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Il detenuto della cella 23
Il detenuto della cella 23
Il detenuto della cella 23
E-book369 pagine5 ore

Il detenuto della cella 23

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Info su questo ebook

Grazia De Caro, brillante redattrice delle Edizioni Airoldi, è perseguitata da enigmatiche e inquietanti missive. Quando viene commesso un delitto, un’ombra di sospetto e di incredulità cala su tutto il personale della stessa casa editrice. Le indagini sono svolte dal commissario Virginio Pace, misogino e scorbutico, e dalla giovane ispettrice Caterina Valle, alle prese col suo primo caso di omicidio e con una relazione sentimentale complicata. Passato e presente si intrecciano e la scoperta della verità porterà ancora sangue.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2022
ISBN9788855392389
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    Anteprima del libro

    Il detenuto della cella 23 - Ossi Gamide

    Prologo

    Come lucciole morenti le luci delle celle si spensero una a una, abbandonando il lungo corridoio nelle mani del blando chiarore delle lampade di emergenza. Era ora che ognuno si mettesse tranquillamente e in buon ordine a dormire, senza protestare e senza inveire con l’uso di un turpiloquio inveterato. La guardia carceraria, mani dietro la schiena, camminava con passo felpato, girandosi ora a destra, ora a sinistra, per abbracciare visivamente ogni cella che incontrava, attenta a controllare minuziosamente che tutto fosse in ordine. Ispezionava i lucchetti, batteva il manganello sulle sbarre, redarguiva i reclusi indugianti nella veglia, e i più turbolenti di loro gli gridavano dietro ogni sorta di epiteti. Ma lui faceva finta di non sentire e lasciava correre senza reagire. Si augurava solo che il detenuto della 23, che aveva già dato segni di squilibrio, non gli procurasse ulteriori grattacapi. E invece, in fondo, un fascio di luce proveniente proprio dalla cella 23, illuminava il corridoio. Ci risiamo pensò. Purché non incominci con la solita tiritera dell’insonnia e degli incubi che lo perseguitano. Affrettò il passo.

    Il detenuto era sul suo letto, sotto la coperta sino al mento.

    «Ehi, tu!» lo chiamò. «Vedo che te ne sbatti del regolamento. Non lo sai che è l’ora di spegnere la luce?»

    Non ottenne risposta.

    «Dico a te. Cerca di non procurarmi guai… ma cosa…» sbirciando tra le sbarre, la sua attenzione venne attirata da una pozza liquida sul pavimento accanto al letto. Intuì che qualcosa non andava per il verso giusto, infilò precipitosamente la chiave nella toppa, entrò e si diresse difilato verso il detenuto.

    «Oh, cazzo…» imprecò disorientato appena prese coscienza della natura del liquido, e vedendo che scorreva dal letto. Sollevò con un gesto secco e nervoso la coperta. Divenne spettatore di una scena alla quale volentieri avrebbe fatto a meno di assistere: il ragazzo era disteso supino sul letto, il volto rilassato e sereno, le braccia incrociate sul petto, e dai polsi continuavano a fuoriuscire fiotti di sangue che avevano già inondato il corpo e le lenzuola; sull’inguine, un frammento di vetro dai bordi frastagliati.

    Esile, curvo nella schiena, il petto scosso a intervalli regolari da colpi di tosse, l’uomo, marcato dai segni di una malattia progressiva, gli occhi chiari oscurati da un velo triste e malinconico, pur essendo in età avanzata, dimostrava molti più anni di quelli che in realtà aveva.

    Si reggeva appena in piedi, il corpo pendente a sinistra esercitava il peso maggiormente sul bastone al quale si poggiava. L’andatura era lenta e ondeggiante, il volto scavato dai segni della sofferenza non palesava alcuna emozione. La sorella si era offerta di accompagnarlo, ma aveva rifiutato categoricamente, asserendo con convinzione che quel compito ingrato doveva assolverlo solo lui, come aveva fatto col riconoscimento della salma. Da quando era arrivato, se ne stava seduto sulla panca della sala d’attesa da oltre mezz’ora, immobile, lo sguardo fisso sulla porta chiusa.

    Il giovane agente di guardia lo osservava con sguardi commiserevoli ma affettuosi, e si sentiva in dovere di offrire servizi in grado di lenirne il peso della permanenza.

    «Ha bisogno di qualcosa? Le porto un bicchiere d’acqua?»

    «No, grazie» rispose l’uomo con tono garbato. «Ne ha ancora per molto?»

    «Chi può dirlo? Purtroppo, sappiamo quando una persona entra, ma nessuno può prevedere quanto tempo impiegherà.»

    «Va bene, aspetto.» Colpi di tosse prolungati conclusero la conversazione. L’uomo prese dalla tasca un fazzoletto stropicciato e se lo portò alla bocca, nell’inutile tentativo di attutirli.

    Passarono ancora alcuni minuti e la porta si aprì. Ne uscì prima una donna di forme opulente e subito dopo il direttore del carcere. Era un uomo di corporatura media, di mezza età, vestiva un abito di discreta fattura e guardava attraverso i vetri di un paio di occhiali che sembravano troppo piccoli per la sua faccia.

    «Prego, si accomodi.» Accompagnò l’invito con un gesto della mano.

    L’anziano uomo si alzò con cautela, i movimenti erano lenti, dosati. Seguì come un automa il direttore che lo precedeva facendogli strada. Imboccarono un lungo corridoio e alla fine di esso, il direttore aprì una porta, si fermò al lato della soglia e gli indicò la via.

    Entrò e lo accolse un locale asettico le cui pareti erano nascoste da enormi scaffalature che dal pavimento si ergevano sino al tetto e, nel mezzo della stanza, una scrivania modesta e altre piccole scaffalature che fungevano da muri divisori. Le scaffalature contenevano migliaia di scatole di differenti dimensioni. A ognuna di loro era attaccata un’etichetta.

    Dopo avergli offerto l’unica sedia a disposizione, il direttore scrisse qualcosa sulla tastiera del computer, guardò il monitor e disse sottotono:

    «A1258 s24I. Mi scusi un attimo, torno subito».

    Si diresse alla grande scaffalatura di sinistra, contò coll’indice teso e si fermò dopo alcuni ripiani.

    «Ecco, è questa.»

    Prese una scatola di dimensione media e ritornò dall’uomo.

    «Sono desolato per quanto accaduto. Non ho voluto che gli effetti personali di suo figlio le venissero restituiti da altri, ho preferito farlo da me, in persona. Dentro la scatola c’è poco, ma è tutto quello che suo figlio possedeva: un paio di maglie, due jeans, un lettore mp3 e un quaderno completamente scritto. Credo che tenesse un diario.»

    L’uomo fissò la scatola e ritardò ad allungare le mani per prenderla, come se avesse paura di profanarla.

    «Vuole che gliela porti io sino all’uscita?»

    Lui fece un gesto con la mano.

    «No, no, la ringrazio. Non è il caso.»

    Si alzò con difficoltà, prese la scatola e si avviò all’uscita seguito dal direttore.

    Appena uscì dall’istituto di pena, fu investito dall’aria dal sapore autunnale. Una lacrima gli rigò il viso.

    Alcuni mesi dopo

    «Beh, anche per oggi è finita» annunciò Elisa con la gioiosità e la vivacità di sempre, e senza attendere il consenso degli altri, salutò e si precipitò verso l’uscita. «Devo scappare, ho un appuntamento.»

    «Come tutte le sere» sentenziò maligna Grazia.

    «Si vede che ho una vita intensa e non scialba come la tua» replicò la ragazza. «Io so vivere. Lascio volentieri a te le scartoffie e l’ambizione sfrenata» e uscì sbattendo la porta.

    «Ma dobbiamo assistere tutti i giorni a queste schermaglie, a questi futili e irritanti battibecchi?» intervenne Marisa mentre abbandonava la sua postazione, pronta anche lei ad andarsene. «Tu non vieni?» domandò a Grazia che non accennava ad alzarsi.

    «No, rimango. Voglio cercare di recuperare il tempo perduto.»

    «Come vuoi. Ciao, allora.»

    «Ciao. Passa una buona serata.»

    Roberto, invece, restò in piedi davanti alla scrivania di Grazia, nell’inutile attesa che lei lo degnasse di uno sguardo.

    «Ti faccio compagnia? Possiamo andare a mangiare qualcosa insieme e poi ritorniamo qui.»

    «Non è proprio il caso. E poi, con quale cuore lasceresti sola la tua cara mammina?»

    «Non ti dare pensiero. Mia madre si adatta a qualsiasi situazione. Mi fa piacere restare, credimi.»

    «Non lo metto in dubbio, ma ti sei chiesto se io condivido il tuo desiderio? È meglio che vai, altrimenti non finirò neanche a mezzanotte.»

    «Perché ti comporti cosi? Lo sai che io...»

    «Sì, sì, lo so. Adesso vattene, per favore.»

    «Beh, come vuoi... Ciao.»

    Grazia non rispose, non alzò nemmeno lo sguardo per vederlo uscire. Si fermò ancora due ore prima di accorgersi che stava sbadigliando per la sonnolenza e che il suo stomaco stava emettendo brontolii di protesta. Abbandonò le carte al loro destino notturno, si stropicciò gli occhi stanchi e si decise ad andarsene. Indossò il cappotto, aspettò che l’ascensore la portasse al pianterreno. Fuori incontrò Giuseppe, che la salutò con parole di ossequio. Mentre si dirigeva al parcheggio, si alzò il bavero e infilò le mani nella tasca del cappotto per proteggerle dall’aria gelida. Toccò qualcosa di estraneo che prima non c’era, lo tirò fuori. Fu sorpresa nel vedere la busta, non riusciva a spiegarsi come fosse finita nella sua tasca, non ricordava di avercela messa. Provò a leggere l’indirizzo, probabilmente si trattava di uno sbaglio, ma sulla busta non era indicato il destinatario, né il mittente. La aprì, conteneva tre fogli, li estrasse, era curiosa di scoprire di cosa si trattava. Provò a leggere, ma l’illuminazione era troppo fioca. Allora aprì la portiera della macchina, entrò, si sedette e, accesa la lucetta interna, vi avvicinò il più possibile i fogli e cominciò a leggere. Non riusciva a decifrare il senso delle parole. Sembravano il delirio di un pazzo. Che cazzo significa? si chiese sbigottita, e chi le aveva infilato la busta nella tasca del cappotto? Doveva trattarsi dello scherzo di qualcuno della redazione, anche perché, quel giorno, nessun visitatore esterno era salito al piano.

    Comunque, se di scherzo si trattava, non era divertente, anche perché quel guazzabuglio di parole esprimeva più che altro... rabbia?

    Appallottolò i fogli e decise di lasciarsi alle spalle la giornata. Quello che le serviva era un pasto caldo, un bicchiere di vino e una bella dormita.

    La campagna era avvolta da una fitta nebbia che faceva intravedere a malapena i contorni delle case e la striscia bianca al centro della carreggiata. Giulia procedeva a velocità moderata ma con sicurezza, da abile guidatrice qual era. I lampioni all’entrata del viale d’ingresso della sua villa le diedero un senso immediato di sollievo. Rallentò e percorse il breve tratto che la separava dal garage con prudenza, per evitare che le fiancate dell’ingombrante SUV strisciassero contro le siepi di bosso. Parcheggiò accanto all’auto di Francesco, spense il motore e rimase qualche istante così, immobile, con le mani ancora chiuse intorno al volante. L’energia e la tensione che avevano mosso le sue gambe e la sua mente per tutto il giorno sembravano di colpo essere scivolate via, lasciandola esausta. Finalmente si decise. Scese dalla macchina, azionò il comando di chiusura della saracinesca del garage e si diresse verso casa, facendo scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe.

    La casa era immersa nel buio. Accese le luci del salone, della cucina e dello studio, dove aleggiava un acre odore di sigaretta che offese le sue narici.

    Salì al primo piano. Era nella stanza da letto, seduto al buio di fronte alla finestra, una sigaretta tra le dita di una mano e un bicchiere nell’altra. Quando Giulia accese la luce, Francesco strinse gli occhi infastidito e la guardò senza muoversi.

    «Ciao.»

    «Che c’è? Ti senti male?» gli domandò, prendendo il bicchiere dalla sua mano e bevendo un sorso di whiskey. Fece una smorfia: «Come fai a bere questa porcheria?»

    Lui alzò le spalle, con gesto indifferente.

    «Perché non sei venuto alla casa editrice? Avevi degli appuntamenti e ho dovuto raccontare un sacco di balle per giustificare la tua assenza.»

    «Ci sei abituata, no?»

    «Che vuoi dire?»

    «Niente.»

    «Allora? Perché questa mattina non mi hai detto che non saresti venuto?»

    «Perché pensavo di venire. Poi, però, non ne ho più avuto voglia. Potrò ben prendermi una giornata di riposo! In fondo sono il padrone, là dentro.»

    Giulia tacque. Non aveva voglia di litigare e se avessero continuato su quella strada certo avrebbero discusso fino a dirsi parole cattive, fino a ferirsi. Così, decise di lasciare perdere. Gli si avvicinò e gli sfiorò la spalla con la mano. Era stato un bell’uomo, da giovane, alto, atletico, occhi nocciola dall’espressione intelligente, sorriso accattivante. Con gli anni si era un po’ appesantito e la brillantezza del suo spirito si era andata offuscando, tuttavia restava sempre un uomo piacente e piacevole.

    «Che ne dici se cenassimo da Curzio? Il tempo di fare una doccia e…»

    «Non ne ho voglia. Scusami ma preferisco rimanere qui, a bere e riflettere.»

    «Riflettere?»

    «Ho un sacco di cose in mente, devo fare un po’ d’ordine…»

    Era strano, pensò Giulia sulle spine, strano ed evasivo. «Ok, ti lascio ai tuoi pensieri. Io faccio la doccia e filo a letto.»

    «Pensavo che saresti tornata con Grazia» la bloccò lui mentre stava per andarsene.

    «È voluta restare in ufficio per finire dell’arretrato.»

    Francesco annuì, con aria pensierosa. Sembrava volesse dirle ancora qualcosa.

    «È una donna in gamba, Grazia.»

    «Sono d’accordo con te. È una collaboratrice preziosa. Riesce a distinguere immediatamente la perla dal tarocco. Ricordi due anni fa? Il sogno di Mina Solaro? Un romanzo che case editrici importanti avevano scartato. Ma Grazia ne capì il valore e convinse tutti che valeva la pena rischiare. Fu il caso editoriale dell’estate.»

    «Sì, ha fiuto. Peccato però che sia così eccessivamente ambiziosa, così sicura di sé. Le manca l’umiltà.»

    «Non è con l’umiltà che si va avanti negli affari.»

    «Può darsi, ma ti aiuta a vedere le cose sotto una luce più umana. Talvolta Grazia mi sembra un robot, efficiente ma anaffettivo.»

    «Ti sbagli, credimi. Comunque, che importanza ha? È brava nel suo lavoro e mi è divenuta indispensabile. Questo basta.»

    «La sua scalata, quindi, sta avendo pieno successo.»

    Giulia non riusciva a comprendere l’acrimonia di Francesco. Negli ultimi tempi, il suo atteggiamento nei confronti di Grazia si era inasprito e, a ben pensarci, già da un po’ quando capitava che rientravano insieme dal lavoro per un aperitivo o una cena, lui si rintanava nella sua stanza, adducendo le scuse più varie.

    «Hai paura di lei?»

    Francesco la fissò con gli occhi iniettati di sangue e un’espressione indecifrabile: «Dovrei?»

    Giulia gli sorrise e tentò di abbracciarlo, ma lui si irrigidì.

    «Non pensare che mi farò mettere da parte da un’arrivista con quarant’anni meno di me. La casa editrice porta il mio nome, non dimenticatevelo. E adesso vorrei stare solo, se non ti dispiace.» Giulia non insistette. Le dispiaceva immensamente che Francesco provasse quel senso di ingiustificata esclusione. Era vero che lei aveva portato una ventata di novità e di freschezza alla casa editrice ed era pur vero che spesso con Francesco battibeccavano perché le scelte di lui sui libri pubblicabili erano limitate a testi di filosofia, scienza e cultura, disdegnando con un certo snobismo generi letterari più popolari, ma Giulia non aveva smesso di interpellarlo quando doveva prendere decisioni importanti. Lo sfogo di lui, quindi, l’aveva stupita. Evidentemente la sicurezza di Grazia e la sua perspicacia negli affari, unite a quelle di lei, l’avevano messo in crisi. Si sentiva minacciato dal loro sodalizio professionale. Oppure, rifletté, ce l’aveva con lei, solo con lei e inventava pretesti per deviare l’attenzione da quello che era il reale motivo della sua ostilità.

    Lo buttò giù d’un fiato e ne ordinò un altro. Mentre il cameriere gli riempiva il bicchiere per la terza volta, gli occhi scuri di Stefano catturarono l’immagine che lo specchio dietro al banco rifletteva: peli ritti e irsuti ombreggiavano le guance e il mento, i capelli grigi si sperdevano in direzioni diverse, informi, privi d’identità, e il colore nerastro sotto gli occhi denunciava la prostrazione fisica e psichica delle notti insonni. Stentava a riconoscersi in quello sconosciuto dall’aspetto decadente che lo fissava con aria compassionevole. Gli riecheggiarono le parole di Marisa. Devi avere solo un po’ di pazienza; le cose si aggiusteranno, vedrai, e tutto tornerà come prima. Pazienza? Pazienza? Quanta pazienza deve avere un uomo prima di superare il limite di sopportazione? È facile parlare per chi ha un lavoro assicurato. Era da mesi ormai che andava in giro a mendicare un lavoro, uno qualsiasi, senza speranza. Aveva provato di tutto, da internet agli annunci sui giornali, al passaparola tra i conoscenti, al contatto diretto porta a porta, aveva ceduto persino alle lusinghe di un politico in carriera che non aveva mantenuto la promessa dopo l’elezione. A nessuno interessano le prestazioni di un vecchio. Se per un giovane brillante, plurilaureato col massimo dei voti e con una valigia di idee innovative nel cervello, l’accesso a un’occupazione rappresenta una fantasticheria strana, figurarsi per un uomo di cinquantasette anni che ha perso il lavoro e che non ha maturato ancora la pensione; è da rottamare, inutile a se stesso e agli altri. Alla fine di ogni giornata di ricerche, incapace di assorbire la sconfitta, si rintanava spesso in qualche locale dove servivano liquori a buon mercato per mantenere viva l’illusione di un’esistenza dignitosa.

    «Solo soletto, bello? Che ne dici di un po’ di compagnia?» Bella, procace, occhi penetranti, labbra rosso desiderio, tette da fare sprofondare all’inferno anche la castità di un santo, gambe nude sino all’inguine, sode, lunghe, sinuose e invitanti, biondo platino da eterna perdizione, la ragazza gli mise una mano sulla spalla e strofinò il corpo contro il suo, distogliendolo dai pensieri.

    Stefano non fu per nulla turbato dall’intraprendenza e dalla sensualità volgare della donna, la qualificò immediatamente come mercenaria del sesso. Non si girò, la vedeva già attraverso lo specchio. Senza scomporsi, le prese la mano e la scostò con fastidio dalla propria spalla.

    «Ti sembro tipo da compagnia? Fila! Non ho un soldo.»

    «Ehi, che maniere!» protestò lei. «Per chi mi prendi?»

    «Per quello che sei. Hai sentito che ha detto il signore?» L’uomo l’afferrò per il polso e la strattonò sino a farle male. «Levati di mezzo, troia!» e la spinse con forza.

    Nella precarietà dell’equilibrio, la ragazza si appoggiò a un tavolo vicino, si massaggiò il polso e poi gli mostrò il dito medio in un gesto inequivocabile. «Fottiti, stronzo!» e si allontanò alla ricerca di clienti più malleabili.

    Stefano scrutò l’uomo che era intervenuto senza che nessuno lo avesse richiesto: aveva l’occhio torvo, un viso smilzo, di colore olivastro, e appestava l’aria col suo sigaro puzzolente.

    «Non c’era motivo di trattarla così» disse, agitando la mano per disperdere il fumo che lo stava annebbiando.

    «È il trattamento che si meritano le puttane. Devono capire chi comanda.» Prese posto sullo sgabello accanto al suo. «Posso offrire?»

    «No, grazie.» Quel tipo non gli piaceva per niente e non aveva la minima intenzione di dargli corda. «Ci penso da me.»

    «Beh, amico, lasciatelo dire, non mi sembri messo bene in arnese. Io potrei aiutarti.»

    «Chi sei, Mecenate?»

    «Non conosco questo Mecenate, ma posso garantirti che risolveresti tutti i tuoi problemi.»

    «Grazie dell’offerta, ma preferisco trovarla da solo la soluzione ai miei problemi.»

    «Okay, come vuoi. Comunque, se dovessi ripensarci, tutte le sere a quest’ora mi troverai qui. E sono sicuro che verrai a cercarmi.» Non disse altro. Si alzò e, lasciando dietro di sé una nuvola di fumo, andò a risedersi a un tavolo in fondo dove l’aspettavano tre individui di dubbio aspetto.

    Sì, aspetta e spera pensò Stefano.

    Abbandonò il locale che erano già le dieci. Ancora una volta aveva fatto più tardi del solito, tradendo le aspettative di Marisa che si sforzava oltre misura di liberarlo dallo stato di degrado e di inerzia nel quale sprofondava sempre di più. Da quando era stato licenziato, come previsto nel vincolo matrimoniale la moglie provvedeva al suo mantenimento, ma lui non poteva più indulgere all’umiliazione di dipendere economicamente da una donna.

    Era seduta, assopita, con la testa racchiusa nelle braccia incrociate sulla tavola apparecchiata della cucina. I due piatti vuoti e la bottiglia di vino rosso ancora intatta erano la testimonianza di una cena non consumata; la pentola sulla macchina del gas esalava l’ultimo ricordo del profumo di una pietanza che in origine doveva essere una prelibatezza per il palato. Alla vista di quella scena, Stefano si sentì profondamente in colpa, e nello stesso tempo sentì rinascere un sentimento di tenerezza per la moglie, uno dei tanti sentimenti che ormai da troppo tempo aveva recluso nella gabbia dell’indolenza nei confronti della realtà esterna.

    Grazia arrivò ansante sul pianerottolo, si tolse il cappotto in fretta e furia e l’appese assieme agli altri sull’attaccapanni a fianco della porta, diede un ultimo frettoloso sguardo all’orologio: era maledettamente in ritardo. Quando entrò, si sentì addosso gli sguardi disorientati e stupiti dei colleghi.

    «Buongiorno» salutò sommessa, e si sedette cominciando immediatamente a sfogliare le carte sulla scrivania.

    Il primo ad aprire bocca fu Roberto.

    «Sei in ritardo.»

    «Lo so benissimo, non occorre che me lo fai notare.»

    «Oggi stiamo assistendo a un evento straordinario» rincarò Elisa sfoggiando un inequivocabile sorriso ironico. «Udite, udite, la signorina precisina è arrivata tardi al lavoro.»

    «C’è poco da sfottere. Può capitare a tutti, no?» replicò Grazia piccata.

    «Hai detto bene: può capitare a tutti e, come vedi, è capitato anche a te. Può darsi sia un labile segno della parvenza di umanità che ti ostini a nascondere benissimo.»

    «Mia cara ragazza e, ovviamente cara è un eufemismo, non devo certo giustificarmi con te delle mie azioni. Non hai le carte in regola per sentenziare, ricordati che qui sei l’ultima ruota del carro, una ruota provvisoria, fra l’altro, visto che hai un contratto a termine.»

    «Ah, meno male. Ero preoccupata che fossi cambiata, ora sì che ti riconosco. Almeno, d’ora in poi, mi auguro che avrai il buon gusto di astenerti dal commentare eventuali ritardi dei tuoi dipendenti, Miss non sbaglio mai

    Occhi piccoli e tondi, inespressivi, naso rincagnato sul cui dorso aveva fissa dimora un paio di occhiali da presbite con i vetri ingialliti, guance glabre, cranio lucido con residui di capelli dalla nuca al collo, corporatura piuttosto tozza rivestita di abiti fuori moda, tendente alla solitudine, Davide non poteva definirsi una persona socievole. Sbuffò per l’ennesima volta, mentre osservava infastidito l’indolenza di Valerio.

    «Ma insomma, ti vuoi spicciare? È da un’ora che stai cincischiando.»

    «Che fretta c’è? Chi va piano va sano e…»

    «… non arriva mai! La signora Minardi ha già telefonato chiedendo piuttosto incazzata come mai sopra non abbiano ancora ricevuto la posta.»

    «Stai tranquillo, rilassati, quella lì me la lavoro io.»

    «Come no? Se si trattasse di una delle tue squinzie lo capirei, ma quella è una vera signora e se ne sbatte delle tue lusinghe.»

    «Davide, te lo dico da amico. Ti sei mai accorto di essere un brontolone, un rompicoglioni e soprattutto una persona triste, molto triste?»

    «Sono quello che sono, impicciati degli affari tuoi.»

    «Secondo me, ti manca il calore di una donna o, per dirla esplicitamente, la fica.»

    «Ecco qua. Figuriamoci se non arrivava alla solita conclusione. Ma tu, hai solo quello nella testa?»

    «No, ti sbagli, mi giudichi male. Nella vita ho altri interessi. Il culo, per esempio, oppure le tette.»

    «Ma vaffanculo e smuovi le chiappe!»

    Valerio, come ogni mattina, fece il suo ingresso nell’ufficio con l’incedere impettito di un pavone che sventaglia la coda per attirare la femmina. Procedette alla distribuzione, soffermandosi più a lungo nelle postazioni delle donne, dopo avere consegnato frettolosamente due piccoli plichi a Roberto.

    Il portiere ormai lo faceva entrare senza nemmeno annunciarlo. Lo considerava uno di casa, vista la frequenza con la quale si presentava alla casa editrice. Lo trovava persino divertente e simpatico, sebbene talora lo spiazzasse col suo abbigliamento eccentrico e con l’agire da gentiluomo d’altri tempi. Educato, gentile, gli si rivolgeva sempre con dei modi così garbati che non poteva assolutamente dirgli di no, anche al di fuori degli orari di apertura al pubblico. E si presentava sempre con piccoli omaggi floreali destinati alla vanità delle signore. La Minardi l’aveva rimproverato più di una volta di essere troppo permissivo, rimarcando che gli orari sono uguali per tutti e che Vannelli non doveva costituire un’eccezione, ma lui non riusciva proprio, con tutta la buona volontà, a far valere la direttiva sul maestro. Anche quel pomeriggio lo lasciò passare senza accennare un minimo di resistenza o di autorità per impedirgli l’accesso.

    Vannelli non somigliava a nessuno degli aspiranti scrittori che erano soliti invadere la redazione. Erano tutti concordi che comunque si trattava di un tipo unico. Di mezza età, si definiva maestro elementare per dovere e scrittore per vocazione, anche se, purtroppo, soleva dire, il mondo arido in cui viviamo adesso si rifiutava di riconoscere la sensibilità, la poesia, il valore didattico e morale della sua opera e, sopra ogni cosa, la meticolosità e l’accuratezza dell’uso della lingua italiana, ormai divenuta merce da discarica, massacrata da un nugolo di ignoranti volti a soppiantare la bellezza della lingua letteraria con la mostruosità della lingua parlata.

    Nascondeva l’anarchia dei capelli brizzolati sotto la tesa larga di un cappello di stoffa pesante anche d’estate. Il viso pieno, innevato da una corta barba perennemente della stessa misura, quasi che non gli crescesse più di tanto, era appesantito da un paio di lenti spesse incastrate in una montatura di tartaruga color testa di moro. Piccolo, con le gambe corte, si ostinava a ostentare dei gilet variopinti la cui eccessiva aderenza al corpo evidenziava la pancia rilassata dell’età, costretta a fuoriuscire da pantaloni viola o gialli o rossi che poggiavano i risvolti sui mocassini scamosciati, il cui colore naturale era offuscato dall’ingiuria del tempo. Prediligeva le giacche di tinta accesa dai petti larghi, a quadri oppure a righe, alle quali abbinava dei papillon incomprensibilmente sobri. Non si poteva quindi dire che passasse inosservato.

    Benché lo giudicassero un pessimo scrittore, quelli della redazione l’accoglievano sempre con ampi sorrisi ruffiani di velato scherno.

    «Buonasera a tutti voi.» Il primo gesto che faceva appena entrato era quello di togliersi il cappello in segno di rispetto. «I miei occhi indegni si colmano di meraviglia davanti alla bellezza delle signore presenti.»

    Marisa fu la prima a dargli corda. La presenza di Vannelli era un toccasana per il suo umore.

    «Maestro…» Lo chiamavano così per la sua professione, ma lui equivocava credendo che il titolo fosse il riconoscimento del suo genio. «Che piacere rivederla.»

    «Signora Marisa, il piacere è tutto mio. Mi permetta di omaggiarla di questa rosa rossa che si intona con la sua esuberanza.»

    «Oh, Grazie. Lei è così gentile…»

    «Dovere, signora Marisa, dovere. E questa» si rivolse a Elisa la cui scrivania affiancava quella di Marisa «è una rosa rossa per lei, mia cara ragazza, un inno alla sua modernità, alla gioventù. Se la goda perché passa in fretta e il resto del tempo è solo un nostalgico rimpianto di essa. Come disse il poeta: Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia…»

    «Tranquillo, che me la godo come Dio comanda. La rassicuro, non mi faccio mancare nulla.»

    «Brava, ragazza mia, brava.»

    Solo Grazia non era così propensa come gli altri ad accettare gli interventi di Vannelli come un intermezzo piacevole. Li riteneva una perdita di tempo sottratto al lavoro, e in più aveva quasi esaurito il repertorio dei pretesti per mandarlo via contento e gabbato. Avrebbe potuto schiaffargli in faccia la triste verità, dirgli chiaramente che non era dotato per la scrittura, che le sue opere erano un’accozzaglia di noiosi concetti intellettualistici che perdevano di vista il senso della narrazione, che si reggevano esclusivamente sull’attenzione maniacale di stampo professorale per la lingua italiana, imparentate con i manuali di grammatica della scuola elementare. Ma non riusciva a spiegarsi perché lei, così razionale e diretta, si astenesse dal farlo. Pensava tutto questo mentre Vannelli le stava offrendo la rosa.

    «E quest’altra rosa rossa, la più altera, è lo specchio della sua serietà e del suo stile, signora Grazia.»

    «Lei mi confonde, maestro.»

    Roberto si intromise, spinto da una personale curiosità.

    «Signor Vannelli, lei regala alle mie colleghe delle rose perfettamente identiche fra di loro, ma le presenta come se fossero dei fiori particolari, con una personalità differente l’una dall’altra.»

    «Vede, amico mio, contrariamente a quello che pensiamo noi esseri umani, così cocciutamente irrigiditi nella stupidità della nostra arroganza, i fiori hanno un’anima, proprio come lei e me. Ognuna di queste rose ce l’ha. Basta sapervi leggere

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