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Lo Stoccafisso
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E-book220 pagine3 ore

Lo Stoccafisso

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Info su questo ebook

Con quale sconsideratezza il sedicente scrittore Corrado Confalonieri, diventato occasionalmente amico della celebre pittrice Maccì vedova di un suicida, ha potuto immaginare che, nella stesura del romanzo stilato sulle confidenze da lei rivelate, il suicidio del marito, che ha anticipato l'esito letale di un tumore, sia invece stato, come fu in realà, un omicidio perpetrato, lei connivente e collaboratrice, dal suo amante con modalità tale da essere stato ritenuto dall'apparato giudiziario effettivamente suicidio?
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2019
ISBN9788832561494
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    Anteprima del libro

    Lo Stoccafisso - Tony Biancospino

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Marinella si trovò omaggiata di un biglietto d’invito. Chi dovesse ringraziare non disse, né alcuno si mostrò animato da tale dose di indelicatezza dal chiederglielo. Essenziale fu giudicata la sostanza. La serata di inaugurazione della nuova stagione di attività di un rinomato locale da ballo. Durante la chiusura per il riposo estivo era stato rinnovato. Nell’arredamento e nella gestione. Alla nuova proprietà non era parsa azione disdicevole esordire con un tocco di raffinata signorilità. Che poteva apparire anche un gesto di squisita generosità. Sennonché è buona consuetudine non lasciarsi abbindolare dalle apparenze. Sarebbe per lo meno tacciabile di ingenuità il sottovalutare l’aspetto utilitaristico. O profittevole, se si preferisce. Non si chiamano iniziative promozionali manifestazioni di tale genere? Da che mondo è mondo per ricevere occorre dare. Può essere un equo baratto. Ma può anche essere uno scambio squilibrato. Un dare poco per ricevere tanto. Un qualcosa che associa il canto delle sirene allo specchietto per le allodole.

    Ospiti in un luogo gradevole per una piacevole serata senza l’onere di dover cavare di tasca della vile moneta. Ospiti riveriti, blanditi, messi su di un piedestallo. Ospiti oggi, avventori domani, posdomani ed oltre. Ospiti una volta, avventori tante volte. Un sacrificio in cambio di tanti benefici, economicamente parlando. Business is business cita un noto aforisma inglese. E il business può esigere che qualche volta si sia generosi.

    Fu insolitamente taciturna Marinella durante il tragitto. Taciturna ed immusonita. Già al prelievo davanti all’ingresso della sua abitazione avevo notato che qualcosa non girava nel verso giusto. Non mi aveva accolto con i consueti smagliante sorriso ed espansivo profluvio di affettati saluti. Né durante il viaggio la situazione si modificò. Sul sedile era come fosse stata sistemata una statua. Rigida ed impettita, lo sguardo perso fissamente verso un punto indefinito, i tentativi di instaurare un colloquio miseramente soffocati da laconiche schifate risposte che non andavano al di là di essenziali monosillabi. Sentivo nel mio intimo urgere il dispettoso desiderio di imprimere alla macchina qualche brusco scarrocciamento. Almeno avrei avuto la soddisfazione di veder muoversi la statua. Fossi stato su una strada extraurbana sufficientemente tortuosa! Invece stavo attraversando la città proprio nel periodo di tempo in cui chi ha deciso di passare la serata fuori casa si mette in viaggio. Il traffico risentiva di questa consuetudine distensiva. Si snodava lungo i viali con un torpido saltellare tra i tanti semafori distribuiti sul percorso. Ero costretto a lasciare macerare dentro la mia voglia di provocazione.

    Ma se l’azione mi era preclusa non la stessa situazione valeva per i pensieri. Che scorrazzavano liberamente disinibiti, affrancati da qualunque imposizione di controllo. Erano mia esclusiva segreta proprietà. A nessuno di essi permettevo di aprirsi un varco verso l’esterno. Anche se sentivo premere con sadica voluttà la tentazione di restituire pan per focaccia. Ma ad un essere civile, alla cui categoria ritengo di appartenere, non è consentito abbandonarsi a reazioni viscerali. Mai. Specialmente verso contrapposti con i quali l’intrattenere rapporti di cordiale benevolenza si giudica essere azione giovevole. La socialità impone sacrifici talvolta anche pesanti. O si butta tutto all’aria o ci si sottomette. A qualcuno riesce il primo intento. I più soggiacciono al conformismo. Io appartengo al novero di questi ultimi. Consciamente, seppure a malincuore.

    Una può scendere dal letto il mattino con il piede sbagliato. Può imbattersi durante la giornata in un gatto nero che le attraversa la strada. Può insomma sentirsi bersagliata da qualche iattura che le fa temere spiacevoli conseguenze. Nulla da eccepire. Ognuno è libero di provare le emozioni che maggiormente si conformano alla propria indole ed alla propria cultura. Ma, se così fosse, per favore si tenga per sé le sue fisime. Con quale proterva arroganza può permettersi di riversare sugli altri il suo malumore? Quale diritto ritiene di possedere? Se ha deciso di sentirsi iellata si comporti pure di conseguenza. Non pretenda però di tirare dentro anche gli altri, in questo frangente me, nei capricci delle sue fissazioni.

    Erano farneticazioni che sentivo aggirarsi nell’ambito dell’insulso. Le reazioni femminee, so, hanno la prerogativa di essere in genere imprevedibili. Ma, ne ero sicuro, questo aspetto non valeva per Marinella. Conoscevo troppo bene il suo carattere. Non mi era consentito dar credito alla considerazione del così fan tutte. Troppo autocontrollo, troppa padronanza delle proprie azioni avevo avuto modo di constatare in diverse occasioni. No! Le supposizioni fatte non trovavano consistente terreno di coltura. Era il deserto. E nel deserto non alligna vegetazione.

    Ignorarla dovevo. Convincermi che dopo tutto, qualunque fosse la causa del suo dissapore, era questione che non mi riguardava. Che gestisse lei la sua contrarietà. Questo dovevo. Questo volevo. Ma non riuscivo. Abituato alla sua effervescente esuberanza, alla sua logorroica prolissità nel relazionare sulle immancabili traversie di cui non perdeva occasione di sentirsi angustiata durante le sue giornate di donna sola, quel suo muto risentimento mi appariva incomprensibile. E mi irritava. Alla stregua di un dispetto.

    Non volevo dar peso alla cosa. Minimizzarla. Ridurla a stramberia di donna. Ma non era lei donna da concessione ai capricci viscerali. Almeno per quanto mi era dato di conoscere. Assolutamente. C’era sotto qualcosa di serio. Qualcosa di grave. E quella statua allogata sul sedile della mia macchina era testimone d’accusa.

    Che il risentimento di Marinella avesse riguardato la mia persona apparve ben presto aspetto di evidenza addirittura lapalissiana. La statua si trasformava in loquace conversatrice allorquando l’interlocutore era mia moglie. Appariva evidente che le avevo fatto qualche sgarbo. O che lei ritenesse che le avessi fatto qualche sgarbo. Inavvertitamente, sia chiaro. Ma dove e quando avevo sbagliato? Di quale mancanza potevo ritenermi colpevole? Quale offesa potevo averle arrecato? Quale azione o quale discorso poteva aver ferito la sua suscettibilità? Non avevo da confrontarmi con una tardona. Con un’oca giuliva. Bensì con una donna di elevata vivacità intellettuale. Capace di cogliere le sfumature, gli aspetti sottaciuti, le intenzioni appena abbozzate. Ferirla poteva risultare facile. Estremamente facile. Era pur vero che fino allora, durante il paio d’anni della durata della nostra amicizia, ciò non era mai successo. Nemmeno in quelle rarissime circostanze in cui lei sarebbe potuta andare a trovare un valido motivo per sentirsi in credito di mostrare un qualche risentimento. Ma, se in precedenza aveva sempre fatto sfoggio di tali doti di tolleranza e di comprensione da non lasciare adito a conseguenze, mi era forse consentito credere che tale idilliaca situazione si mantenesse all’infinito? Illusione, mera illusione! Il progredire della cordialità di un rapporto porta naturalmente ad una sempre maggior confidenza. Ovvia conseguenza è che su un versante gli atteggiamenti diventino più disinvolti e sull’altro le reazioni meno controllate. Qualcosa del genere doveva essere accaduto. Mi ero concesso qualche allusione un po’ provocatoria e lei si era sentita offesa. Ma quando? Passai mentalmente in rassegna quanto era intercorso negli ultimi tempi senza per altro trovare alcunché permettesse di giustificare tale astioso comportamento.

    La sera stava consegnandosi alla notte. Nel cielo il sottile velo di torpide leggere nuvole di umidità stava scolorandosi verso un grigio giallastro. L’illuminazione pubblica già riverberava giù dall’alto degli snelli pali di sostegno coni di pallida luce. Sulle lucide superfici metalliche e sui vetri delle automobili che scivolavano lungo il viale scorrevano mobili barbagli di riflessi luminosi.

    Che sia stato a causa di quell’aggiunta al romanzo, quella considerazione che mi era parsa appropriato compendio dell’analisi che avevo sviluppato alla fine del sesto capitolo?. Le avevo consegnato qualche giorno addietro la copia definitiva del romanzo che avevo tessuto prendendo spunto dalle vicissitudini della sua vita, vicissitudini sul cui succedersi si era in più occasioni abbandonata in lunghe descrizioni dove gli episodi coinvolgenti erano né pochi né di poco conto. Tale omaggio mi era sembrato atto doveroso, non tanto quale riconoscimento al suo merito di ispiratrice, quanto soprattutto perché ritenevo essere comportamento di squisita cortesia che lei, che aveva letto ed approvato le bozze preliminari, visionasse in anteprima l’opera finita. La quale differiva dal brogliaccio, salvo qualche ritocco marginale e qualche correzione, solo per quell’appendice al sesto capitolo. Quindi pensavo di essere arrivato al nocciolo della questione se l’incriminato è il romanzo, la causa non può essere attribuita che a quella pagina..

    Mi ero messo a rovistare nei meandri della memoria per richiamare il concetto che avevo voluto porre in evidenza in quell’appendice. Che cosa affermo? Quale constatazione ho voluto far emergere? Su che razza di situazione ho inteso indagare?. Alle rosse luminarie della vettura che mi precedeva si sovrappose nell’inconsistenza di una fluttuante evanescenza una labile pagina dattiloscritta. Una situazione indubbiamente strana, ma, in tutta obiettività, per nulla riprovevole, anzi… Di come l’eroina del romanzo, pittrice, si senta particolarmente attratta, non solo dalle opere, ma anche dalla persona di un famosissimo pittore rinascimentale, tanto da aver io immaginato, nel descrivere tale incantamento, l’esistenza di un innamoramento, di un amore platonico che, scavalcando i secoli intercorsi tra le due vite, la sua e quella del pittore, unisca in un’intima comunione di spirito e di emozioni due persone che materialmente non avrebbero avuto alcuna possibilità di incontrarsi. E di conseguenza di come mi fossi permesso di arguire che tale amore potesse essere la forma più alta e più nobile dell’amore in quanto non necessitante del supporto di un appagamento fisico, non svilito da alcun cedimento alla pulsione dei sensi, non contaminato da alcun spregevole compromesso con la materialità. Un amore puro, immacolato, idealizzato a tale grado di sublimità da aver declassato a ruolo marginale, soffocato dal suo fardello di carnalità, quell’altro amore, l’amore coniugale che l’aveva unita al marito.. Poteva ritenersi offensiva tale analisi? Con tutta l’obiettività di cui sentivo di disporre, non mi sembrava affatto. Sarebbe potuta essere accusata di stravaganza, di indulgente concessione ai melensi struggimenti nobilitati dal romanticismo, di eccessivo cedimento alla seduzione della fantasia, se si vuole, ma via!, offensiva proprio no. Anzi confesso di essermi sentito tanto emotivamente partecipe al sentimento della mia eroina – e già alla stesura – da aver osato attribuire a quel sentimento una tale carica di dignità e di nobiltà da indurmi a credere che potesse meritare la piena approvazione di chi si fosse sentita calata nei panni della protagonista. E da esserne orgogliosa.

    Appariva una conclusione logica e razionale. Ed invece la situazione che avevo di fronte la contraddiceva. Forse che quella sua vivacità intellettuale, che è uno degli aspetti più appariscenti del complesso di prerogative che va sotto il nome di intelligenza, sia solamente una patina superficiale ad uso relazionale? La bella maschera che dà attrattiva ad un viso insignificante? Il tarlo del dubbio circa le effettive qualità di Marinella non disdegnava di manifestare la sua presenza.

    Si era prossimi alla meta. Ai palazzoni ai lati della strada andavano sostituendosi villette, giardini, campi. La città stava esaurendo l’irruenza della sua espansione.

    Approdammo ad un piazzale inghiaiato che fronteggiava un basso edificio. Sul frontespizio spiccava un’insegna brillante di vivida luce azzurra scritta in lettere corsive. Lessi Antares. Era un noto dancing ubicato alla periferia settentrionale della città in attività a far data alquanto recente che non avevo ancora frequentato. Parcheggiata la macchina dove fu possibile, ci unimmo alle persone incamminate verso l’entrata e, attraversato lo spazio dove trovava collocazione la biglietteria, ovviamente fuori servizio, fummo all’interno.

    La prima impressione da cui venni colpito fu di un ambiente particolarmente vasto ed arioso. Intelligenti accorgimenti architettonici, prima che le effettive qualità spaziali del locale, adottati da chi aveva avuto l’incarico della progettazione dell’interno, non potevano essere ritenuti estranei al conseguimento di tale sensazione. Il soffitto, già di per sé a quota decisamente elevata, era mantenuto in penombra e pitturato di un opaco colore nero antracite, i due interventi cooperando in concomitanza a creare l’effetto di rendere indefinita la percezione della superficie limitante l’altezza. Il tocco più geniale la valentia del professionista aveva riservato alla parete di fondo, meglio ai due tratti di tale parete alla destra ed alla sinistra del palco: erano interamente rivestiti di lucide lastre di vetro a formare degli enormi specchi che, riflettendo quanto ad essi affacciato, conferivano alla vista degli avventori la sensazione di una profondità, e quindi di un’ampiezza, ben superiori alle effettive.

    Al centro, come prassi comanda, quadrata, pavimentata in lucido parquet, si stendeva la pista da ballo. Sopra di essa, a ridosso del lato opposto all’ingresso, incombeva, sopralzato di un paio di metri, il palco per gli orchestrali. Incassato a mo’ di nicchia nella parete di fondo, tutto l’interno rivestito con materiale dello stesso colore nero antracite del soffitto, non ancora illuminato, si offriva alla vista degli astanti con la sobria discrezione di un compito gentiluomo dei tempi passati. Solo la lunga successione di specchi alla base del rialzo che riflettevano i passi dei ballerini che nelle loro evoluzioni si fossero trovati a transitarvi appresso, scalfiva la sua compostezza con un tocco di leziosa civetteria.

    Tutt’attorno alla pista, dando forma ad una specie di U, si stendeva la zona adibita alla permanenza degli avventori. Era suddivisa, adeguatamente intervallata da corridoi di transito disposti perpendicolarmente ai lati di accesso alla pista, in tanti salottini aperti, contigui l’un l’altro. Ciascuno di essi era dotato di un giro di comode poltrone con tavolinetto al centro sul cui ripiano dava il benvenuto una graziosa piccola composizione floreale emergente da un simpatico vasetto in ceramica decorata.

    La discreta luminescenza rosata emessa da sorgenti luminose incastonate nelle pareti e nei rivestimenti delle colonne, che magistralmente si accordava con la gamma dei toni di rosa, dal tenue al marcato, delle pareti, del pavimento e dei vari componenti l’arredamento, permeava il locale di quell’atmosfera di cordiale accoglienza che da sempre è motivo di gratificazione dell’animo per chi è alla ricerca di occasioni di benessere. Non senza sottovalutare il contributo, indubbiamente di non trascurabile valenza, di cui si faceva carico l’efficace discreto impianto di climatizzazione che non prestava il destro a particolari critiche nei riguardi dell’idoneità a mantenere l’ambiente gradevolmente fresco e profumato.

    Basta poco talvolta, un briciolo di fantasia, un tocco di buon gusto, un’illuminazione adeguata, per trasformare un freddo ed anonimo interno di scatolone in un piacevole luogo di intrattenimento. Era quanto mi si spalancava davanti. La dimostrazione di come anche brutti anatroccoli possano trasformarsi in maestosi cigni. Proprio di questo si trattava: dell’aver reso attraente un manufatto che all’origine non possedeva alcunché di tale prerogativa. Andando all’essenziale riflettevo tra me e me nel porre l’attenzione su particolari che alla maggior parte della gente passano inosservati – qui balza fuori in tutta evidenza quella caratteristica comportamentale che viene comunemente denominata deformazione professionale – si tratta né più né meno di un volgare capannone, strutturato su tre campate: quella centrale, di luce maggiore, interessante la zona della pista e del palco e quelle laterali le zone di accoglienza degli avventori. Questo in particolare, considerate la snellezza delle colonne e la presenza di elementi di controventatura orizzontale, è un capannone in struttura metallica, di quelli che comunemente, seppure con minore diffusione rispetto ai prefabbricati in cemento armato, trovano vasto impiego nell’ambito dell’edilizia industriale. Non troverei alcunché di strano se scoprissi che la continuazione di questo fabbricato, al di là della parete a specchi, fosse adibita per ospitare un’officina oppure un supermercato. Pareti in muratura accortamente pitturate, controsoffittatura, pavimenti, rivestimenti, drappeggi, arredamento, luci e… quant’altro necessario hanno sortito l’effetto di ottenere il risultato che sto osservando.". Stavo dirottando sulle considerazioni relative alle qualità posticce? Alla bella maschera sul brutto viso per intenderci?

    Non diversamente di quanto avviene per una comune casa di abitazione. Quando la si vede allo stato grezzo, prima che siano eseguite le finiture, con in evidenza le imperfezioni dei mattoni e della malta legante, con gli sbreghi per l’incasso delle tubature e dei condotti dei servizi, con gli avvallamenti delle superfici di calpestio, i detriti, le cianfrusaglie varie che sono solite intasare un cantiere edile, difficilmente si immagina che basti uno strato di intonaco, qualche metro quadrato di piastrelle, un giro di bordatura di battiscopa, coprifili dove servono, per ottenere un prodotto di bella fattura e di soddisfacente aspetto. Quanto sovente il bel vestito occulta i difetti del corpo!. Sì. Indubbiamente la certezza sulle prerogative intellettuali di Marinella stava subendo un duro attacco.

    Ci accomodammo nel salottino a noi assegnato. Marinella aveva avuto la precauzione di prenotare la nostra presenza. Era da attendersi un elevato afflusso di invitati e il pericolo di non trovare posto era parso evento tutt’altro che infondato. Per maggior sicurezza inoltre avevamo anticipato il nostro arrivo di una buona mezz’ora rispetto all’orario di inizio dello spettacolo. Era la prima volta che ci capitava di accedere a quel locale ed ignoravamo di conseguenza quanto sarebbero state rispettate le prenotazioni. Una cautela in più, avevamo pensato, non faceva male.

    La sala era semideserta. La statua aveva solo cambiato luogo di permanenza, non l’atteggiamento. Avevo così la possibilità di

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