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Jukebox 2
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E-book391 pagine6 ore

Jukebox 2

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Info su questo ebook

  Tre racconti sulla presa di coscienza di sé e sul cambiamento della propria vita.
  In 24 ore daTulsa, il viaggio di ritorno a casa di un uomo che sta per sposarsi; sulla sua strada, l'incontro un po' surreale con una strana ragazza.
  Rock and Roll Lullaby, ambientato a Roma, è la storia di due ragazzi che crescono assieme si cercano senza trovarsi per lungo tempo. Una singolare ninnananna lega i loro destini.
  Con Heartbreak Hotel, infine, ci troviamo in piena New York, in una clinica che cura persone ricche e famose dal mal d'amore, gestita da un luminare della medicina in modo poco ortodosso. Nello staff, il figlio biologico del dottore e il suo figliastro. Con l'aiuto di una nuova, intrepida ospite, saranno loro a cambiare le regole del gioco.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2022
ISBN9788855392709
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    Anteprima del libro

    Jukebox 2 - Riccardo Moglioni

    24 HOURS FROM TULSA

    «Ciao amore, com’è andata oggi?»

    La telefonata di rito non lo colse affatto impreparato; quando faceva queste lunghe ed estenuanti trasferte lavorative, poiché durante il giorno non riusciva a prendersi neanche una pausa per un caffè e una degna seduta al bagno, la sera e la macchina erano gli unici alleati per concedere la giusta attenzione a Mary.

    «Mah, il solito. Un po’ di incontri, un tedioso pranzo e poi infinite, ripetitive chiacchiere.»

    Gene non era di cattivo umore ma era stanco. Aveva ormai raggiunto quello status di semi-coscienza tipico della decompressione emotiva. Per fortuna esiste una parte del meccanismo umano che ci assicura a una sorta di pilota automatico, un’entità benevola all’interno del nostro io che ci porta sani e salvi a destinazione, senza neanche aver capito bene come. Ed erano appena le sei e trenta del pomeriggio. Tutto fuori però era già buio da almeno un’ora. Poche luci illuminavano la strada, ottenendo solo un’aggravante nel senso di intorpidimento generale.

    «Immagino, non è che ci sia mai granché da divertirsi. Ma dove sei stato stavolta?»

    Gene apprezzò il tentativo di alimentare la conversazione. Aveva voglia di sentire la sua fidanzata ma non aveva la forza di pensare a qualcosa di acuto da dire.

    «Huntsville, in Texas.»

    Avrebbe potuto aggiungere diversi dettagli sull’esperienza. A cominciare dalla gigantesca statua di Sam Houston che si era trovato ad ammirare in attesa dell’appuntamento delle undici del mattino. Si era concesso un pizzico di turismo, indirizzato verso l’unica attrazione cittadina. Se non si considera il famigerato carcere, naturalmente. Si era inoltrato nel parchetto che cela la mega rappresentazione del defunto generale americano, deceduto proprio in quella ridente cittadina quasi un paio di secoli prima. Oltre venti metri di acciaio e calcestruzzo per un risultato impressionante.

    Avrebbe potuto persino rimarcare con sorpresa la qualità del ristorante in cui aveva pranzato; una bisteccheria a cui non avrebbe dato un centesimo di fiducia, giudicandola dall’esterno. Eppure si era rivelata buona nella sua semplicità, anche grazie a un servizio gioviale e cortese.

    Ma non disse niente di tutto ciò, rimase statico su quell’unica spoglia sentenza. Come se ciò che c’era nella sua testa fosse leggibile persino via telefono, a distanza di centinaia di chilometri.

    «Non ci sono mai stata. E gli appuntamenti, tutto bene?»

    Ecco, quella era una domanda di circostanza. Mary era consapevole che il lavoro procedeva bene ed era tutto ciò che le interessava. Pur non ammettendolo mai apertamente, era piuttosto chiaro che non avesse nessun coinvolgimento negli affari di Gene. A stento aveva capito di cosa si occupasse. Proporre prodotti innovativi sul mercato per un’azienda sempre ricca di idee. Questo era tutto. Ben coscio di ciò, Gene non ritenne necessario confessare il quasi totale buco nell’acqua appena fatto. A prescindere dalla responsabilità diretta, che peraltro non sentiva. Ma proporre cocktail già pronti in bustina in un posto che al massimo nel menù prevede birra dozzinale, beh, era di partenza una strategia un pizzico debole. Lui aveva fatto il massimo ed era convinto della qualità del prodotto. Ne aveva fatto assaggiare un campione all’uomo a cui aveva dato appuntamento. Gli aveva letto negli occhi un sano stupore nel testare la bontà di quel daiquiri. Eppure non aveva trovato un motivo utile ad investire.

    «Tutto bene, magari ne esce qualcosa.»

    Come detto, non ne sarebbe uscito niente e lui lo sapeva. Voleva solo evitare ulteriori frasi fatte per tirargli su il morale. L’insuccesso lavorativo, anche se parziale, veniva accolto sempre con eccessiva melodrammaticità. Come avesse fatto cilecca a letto.

    Ci fu un attimo di pausa e il suo sesto senso gli disse che stava per arrivare il solito argomento. Mary non aveva altro per la testa; come uno squalo gira intorno alla preda, lei attendeva il momento più opportuno per piazzarlo all’interno di una conversazione. E ne aveva ben donde.

    Si domandò perché per lui non era lo stesso. Forse avrebbe dovuto.

    «Ho ridotto la selezione dei centrotavola a quattro papabili. Vuoi che te li mandi su whatsapp e te li guardi con calma quando arrivi in hotel? Hai già trovato un posto dove dormire?»

    Ebbe un sussulto, una scimmia antipatica toccò le corde del suo fastidio. Scherzi usuali al cospetto della stanchezza, quella brutta bestia che ti fa odiare qualsiasi sforzo in più che ti allontani dal letto anche solo di un centimetro. Non gliene fregava un tubo dei centrotavola. E questo sarebbe valso in qualsiasi condizione psicofisica si fosse trovato. Ma lei si sarebbe offesa se avesse manifestato totale disinteresse, questo lo capiva e di nuovo lo trovava legittimo. Perciò avrebbe ricevuto quelle foto e avrebbe espresso il miglior parere di cui era capace.

    «Ma certo tesoro, manda appena puoi. Sai che non sono un asso in queste cose, ma ti dirò il mio parere da profano. E no, penso che troverò un posto lungo la strada. Appena mi sento un po’ stanco.»

    Vale a dire a brevissimo, già non ne poteva più di guidare. Assaporava le fresche lenzuola di un Super 8 o, ancora meglio, di un La Quinta. Si sarebbe fatto una doccia calda, un goccio di qualcosa, forse uno snack salato e una doctor Pepper. E poi a letto con la televisione accesa giusto per compagnia. Aveva poca fame e il pensiero di andare al ristorante da solo lo angosciava.

    «Va bene, allora appena attacchiamo te le mando. Ti scrivo anche qualche altro dettaglio. La composizione delle tavolate è delicata. E tu hai qualche amico che non va a genio ai miei. Mi dicevi che volevi far rimorchiare Michael, ma la vedo dura. So che mancano ancora due mesi ma sono così emozionata al pensiero.»

    Se solo avesse potuto travasare un po’ di quell’entusiasmo in lui, pensò Gene.

    «Vuol dire che Michael si accontenterà di farsi una bella mangiata. E magari di piangere durante la cerimonia.»

    Mary rise divertita, ne fu lieto. Non si immaginava quel troglodita in preda alla propria emotività. Ma in fin dei conti non lo conosceva così bene. Se era amico dell’uomo che amava e stava per sposare, qualche qualità l’aveva di sicuro. Si era ripetuta questa tiritera per anni senza andare a fondo alla questione.

    «Amore, attacco che ho la batteria quasi scarica. Fra più o meno ventiquattro ore sarò da te. Non vedo l’ora di essere a casa.»

    Aveva il settantadue percento di carica. Eppure aveva voglia di attaccare, di sentire musica scadente alla radio e pensare al vuoto cosmico. Non ai centrotavola o al suo amico infoiato. Concentrare lo sguardo sui lati della strada, per trovare l’offerta alberghiera migliore. O forse solo quella più vicina.

    «Va bene amore, riposati. Scrivimi prima di addormentarti se non ce la fai a richiamarmi. A Tulsa dovrebbe piovere domani. Buon viaggio.»

    E lui non aveva l’ombrello. Non l’aveva mai portato in vita sua.

    Si erano conosciuti dieci anni prima, ne era passato di tempo. E tutto ad un tratto a Gene parve fosse ieri. Non era stata una di quelle storie da romanzo, non si erano incontrati sui banchi delle elementari per poi promettersi amore eterno. Avevano avuto un percorso personale ben definito prima di incrociarsi. E poi, durante l’università, era scoppiato il sentimento. Quando entrambi avevano raggiunto caratteristiche che altrimenti non si sarebbero incontrate, se solo uno dei due fosse stato in un periodo diverso della propria crescita formativa.

    Lei, dopo aver passato infanzia e adolescenza nel pieno rispetto delle rigide regole morali e di condotta trasmessele dalla famiglia, si era ritrovata improvvisamente con la voglia di sperimentare e trasgredire. Non è inusuale, soprattutto quando di mezzo c’è la figura materna. Il padre di Mary, Frank, era un avvocato; non troppo importante ma comunque ben retribuito, parte integrante di circoli di un certo livello, tasse e bollette sempre pagate con abbondante anticipo. Un manierismo neanche troppo costruito, seguito come unica via mai conosciuta. Era un buon padre, per la figlia stravedeva senza eccessi di espansive dimostrazioni di affetto. Un amore forte eppure freddo. Forse a ghiacciare il cuore di quell’uomo ci aveva pensato sua moglie. Liz era il classico esempio di donna austera. Si attribuiscono certe caratteristiche alle zitelle di una certa età. Eppure un matrimonio, uno di quelli sbagliati, può ridurre una signora in uno stato quasi inumano. Non c’è mai cattiveria in certi atteggiamenti, la convinzione più intima rimane sempre quella di pensare al bene della prole. Di una figlia che era messa in costante pericolo da una società simbolo ultimo del cattivo esempio, della dissolutezza. Chi meglio di lei avrebbe potuto guidare, in modo rigido ma equo, una povera anima perduta. Non importava farsi odiare, ciò che contava era seguire la retta via. Ma chi è infelice può generare solo sentimenti dello stesso tenore. E sin dai primi cicli mestruali Mary aveva iniziato la personale faida con la parte materna della famiglia. Arrivò persino a incolparla di averle dato il nome femminile più cristiano che esistesse pur di inibirla al massimo. Neanche la distanza aveva placato i tumulti. E anzi, alla prima occasione buona, Mary si era trasformata nella ribelle che sua madre avrebbe tanto stigmatizzato. Non che glielo sbattesse in faccia. Le trasgressioni che in quegli anni universitari si era concessa erano rimaste sempre ben celate fra i suoi più profondi segreti. Era però sufficiente il look con cui si presentava a casa a Natale o alla festa del Ringraziamento. Capelli fucsia, magliette stracciate di band punk che, pur facendo fatica ad ammetterlo, neanche le piacevano poi così tanto. Erano quelli gli schiaffi che dava a sua madre, punizione più severa a vendetta di quella durezza che aveva allontanato la dolcezza della sua infanzia. Era sufficiente quello per litigare e mandare di traverso a tutti gli estenuanti pranzi festivi.

    Ecco, se Gene non avesse incontrato quella Mary probabilmente non si sarebbero mai frequentati. Sarebbe bastato qualche anno dopo, quando lei era tornata a uno stile molto più casual e conformista. Quando, invece dei Clash, avrebbe indossato una t-shirt delle Spice Girls giusto in memoria autoironica del primo concerto a cui aveva presenziato da fanciulla. Basta marijuana, basta notti di sesso occasionale. Che poi, a dire il vero, non ce n’erano state chissà quante. Aveva iniziato di gran carriera e in un mese era andata con tre tipi diversi senza poi neppure scambiarsi contatti telefonici. Le era bastato poco per capire che non facesse per lei. Era insomma un fuoco di paglia, ma baluginò a sufficienza da illuminare l’attrazione di Gene. Lui che nel corso degli anni aveva affrontato la vita come un passeggero disattento. Senza pretendere niente in particolare, dimenticando di concedere la giusta attenzione alle questioni che condiscono l’esistenza. Nella quasi totale assenza di idee si era incastonata Mary. Quello che sembrava un uragano pronto a scuotere le fondamenta di una vita fino a quel momento sciapa.

    Gene aveva attraversato un percorso di formazione assai comune. Genitori ben educati, non troppo abbienti. Entrambi così sereni e confidenti da accordargli tutto lo spazio e la fiducia necessari a darsi la forma che più ritenesse a lui consona. Non avendogli mai dato preoccupazioni o problemi, era una concessione affatto gravosa. E lui aveva studiato, senza eccellere, portando sempre a casa ciò che gli altri si aspettavano. Mister affidabilità.

    Aveva avuto la prima ragazza alle scuole medie, senza però neanche arrivare a toccare le sue labbra, solo andando teneramente in giro mano nella mano fino al camioncino del gelataio. Per un paio di giorni, al termine dei quali la fidanzatina lo fece avvertire da una sua amica che era passata al biondino dell’altra sezione della sua scuola. E Gene fece spallucce; si chiese per un secondo se avesse sbagliato qualcosa, senza trovare una risposta esaustiva dentro di sé. Forse iniziando a covare il sospetto che fosse irrimediabilmente noioso. Avere tale coscienza gli avrebbe giovato. Non era ancora tempo. Poi al liceo si mise con una compagna di corso. Non una grande idea, più che renderlo felice lo turbò. I sentimenti sono uno tsunami, non si riescono a legare o inquadrare. Se si ambisce al piattume non fanno bene, si rischia di rimanere scottati. E successe, come recita il copione del buon pessimista, ed è una storia che neanche vale la pena di essere raccontata. Quella volta però la certezza di essere troppo passivo l’ebbe. Ma i buoni propositi svanirono presto, tornato nella sua splendida posizione di comfort. D’altronde se non l’avevano accettato per ciò che era, forse dipendeva dal fatto che ancora non aveva incontrato la ragazza giusta. E un fondo di verità c’era eccome in quella convinzione. Si cantava così bene quella ninnananna da addormentarcisi sereno.

    Poi arrivò Mary, come detto. Dopo qualche altro incontro fugace, qualche altra scopatina, giusto per non sentirsi totalmente inadeguato in quel campo.

    Quella ragazza era scatenata. L’aveva convinto a ubriacarsi per la prima volta, a fumare erba per la prima volta, si era addirittura fatto mettere un indice nel sedere durante un rapporto sessuale una volta. La vita aveva preso forma e colore. La musica suonava uno spartito diverso, il cibo era condito da salse che non aveva mai assaggiato prima. Era pieno di voglia di fare, esplorava le tante possibilità senza avere più quegli ingombranti paraocchi portati per venticinque anni.

    Aveva incontrato quella giusta, non aveva dubbi. L’amore non era più il fuoco doloroso con cui si era scottato tempo addietro. Era una comoda zattera su cui navigava a velocità di crociera. Mai un’alta marea, un iceberg o del vento avverso. Aveva trovato la dimensione che ricercava.

    Mai avrebbe potuto cancellare dalla sua memoria il loro primo incontro. Usciva da un esame tosto, sociologia della comunicazione e dell’informazione. Aveva preso un buon voto ma invece di sentirsi soddisfatto era come se lo avessero svuotato dei principali organi interni. E fu sulle scale che portavano al secondo piano della facoltà che la vide. Sigaretta in mano, non accesa, una borsa di tela e un gruppo di persone ad ascoltare la sua brillante parlantina, come fossero suoi discepoli. Ma quei capelli strani, belli e colorati l’avevano fatto invaghire sin da subito. Avrebbe dato qualsiasi cosa per toccarli. Caso volle che pochi istanti dopo stessero già parlando. Perché, per una delle rare volte fino a quel momento, aveva puntato dritto un obiettivo. Scoprì dopo aver rotto il ghiaccio con una semplice richiesta di informazioni che Mary non era iscritta a scienze della comunicazione bensì a lettere moderne. Si scambiarono alcuni pareri sui corsi che stavano seguendo, notando quanto lontano fossero dall’avere qualcosa in comune. Eppure a entrambi risultò spontaneo uscire insieme. Tutto liscio come l’olio, tutto schematico.

    Il primo appuntamento fu una pizza con gelato alla fine. Pagò lui da vero gentiluomo e, senza troppe manfrine, finirono a letto. Fu dolce e controllato, la mattina dopo sembrava già che stessero insieme da tempo, che si conoscessero da anni.

    Pochi mesi dopo aveva conosciuto la famiglia di lei ed era piaciuto moltissimo ad entrambi. Il padre lo vedeva come un suo simile, nell’educazione e nell’inquadramento assoluto che ostentava naturalmente. La madre, che in altre circostanze avrebbe mosso numerose obiezioni, vedeva in lui la luce alla fine del tunnel. Se la sua scapestrata figlia si era innamorata di uno così aveva messo la testa a posto e il peggio era finito. Non poteva, per quanto malfidata, sospettare che fosse una messa in scena. Nessuno avrebbe saputo fingere così bene. Si tranquillizzò quando capì che era tutto vero e spontaneo.

    Perciò si stabilizzarono. Finirono l’università, laureandosi entrambi, e andarono a convivere. Nessuno dei due aveva fretta di sposarsi. Per lui sarebbe stato prematuro, sempre bene andarci coi piedi di piombo. Lei sentiva ancora qualche prurito ogni tanto, puramente ipotetico. Quella sensazione di chi aveva assaggiato frutti proibiti, o presunti tali, e non voleva chiudere per sempre la porta che dava verso quel giardino.

    Ma sin da subito Mary, come detto, era cambiata rispetto a quell’anima pazzerella che Gene aveva conosciuto. Eppure nulla era mutato, forse anzi era migliorato. La novità piccante aveva lanciato l’esca giusta ma, alla lunga, avrebbe stancato il pesce. D’accordo, gli esperimenti avevano colto nel segno, ma non c’era niente di meglio di una controllata serenità.

    Qualche volta Gene si era domandato, alla fine della giostra, di quali qualità fosse innamorato. Una mente un filo più analitica avrebbe impiegato poco a scovare l’incoerente contrasto fra inizio e prosieguo. I rapporti di coppia spesso però si giocano sull’abitudine, l’amore per la routine. E non c’era niente di meglio che svegliarsi nello stesso letto, con una persona che si sarebbe immancabilmente comportata nella maniera attesa. Si litigava poco, ci si divertiva ogni tanto, ognuno aveva i suoi spazi.

    Sposarsi, ad un certo punto, era diventata la diretta conseguenza di questo.

    Gene si destò quasi paralizzato dopo aver rivangato qualche stralcio del suo passato. Non riusciva a togliere dalla mente il momento preciso in cui aveva capito che avrebbe fatto sul serio con Mary. Proprio la mattina dopo aver fatto per la prima volta l’amore con lei, a seguito del loro primo appuntamento. Non avendo grande esperienza e controllo della propria emotività, anche l’idea di chiedere un numero telefonico l’avrebbe spaventato. Quando lasciò la stanza di Mary, all’interno di quell’elegante e canonico studentato, con grande naturalezza decisero di sentirsi il pomeriggio stesso. E magari rivedersi la sera. Quello era ciò che desiderava e la tranquillità con cui l’aveva ottenuto l’aveva inserito in un mondo fatto solo di piacevoli certezze.

    La radio mandava pubblicità senza soluzione di continuità, quasi si fosse scordata di mettere in onda un qualsiasi programma, che fosse un talk show o una rubrica musicale. Erano le otto passate, la sera era ormai quasi notte e il buio sempre più deciso, nonostante le numerose insegne luminose lungo la strada. Ricordava di aver superato Amarillo ma non avrebbe saputo dire da quanto. Occorreva fermarsi; pensò di cercare su internet la prima catena affidabile di motel ma poi, come guidato da una misteriosa forza, fu attratto da una luce suadente proprio in concomitanza dell’uscita più vicina. Una luce fioca eppure calda, amorevole. Un richiamo fortissimo che aveva pizzicato le corde sensibili della sua stanchezza. Con dei riflessi persino innaturali nelle condizioni psico-fisiche in cui era, mise la freccia e uscì dall’interstatale. Il cartello segnalava camere libere a partire da 50 dollari. Un buon prezzo, anche troppo, ma non lo sfiorò mai il dubbio che la qualità della struttura potesse essere scarsa. Aveva rinunciato con estrema scioltezza all’idea di affidarsi alle grandi catene cui era fidelizzato in modo viscerale e di cui era persino membro. Non era da lui eppure non si accorse di quell’anomalia. La prima di molte che l’avrebbero atteso in quella strana serata in cui il cielo era fermo immobile come in una vecchia fotografia. La luna era uno spicchio appena visibile nella foschia, il freddo vivace ma sopportabile.

    Decise di parcheggiare proprio davanti alla reception; prese le chiavi della macchina, il trolley e si avviò verso l’ingresso. Si mise la giacca sulle spalle, senza indossarla, si tastò le tasche dei pantaloni per controllare che tutto fosse in ordine. Non aveva dimenticato nulla. Mentre passeggiava a ritmo blando per coprire quei dieci metri scarsi che lo separavano dalla porta, si accorse che proprio accanto al motel c’era un diner. Sembrava chiuso, le finestre non emettevano luci, ma il cartello diceva ‘aperto’. Non si era accorto di avere fame, ma la pulsione lo colse in quel momento, al sol figurarsi una bella porzione di nachos nel piatto. Tutto d’un botto recuperò forze che pensava di non avere e si ripromise, dopo aver fatto il check-in, di concedersi una buona cena.

    Entrò e la receptionist, una ragazza sui venticinque che aveva dimenticato di prestare attenzione alla linea già qualche chilo di troppo prima, lo scrutò con un misto di sospetto e noia. Non una grande accoglienza nello scambio di sguardi. Si riprese però quando si appropinquò e fu addirittura premiato con un sorriso.

    «Buonasera signore, ha una prenotazione?»

    Gene si guardò intorno, sembrava tutto deserto e dubitò senza malizia della competenza della fanciulla. Quanti check-in avrebbe potuto aspettare, a quell’ora, in quel posto? Lesse il nome sul cartellino, Debbie.

    «Buonasera Debbie, in verità no. C’è una bella camera disponibile?»

    Era un venditore dopotutto, sapeva bene che stabilire il primo contatto con una persona è il momento che fa quasi sempre la differenza, rendere la conversazione subito più personale può guidare verso una serie di benefici incalcolabili. Dall’assegnazione di una camera migliore a dei buoni e onesti consigli sui ristoranti di zona. Debbie sorrise ancor di più, più convinta. Dopotutto aveva di fronte un bell’uomo e suo compito principale era far sentire a casa gli ospiti, si decise a trattarlo ancor meglio di quanto aveva messo in conto. Il motel era vuoto. A parte una coppia di anziani già in camera da un paio d’ore, quel signore era il secondo cliente. Gli avrebbe dato la stanza più grande, quella col televisore lcd e la vasca che non dava problemi nella regolazione dell’acqua calda.

    «Certo signore, le darò la migliore in assoluto per lo stesso prezzo che vede pubblicizzato fuori. Mi può fornire un documento, per favore? Paga con carta o contanti? Sono cinquanta dollari più le tasse.»

    Visto l’ammontare non esorbitante della spesa, tirò fuori una banconota da cinquanta e una da cinque. Poi compilò la notifica riguardante la sua auto, targa, modello e colore. Debbie gli spiegò dov’era la camera, al secondo piano in fondo al corridoio, e come si accedeva alla linea wi-fi. Infine puntualizzò che la colazione, inclusa nel prezzo, sarebbe stata servita dalle sette e trenta alle 9 e trenta del mattino.

    «Grazie mille, Debbie. Mi sai anche dire se il diner qui accanto è buono?»

    «Oh, è il migliore di zona, signore.»

    E, ancora una volta, lo disse con tale entusiasmo da rendere impossibile non crederle.

    Al primo colpo la chiave elettronica azionò il verde sul semaforino di accesso alla camera, quasi una primizia nelle sue esperienze alberghiere. Di solito toppava almeno un paio di volte i tentativi. Di nuovo ebbe la sensazione che quella serata fosse permeata da uno strano fluido, qualcosa che gli metteva addosso positività e voglia di fare. Aveva dimenticato la stanchezza, tanto che il pensiero di concedersi una doccia non fu più interpretato come la fossa in cui si sarebbe scavata la tomba l’idea di andare successivamente a cenare. Che gran fame che aveva.

    C’erano due letti king size, alti e dai materassi spessi e comodi. Notò con un sorriso divertito la posizione della televisione, incastonata in un armadio che rendeva complicata la visione da uno dei due letti. Facile dunque scegliere su quale dei due riposare. Adorava essere messo al cospetto di un’agevole decisione. Poggiando l’involucro di cartone dov’era incastonata precedentemente la chiave elettronica, per la prima volta lesse il nome del motel: Tirreno. Che strano nome, suonava come una parola italiana e probabilmente lo era.

    Si tolse la camicia bianca da dentro i pantaloni, notò un lieve alone giallo intorno al collo. La facilità con cui si sporcano le camicie l’aveva convinto a ritenerle indumento buono solo in determinate circostanze. Poi in una giornata in cui la sudorazione era stata pressoché nulla, nonostante l’incontro di lavoro, non era davvero spiegabile come fosse potuto accadere. Infilò il panno sporco in una busta di plastica che portava sempre con sé in viaggio, proprio con quello scopo specifico. Rimestò un po’ nel bagaglio a mano e cacciò fuori un maglioncino blu un filo attillato. Non proprio il suo genere, infatti era stato un regalo da parte della sua fidanzata. Lo aveva messo la prima volta per farle piacere, salvo poi accorgersi che tanto male non calzava. Aveva finito per affezionarsi. Poi poggiò accanto la biancheria pulita, mutande bianche e calzini blu. Aveva smesso da un po’ di preoccuparsi di quanto fosse sexy il suo intimo, se mai se n’era curato. Poi si diresse in bagno, tirando un sospiro di sollievo perché oltre alla vasca c’era anche una bella cipolla per farsi una doccia veloce. Scarseggiavano sapone e shampoo, se li sarebbe fatti bastare. Ragionò sulla poca praticità dei campioni omaggio del servizio cortesie presenti nella gran parte degli alberghi che frequentava. Quanto sarebbe stato più utile un dispenser, sia in relazioni ai costi interni che per il cliente. Molti sprechi in meno.

    Solo una volta infilatosi nella doccia e regolato l’acqua calda, si accorse di aver lasciato la biancheria sul letto. Poco male, era da solo. Si sarebbe asciugato con calma e poi si sarebbe rivestito in camera. Il bagno era piccolino ma funzionale, c’era anche l’asciugacapelli. Per lui ancor più utile per asciugare la peluria nella zona pubica. Un’area mai semplice da trattare con un comune asciugamano da motel.

    Una volta finito di lavarsi i capelli, notò di aver impiegato meno del solito. Amava concedersi lunghe sedute sotto l’acqua, specialmente dopo intense giornate lavorative. Era un modo per rilassarsi, un piccolo angolo dove dimenticare le leggi naturali della realtà. Dove la temperatura era perfetta e i fastidi esterni estromessi. Rinunciare a quel tepore e alla soave sensazione che ne derivava era sempre stata una violenza difficile a cui sottoporsi. Quella sera però aveva fretta, voglia di fare, fame. Non una fregola ansiogena, tutt’altro. Veleggiava sulla scia di un entusiasmo all’apparenza ingiustificato.

    Si guardò allo specchio e si trovò più attraente del solito. Non c’erano borse sotto gli occhi, le sue pupille erano liquide e guizzavano. I capelli erano della lunghezza giusta, la barba leggermente incolta sembrava fosse stata appena trattata da un barbiere specializzato. Si volle bene e apprezzò la fortuna di essere in vita.

    Si asciugò per bene e si vestì.

    Prima di uscire dalla camera prese in mano il telefono. Nessuna chiamata, nessuna notifica. Impostò un messaggio per Mary, poi decise di chiamarla.

    Lei rispose con un filo sorpresa e la bocca impastata dal sonno.

    «Amore, sei arrivato?»

    «Sì, ho messo piede in camera proprio adesso. Mi sono fatto una doccia e adesso mi metto a dormire.»

    Non si spiegò il motivo di quella menzogna. Manifestare il proprio appetito e annunciare il proposito di una cena non l’avrebbe di certo messo in cattiva luce. Poi lui non mentiva quasi mai.

    «Bravissimo. Il posto è bello?»

    Sentiva nella voce di lei un lieve sforzo nel mostrarsi partecipe alla conversazione, domande banali e automatiche senza costrutto. In altre circostanze si sarebbe forse infastidito, in quell’occasione apprezzò persino l’impegno.

    «Nella media, aspetto di assaggiare domani la colazione. Ma stavi dormendo?»

    La televisione era in sottofondo, qualche risata pre-registrata sottolineava una battuta di una sitcom qualsiasi. Mary non amava quel tipo di programma, sicuramente si era appisolata e lui l’aveva svegliata.

    «No, non ti preoccupare. Stavo facendo un po’ di zapping ma credo che andrò a letto a leggere.»

    «Bene, allora ti auguro buonanotte. E ci sentiamo domani.»

    Proprio ciò che desiderava, una conversazione breve e amorevole.

    «Senti, prima che attacchi. Mia madre vorrebbe l’orata fra le portate del pranzo. So che non accontentarla sarebbe un problema. Tu che ne pensi?»

    Quella richiesta, fatta in quel momento e in quella modalità, gli fece accartocciare lo stomaco. Una parte era fastidio, non gli importava nulla dell’orata, del pranzo di nozze e della preparazione di quel carrozzone. Non si spiegava perché venisse tirato in ballo, la sua voce non sarebbe comunque stata determinante. L’altra parte era il senso di colpa, perché non gli fregava di nulla. Era una sensazione comune? Ma il matrimonio non dovrebbe essere una festa? Queste domande ancora non avevano trovato una risposta soddisfacente. Forse esprimere apertamente dei giudizi l’avrebbe portato a una conclusione poco piacevole e dura da accogliere.

    «A me va bene l’orata, nessun problema.»

    «Grazie amore, buonanotte. Riposati.»

    «Ci provo. Buonanotte.»

    Ci mise davvero poco a cacciare lontano quelle compagnie emotive sgradevoli. Attaccò e aveva già la giacca in mano.

    Ma perché non avesse detto niente riguardo la cena alla sua fidanzata, quello non l’aveva capito. Senza neanche accorgersene, lasciò il cellulare sul letto. Altra mossa così lontana dal suo modo di essere da far spavento. Quando mangiava da solo non scollava un secondo gli occhi da quel piccolo monitor, in cerca di notizie, a guardare Facebook e gli strani status dei suoi contatti. Prendendone le distanze, spesso con fastidio.

    Così si sarebbe dovuto concentrare sulla sua solitudine. Forse un pensiero che l’avrebbe turbato se messo a fuoco.

    Ma era troppo entusiasta, davvero.

    Tanto che buttò la giacca sul letto. Avrebbe dovuto fare due passi all’aperto, fra albergo e ristorante. Non si sarebbe preso di certo un malanno per quello. Preferiva avere le mani libere. Infilò la chiave nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni, il portafogli c’era. In marcia.

    Uscendo si accorse che si sarebbe concesso volentieri anche una birra. Di solito evitava l’alcol quand’era in viaggio, la stanchezza accumulata veniva considerata un potente inebriante di suo. Ma l’euforia di quella sera doveva essere assecondata.

    Passò di nuovo davanti a Debbie, le lanciò un cenno di saluto. Valutò che avrebbe staccato alle undici, era sicuro sarebbe tornato prima di quell’ora. Giusto un piatto caldo, una spremuta di luppolo fredda e qualche canzone al jukebox. In qualche modo, era sicuro l’avessero. Un posto del genere ne ha sempre uno.

    Appena en plein air, si pentii per un istante di essere stato così audace. La temperatura era piuttosto fresca.

    In un secondo si dimenticò tutto, quando la vide.

    Era a una distanza misera, considerando quanto è grande l’universo, una cinquantina di passi o poco più. Si abbracciava da sola in un caldo dolcevita d’angora color rosa sfumato. Non dava l’idea di intorpidimento, piuttosto di elegante comodità. Aveva i capelli lisci, castano chiari, raccolti in una piccola coda di cavallo. Dei ciuffi sbarazzini le incorniciavano entrambe le orecchie. Portava dei jeans attillati e delle scarpe da ginnastica. Era di una bellezza folle. Eppure nessuno di questi elementi attirò l’interesse di Gene: fu quello strano baluginio all’altezza della mano destra. Era senza dubbio qualcosa che impugnava. Per un attimo pensò che fosse una sigaretta e questo lo repulse. Lo scintillio era meno vivo però, non c’era fumo e si accendeva solo in una certa prospettiva di luce. Poteva essere una spilla oppure un medaglione, della dimensione di una moneta da un dollaro. Lo ripose in tasca e solo allora gli si fermò per un attimo il cuore. Sono quelle sensazioni incontrollabili, irrazionali, nessuno di noi ha il potere di impedirle. D’un tratto sentì il suo profumo, come fosse davvero possibile, come se una ventata di brezza gliel’avesse fatto giungere alle narici. Improbabile. Sapeva di frangipani e di mare. Sperò che i loro occhi si incrociassero ma non era ancora stato notato. A quel punto si sbloccò e riprese nel proprio incedere. Sicuro e spavaldo, sensazioni così estranee che si dette un piccolo pizzico sulla mano per capire se la sua non fosse una visione onirica. Tutto troppo anomalo

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