Berlino-Tegel

    Residenza per anziani

    Venerdì 3 luglio, ore 13:20

    Il pensionato era collocato in un edificio degli anni Settanta e la facciata implorava una tinteggiatura nuova. Tra il quinto e il sesto piano si poteva leggere a caratteri vistosi residenza per anziani. Quel vecchio edificio grigio sembrava più che altro una nube temporalesca cementificata.

    Abel parcheggiò dietro il Mercedes Sprinter della polizia scientifica. Davanti alla porta a vetri dell’ingresso erano posizionati due agenti di pattuglia per allontanare i curiosi. Ma nel caldo del mezzogiorno solo una piccola manciata di adolescenti scansafatiche era incuriosita dalla presenza della polizia nel pensionato.

    «Si ammazzano fra di loro adesso là dentro?» chiese uno dei ragazzotti tatuati, mentre Abel si faceva strada fra loro con la propria valigetta.

    «Non ha senso, vecchio» rispose un tipo in canottiera dal collo taurino. «Praticamente hanno già un piede nella fossa».

    Brindarono fra loro con lattine di birra e Abel vide improvvisamente davanti a sé l’immagine di sua madre nel letto di morte. Verso la fine era diventata pelle e ossa, una versione consumata e in miniatura di se stessa. Nonostante sapesse di non poter vincere quell’ultima battaglia, aveva letteralmente lottato per la vita fino all’ultimo respiro.

    Abel conosceva di vista i due giovani agenti, sebbene non ricordasse i loro nomi. Fece loro un cenno di saluto e un sorriso. Il giovane in uniforme eseguì il saluto militare e si fece da parte per farlo passare.

    Proprio come la facciata, l’atrio d’ingresso del pensionato dava una sensazione di squallore. Le pareti erano di vetro e cemento armato e le sedie lacerate, dagli stridenti colori arancioni e gialli degli anni Settanta, invitavano ad accelerare il passo più che a sedersi. Anche la scala elicoidale era di nudo cemento, consumata e sgretolata. Nell’aria soffocante e calda aleggiava l’odore di vecchiaia e solitudine.

    Mentre saliva le scale al primo piano Abel sentiva la valigetta da lavoro più pesante del solito. Al telefono il commissario capo Markwitz gli aveva fornito solo un paio di informazioni basilari: l’anziana si chiamava Irina Petrowa e viveva sola in un appartamento del primo piano. Quel giorno verso le nove era stata trovata morta dalla sua badante. Il luogo di ritrovamento del cadavere era anche la scena del crimine e, a una prima occhiata, pareva trattarsi di una rapina con omicidio.

    «Ma ci sono un paio di stranezze per le quali ci terrei a sentire il

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