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E-book509 pagine7 ore

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“Non è sedendosi su un trono che si diventa regine davvero”

Scozia, XIV secolo, il Re Alessandro III sta per morire, il regno rischia di passare nelle mani degli inglesi. La scomparsa prematura di una regina erede al trono, proprio durante il viaggio per l’incoronazione, sembra decretare la fine dell’indipendenza scozzese.
Henya, una donna che ha perduto la memoria per cause ancora sconosciute, giunge improvvisamente a rompere l’apparente quiete di un villaggio ai confini fra Scozia e Inghilterra. 
Sir Seton, un solitario ex comandante delle truppe scozzesi, viene incaricato di scortare la sconosciuta in un viaggio fino alle isole del Nord. 
Lei vuole ritrovare la memoria ma anche il padre della creatura che porta in grembo. Lui vuole perdere la memoria, soprattutto i ricordi dell’ultima battaglia maledetta, quella durante la quale ha perduto sul campo i suoi due figli.
Il viaggio permetterà di scoprire gli intrighi di potere esistenti tra regnanti, aspiranti al trono e vertici del Vaticano, riportando alla luce una bolla papale redatta nel 1304 e tenuta opportunamente nascosta ai più.
Fra le pagine che scorrono c’è anche un diario, ed è il figlio che Sir Seton presume morto a redigerlo, narrando di un incontro improbabile durante una pericolosa spedizione verso un luogo che nemmeno chi lo visita è disposto a credere davvero esistente.
Il viaggio di Henya e Sir Seton parte segnato da contrasti e dubbi sulla reale identità della donna ma acquista un senso solo dopo l’incontro con il Raccoglitore di erbe, un druido che inizia entrambi alla loro vera missione personale. La sfera sentimentale non può essere, a questo punto, lasciata fuori dal gioco.  
Si incontreranno giganti biblici esadattili, creduti immaginari, un gruppo di esseri che pur avendo poco di umano sembrano porsi alle origini dell’umanità e intenzionati a riconquistarla.
Le personalità e il passato di ogni singolo personaggio si sveleranno con il procedere parallelo della storia e del diario. 
Solo la forza e lo spirito di ognuno, uniti a un’apparente casualità di eventi, porteranno a una scoperta determinante per la storia della Scozia e della sua indipendenza.

Copertina: Francesca Nobile - nobiledesign.it
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2019
ISBN9788832569131
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    Anteprima del libro

    La Prescelta - Giuseppe Lotito


    Giuseppe Lotito

    La Prescelta

    romanzo

    Scone, Scozia, mattino, 5 Novembre 1321

    Lei era l'ultima, ne ero certo, ed era anche l'ultimo giro intorno alla piccola chiesa. Aveva un vestito verde di velluto pesante. A pochi passi un prato di erba ghiacciata mandava una luce sui merletti dorati che le ornavano il collo. La corona le alzava la statura di mezzo palmo e sorrideva. Non era solo un sogno, era la mia Regina.

    Introduzione

    In questa storia folletti e fate c’entrano davvero poco. È il tempo il protagonista della magia. Esso va trasformandosi, rallentando e accelerando ma, alla fine, si sdoppia. Il passato più remoto si volge al presente e il futuro più improbabile sembra rendersi fruibile anzitempo.

    Molti secoli prima dei faraoni, secondo i maggiori libri dell’antichità, testi ancora non completamente decifrati né totalmente compresi come la Bibbia cristiana, il Corano, il libro di Enoch, i rotoli di Nag Hammadi e il libro dei Vigilanti, alcuni esseri di statura gigante giunsero dalle stelle. Si dice provenissero da qualche parte nei pressi delle vicine costellazioni di Orione e Toro ma anche direttamente da Sirio, la grande stella del Cane Maggiore. Arrivarono servitori, guerrieri e comandanti in cerca di qualcosa che solo qui, sulla Terra, avevamo in abbondanza: oro e animali quasi identici agli uomini.

    Quegli esseri, chiamati Nephilìm ma anche Angeli Caduti per via della loro provenienza extra sistema solare, quando trovarono l’oro, decisero di farne razzia ma prima, considerando il lavoro sporco che non volevano accollarsi, crearono un Adàn, un nuovo umano in parte simile a loro, adatto al lavoro estrattivo. L’Adàn si riprodusse e gli uomini provenienti dalle stelle lasciarono a tutta la sua progenie, ovvero ai neo–uomini ibridati, ormai schiavi, abitanti del pianeta, un sapere solo parziale e una forza appena sufficiente a far funzionare il bieco meccanismo di sfruttamento. Finito il loro lavoro i più ritornarono nelle loro case fra le stelle. Il nostro, invece, dopo lo sfruttamento aureo, divenne temporaneamente un pianeta prigione e fu lasciato nel caos. Una fazione capeggiata da un ribelle, però, imparò a sopravvivere organizzando la sua nazione con l’intento di mantenere l’ibrido Adàn in schiavitù: fu chiamata i Figli del Serpente Shemyhazaz. Incapaci di riprodursi fra di loro per via delle avverse condizioni planetarie, si accoppiarono con le femmine dell’Adàn, generando una nuova stirpe di regnanti tuttora in vita, i Gibborim, descritti nella Bibbia cristiana come incroci.

    A tre degli Elohim, i comandanti chiamati a gestire il lavoro sul pianeta, fu ordinato di rimanere con la loro personale guarnigione di inservienti. Gli altissimi Nephilìm esadattili dalla pelle azzurra iniziarono così il loro vero lavoro. Rimasero sulla Terra e insegnarono ai popoli ibridati del Nilo, della Scizia, della Mesopotamia, del Centro America ma anche della Cina e di altre aree dell’Oriente, i segreti della propria scienza, spartendosi quindi le terre conosciute e diventando in breve tempo al pari di divinità. L’esempio noto ai più fu Yahweh, al quale venne affidata la terra desertica di Cananea. Trascurarono però la fazione ribelle che nel frattempo si era riorganizzata per la sopravvivenza su quello che per loro era rimasto un pianeta ostile date le condizioni di gravità eccessiva, scarsità di luce, basse temperature e pericoli naturali. Quando il primo dei tre Elohim comandanti morì, fu sepolto in un luogo segreto nei pressi di Giza, chiamato la Tomba del Visitatore. Alla morte del secondo fu costruita una grande Piramide ricoperta per millenni dalle sabbie d’Oriente, nella provincia cinese di Shaanxi. Tutti questi esseri, sia ribelli sia ufficiali, restarono a lungo in attesa di Nibiru, il cosiddetto pianeta dell’Attraversamento, un astro con un periodo di avvicinamento al sistema solare di poco più di settemila anni. Al suo successivo passaggio attorno al nostro pianeta lo avrebbero utilizzato per lo spostamento nello spazio al pari di un’astronave e avrebbero potuto così riunirsi ai loro antichi avi. Con la morte del secondo comandante rimase in vita solo un’ultima famiglia di ufficiali: i Figli di Enki.

    Nel frattempo l’ordine dell’Altissimo, il diretto superiore degli Elohim comandanti, fu quello di abbandonare il pianeta non prima, però, di aver sconfitto la fazione ribelle che sembrava essere intenzionata a sottometterlo. I Figli di Shemyhazaz, chiamati anche Figli del Serpente, divennero quindi nemici dei Figli di Enki. Appresa la notizia, i Figli del Serpente iniziarono a creare un esercito adatto e forte in grado di sconfiggere i Nephilìm ufficiali e successivamente sottomettere gli Adàn in massa. La riproduzione non ebbe subito successo cosicché, per proteggere i pochi ribelli rimasti, organizzarono una migrazione in un luogo nascosto e isolato. Partendo da quella terra originariamente chiamata Scythia, si stabilirono nei territori del Nord della Scozia. I figli di Enki, invece, in attesa del pianeta dell’Attraversamento, occuparono la terra degli Hopi, al di là dell’oceano, l’odierna Arizona e la terra dei Dogon, nel cuore dell’Ifriqiya, l’odierna Africa. La terra del serpente piumato Quetzalcóatl nell’America centrale, invece, fu occupata da Shemyhazaz e dai suoi prima della ribellione; qui la maggior parte di essi potè attendere pazientemente il passaggio dell’astro denominato Decimo Pianeta o Nibiru dai Sumeri.

    Col passare dei secoli, a ogni eclissi solare, intanto, sfruttando una particolare frequenza luminosa, la cosiddetta Luce Nera, Shemyhazaz mise al mondo nuove creature ibride, mescolando i propri geni con quelli delle femmine umane, le discendenti del giovane Adàn, dando così vita a quella razza che dagli uomini rimasti viene tuttora ricordata come Gibborim. Le cronache bibliche e antichi libri tenuti ancora segreti ne parlano con riverenza, descrivendola, a ragion veduta, come una razza semi divina, incrociata con i giganti azzurri con sei dita in una mano. Da essa discende una stirpe aristocratica di governanti che è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni. In alcuni testi gnostici vengono chiamati Arconti.

    Una piramide di potere, riconosciuta dalle cronache ufficiali religiose, si formò quindi nel tempo. L’Elohim ribelle al vertice, alcuni Nephilìm all’organizzazione difensiva e i Gibborim al servizio, fecero uso di un prodotto di ingegneria genetica, come ampiamente descritto nella Bibbia, conosciuto nei territori del Medio Oriente come popolo degli Adamiti: sudditi di coloro che finirono per considerare loro dei.

    Questa storia narra di una Gibborim, una discendente dell’antica stirpe, ignara predestinata alla guida di una piccola porzione di umanità.

    Situazione Generale in Scozia

    Anni bui erano appena trascorsi in mezzo a quelle terre umide, frastagliate e inospitali e altri ancora dovevano venirne. Da più di mille anni, di tanto in tanto, qualche re si svegliava di soprassalto e iniziava a vivere con il pensiero fisso di invaderle, di impossessarsi di qualcosa che conteneva un'inspiegabile forza che nemmeno egli sapeva definire. Le voleva, a costo di invaderne solo una porzione, conquistare anche solo una delle sue montagne o uno dei suoi laghi dalla forma magica. Non provando alcun rispetto per i suoi abitanti, cercava in loro alleanze di profitto e soddisfacimento dei propri bisogni di sopravvivenza. Puntualmente i contadini, i pastori e gli uomini di famiglia, per difendersi dai Cani Invasori, ovvero dagli inglesi, erano spinti a ritornare nei panni degli armati, a imbracciare di nuovo asce, archi e spade e a tornare sui campi di battaglia a fianco dell’esercito ufficiale. Non era di difficile impresa per i Pitti e gli Scoti, viste le loro origini bellicose e il loro forte istinto nel difendere la propria terra. Si trattava non di semplici soldati ma di veri e propri guerrieri e la differenza ognuno di loro la conosceva bene: era legata alla forza interiore. Tutti, dai loro antenati, avevano ereditato l'istinto dei combattenti, l'attitudine spavalda e rissosa, i capelli rossi come diavoli, le barbe lunghe come Loki, il dio dell’astuzia e, infine, più forte di tutto, il bisogno di pregare insieme ai loro dei, anche se da tempo era stata imposta una religione di stato, quella cattolica, entrata subdolamente nella vita quotidiana di ognuno. Tutti sapevano che un semplice soldato era un uomo addestrato a combattere contro un altro soldato per conquistare o proteggere qualcosa che non gli sarebbe mai appartenuta. Un guerriero, invece, non aveva distinzioni sessuali e si addestrava a combattere dieci, venti uomini alla volta per difendere qualcosa che gli apparteneva da sempre e che per sempre sarebbe appartenuta ai suoi discendenti. Non ci sarebbe stata alcuna possibilità di trasformare il primo in un santo o in un eroe ma il secondo doveva e voleva diventarlo a tutti i costi, difendendo la sua terra al pari del suo onore, il suo clan e gli dei che lo governavano.

    Un interregno di sei anni era sopraggiunto alla morte di Alessandro III ed era durato fino all’incoronazione di Mairead, la piccola pulzella di Norvegia, una norrena erede al trono. Figlia di Margherita di Scozia e di Eirik II di Norvegia, era stata promessa a Edoardo II dal padre stesso nell’accordo di Salisbury, senza consultare i Guardiani di Scozia. Qualcosa, però, era andato storto sia per la madre, morta durante il parto, sia per la bambina che, partita in nave da Tønsberg, non aveva mai raggiunto le coste della Scozia, lasciando il principe Edoardo II vedovo anzitempo.

    Proprio durante questo periodo senza re né regine si era costituito un gruppo di ex possidenti terrieri deprivati delle loro proprietà: gli Underdogs. Costoro, speranzosi di rientrarne in possesso, avevano stretto alleanza informale con i Cani Inglesi e con il loro re Edoardo, favorendone una eventuale invasione. Erano pronti a tutto pur di uscire dal loro stato di diseredati. Anche la libertà e l’indipendenza della loro nazione erano state messe in secondo piano pur di dare spazio alla loro questione privata, personale ed economica. Non riuscendo a dimostrare l’ufficialità dei loro possedimenti a ritroso nel tempo, erano stati deprivati di qualcosa che, secondo il popolo, era stato semplicemente un furto.

    Molti anni addietro, prima che i Cani Invasori fossero rimandati nella loro terra, anche Giovanni di Scozia aveva tentato di prendere la corona senza essere autorizzato nemmeno dagli scozzesi, ma era stato fermato dai Bruce, una famiglia simbolo della resistenza alla stirpe inglese. Proprio loro avevano soppresso la ribellione nella roccaforte di Galloway. Ma era stato nel 1297, durante la Battaglia di Stirling Bridge, che gli inglesi erano stati fermati grazie a William Wallace, il primo vero grande eroe degli scozzesi.

    L'anno successivo, la Battaglia di Falkirk, durante la quale gli scozzesi furono traditi dall'avarizia dei nobili feudali sconfitti, aveva decretato l'inizio di un periodo di lotte intestine che avevano indebolito ulteriormente i più deboli ma rafforzato coloro che credevano ancora più fermamente nella libertà.

    Solo nel 1314, con la leggendaria Battaglia di Bannockburn, sotto i suoni delle cornamuse vincenti, giunsero infine la libertà e l’indipendenza dall'invasore e dall'esercito di Edoardo II.

    Fu merito di Robert Bruce, il condottiero rivale di tutti coloro che erano contrari all’unificazione e all’indipendenza della Scozia. Una pace era stata ottenuta, gli scozzesi avevano ripreso in mano il loro orgoglio senza sapere che non era ancora giunta una conclusione.

    Alcuni avrebbero tentato di mettere le mani su quel territorio ambiguo e magnifico, molti sarebbero stati fermati, altri ancora avrebbero contribuito a colorare di sangue la fitta rete di laghi e fiumi che nutriva ognuna delle sue regioni, rendendola appetibile e unica come una donna difficilmente conquistabile. La pace, infatti, era solo temporanea anche se gli anziani e le mogli erano stati messi al sicuro. I figli dei guerrieri avevano ancora un padre e tutti lo prendevano come esempio di coraggio, integrità e giustizia. Molti padri riportavano sul corpo e nel cuore le ferite dell'ultima furibonda battaglia, miste a policromi tatuaggi rituali, ma era nei loro occhi che si poteva intravedere più amore che odio, più saggezza che rabbia, più intelligenza che prudenza. Comunque non era finita lì: l’intelligenza, il coraggio, la saggezza e l'amore sarebbero stati ben presto messi alla prova da un Divino Creatore intransigente. Quelle qualità non sarebbero potute rimanere a lungo le stesse, dovevano svilupparsi come un neonato che strilla e vuole diventare grande. Queste erano le condizioni per una vittoria definitiva, per un'indipendenza stabile e per una libertà sconfinata e duratura.

    La maggior parte dei clan si era organizzata in piccole città che avevano avuto il compito di riunificare villaggi originariamente separati. Queste erano state fortificate, rese ospitali e organizzate per accogliere una forma di religione o spiritualità che toccava tutti fin dentro le viscere, anche se in contrasto netto con il cristianesimo, la religione dei regnanti. Enormi luoghi di culto lasciati da sconosciuti antenati e poi trasformati in propri erano il polo segreto intorno al quale si riuniva periodicamente la comunità, forte e coesa.

    Anche se l'ultima battaglia era stata il grande simbolo della loro agognata libertà, nell'immaginario collettivo c'era il precetto di non abbassare la guardia. Lo stare insieme avrebbe protetto tutti da un nuovo eventuale tentativo d’invasione da parte del nemico di sempre oltre a quello che sarebbe potuto arrivare dal mare. Alcuni villaggi erano rimasti però volontariamente più isolati. Erano quelli situati nei Borders, la zona di confine col territorio nemico, quella più a Sud. Lo avevano scelto consapevolmente, rimanendo più piccoli e nei pressi della foresta. Sarebbero stati meno visibili, perdendo la loro qualità di bersaglio. Si erano tutti ricostituiti al confine di un bosco, in una piccola valle, luoghi poco interessanti per le truppe di passaggio. Alcuni clan avevano optato per piccole isole protette e circondate dalle acque gelide del Nord, in uno dei mille loch sparsi in quel bellissimo territorio che andava dalle Highland alla Pictavia, il luogo delle pietre scolpite e dei volti dipinti. A Sud Ovest invece, nella zona più rischiosa, in uno degli insediamenti più protetti dalla natura selvaggia, nella patria dei Pitti e degli Scoti, nel regno dello Strathclyde, si trovava il primo baluardo da difendere in caso di attacco. In uno dei villaggi dei Borders stava per avere inizio questa storia che nulla sapeva di sé, di come si sarebbe sviluppata e di quanto avrebbe influenzato il futuro di quella terra di così magnifica bellezza e di così grande e impressionante potenza. Ma soprattutto di come avrebbe fatto ad avvicinarla alla sua irraggiungibile libertà.

    "Racconto–diario di un

    sopravvissuto alla grande Battaglia"

    Dal diario di Sir Andrew Seton, cavaliere del Guardiano di Scozia Sir Archibald Douglas e figlio del Generale di Comando Sir Alexander dei Seton. Sopravvissuto all’ultima incursione della grande guerra di Bannockburn.

    2 giugno 1315

    Esattamente un anno dopo gli eventi accaduti nella grande battaglia di Bannockburn, il Governo inglese, nella persona di Edoardo II, decide che posso lasciare la mia cella per portare a compimento una missione difficile e molto rischiosa, quindi si parte finalmente per le Terre dell’Attraversamento.

    Terrò un diario che spero testimonierà il mio tentativo di ritorno verso Brightinghorse nel caso in cui per qualsiasi motivo non dovessi farcela. Sappiate che ho lottato senza risparmiarmi mai e senza farmi intimorire dal pericolo, che ho sempre amato mio fratello Thomas che ha combattuto ogni battaglia al mio fianco.

    Siamo stati presi come prigionieri durante la ritirata e trattenuti in modo disonorevole dall’esercito inglese in fuga, proprio come nostro fratello Christopher, catturato dopo aver salvato il re disarcionato. Thomas resterà rinchiuso in queste galere almeno fino al mio ritorno, questo è il loro ricatto per assicurarsi il compimento della mia missione. So bene che non devo sprecare quest’occasione per ottenere la nostra libertà. Non voglio ritornare in Scozia con il suo feretro, ma sarà molto difficile svincolarsi dalla guida armata che mi è stata assegnata e, qualora io decida di fuggire, non credo ci siano molte possibilità di recuperare Thomas o di sopravvivere nelle Terre dell’Attraversamento. Ci sarà anche un drappello di guardie che ci seguirà a distanza fino al confine, giusto quelle che mi scherniscono chiamandomi Occhio di lince per via della pagliuzza gialla che sia io, sia mio padre, sia Thomas abbiamo nello stesso occhio. Una volta allontanati dalle guardie proseguiremo da soli, dopodiché il destino mi abbia in gloria.

    Attenderò e terrò duro. L’occasione propizia con pazienza arriverà. Se non si dovesse presentare, mio padre continuerà a credere che i suoi figli siano morti e io avrò solo approfittato degli ultimi respiri per gioire del sole e delle valli erbose di Scozia, prima di morire definitivamente davanti al mio albero preferito. Devo ricordarmi di tenere la mente serena, come mi ha insegnato mio padre.

    Aequam memento servare mentem

    In attesa che NePheliae, la pizia delle colline, anche lei prigioniera con trattamento di favore, venga a darmi le sue ultime indicazioni, ripenso anche a mio padre Sir Alexander, a mia madre Lady Hawan e a mia sorella Suyba, la mia famiglia, forse perduta.

    È la voce legnosa della pizia che parla. Entrando nella mia stanza, cerca un posto dove appoggiare un fardello che ha preparato per il mio viaggio.

    – Arriverà una persona a svegliarvi poco prima dell’alba. Non dovete fargli domande se non volete che la terra si privi della vostra simpatica presenza. Tutto quello che vedrete vi farà dubitare. Tutto quello che vi accadrà potrà sembrarvi irreale, dovrete entrare in una terra sconosciuta dove le regole non sono le stesse di questo mondo. Se crederete di essere morto, Andrew, sarete ancora vivo. Se qualcosa vi farà pensare di essere vivo, allora abbiate il dubbio che vi state ricongiungendo ai vostri avi. Se vi verrà voglia di pregare, fatelo e invocate tutti gli dei che conoscete. Lo avete voluto voi, salvate la vostra anima e ricongiungetevi alla vostra famiglia ma sappiate che potrebbe non essere mai accaduto. L’unica verità che potrete riconoscere sarà l’amore, nient’altro.

    Trasformate la vostra vita da morto vivente in una vita reale e forse potrete rivedere vostro padre e vostra madre, qualora ne abbiate una, Thomas e anche la vostra amata sorella. Siete un cavaliere e per sempre lo rimarrete, qualunque cosa accada.

    NePheliae ha seguito la mia vicenda e mi ha consigliato di partire. Avrei potuto rifiutarmi e forse, un giorno, ricongiungermi comunque alla mia famiglia, ma ho preferito il rischio di morire a quello di finire i miei ultimi respiri immerso nella flebile speranza che questo giorno arrivi. Ho condiviso con la pizia i miei segreti sui misfatti di due battaglie che, pur non essendo state né vinte né perse, mi hanno portato via un padre che crede che i suoi amati figli siano morti e che vivrà con questo senso di colpa per sempre.

    I miei compagni, quelli che si sono consegnati come pegno per la tregua, in attesa dei rinforzi, sono stati, tutti e sei, bruciati e appesi come degli spiriti malvagi e non hanno ricevuto nemmeno una degna sepoltura che onorasse il loro coraggio e l’abnegazione dimostrata in battaglia. Hanno risparmiato me e finto di giustiziare Thomas e, fra poco, credo e spero, ne scoprirò i motivi. Una ritirata nel puro stile da canaglie senza onore quali solo i Cani Inglesi possono essere. Ma la pagheranno molto cara.

    Terrò il resoconto in questo diario, come se stessi rinascendo nel momento in cui uscirò dalle mura del castello.

    Ho davanti una donna minuscola dagli occhi scintillanti e neri, perennemente vestita di nero, avvolta in un mantello nero, sporco ma tessuto di un prezioso knickerbocker pesante. È l’unica persona della quale io mi fidi anche se non ciecamente, l’unica comunque che non ha interessi materiali ma crede solo nella sapienza dell’anima. Colei che mi ha ordinato di sforzarmi di tenere un diario che dopo la mia morte arriverà nelle mani di chi racconta le gesta dei cavalieri, le imprese di quelli che hanno reso libero l’intero regno di Scozia. Forse fino nelle mani di mio padre.

    Ho risposto che non riuscirò a dormire, sfregandomi gli occhi gonfi, dopo una prima rilettura a lume di candela.

    – Dovrete indossare lo stesso suo vestito, è una specie di velo alla maniera dei mori, ma fatto in casa. Vi scambieranno per due donne per tutto il primo tratto di confine, prima di entrare nelle Terre dell’Attraversamento. Non correrete alcun pericolo solo se farete come vi dico io. Quella sacca è l’unica cosa che porterete con voi oltre al massello d’oro che vi hanno consegnato ieri i funzionari di Edoardo, quello che vi permetterà di comprarvi la libertà. Non vi serve altro. Il quaderno per gli appunti sistematelo sul lato della bisaccia e usatelo solo se vi serve davvero: i Nephilìm, gli uomini azzurri, credono di essere sopravvissuti grazie alla loro segretezza, non perdoneranno alcuno sgarro.

    Domando chi sono i Nephilìm e mi risponde di leggere la Bibbia, un libro sacro ai cristiani che ha rubato in una chiesa e che ha messo nella mia sacca. Solo lì troverò quasi tutte le informazioni che si possano avere su di loro. Mi dice di tenerlo nascosto. È proibito possederlo anche agli stessi cristiani.

    Domando se la guida parla gaelico, la mia lingua, guardandola dal basso della mia branda.

    – Non parlerà, è muto – mi risponde.

    Penso che sarà un viaggio infinito, volgendo lo sguardo verso la finestra, ma intravedo la libertà di mettere finalmente il mio peso su un cavallo e questa è l’emozione più grande.

    – Un drappello di guardie vi scorterà fino al limite delle Montagne Nere. Si assicureranno che voi non fuggiate e vi attenderanno fino al vostro rientro. Dopo due settimane hanno l’ordine di andarsene e lasciarvi al vostro destino ma diventerete due ricercati e sarete condannati a morte. Mi state ascoltando, Sir?

    – Si, NePheliae, vi sto ascoltando molto bene – rispondo.

    – La vostra guida è l’unica a conoscere la strada una volta dentro. È l’unico straniero ammesso nelle loro terre e lo considerano di loro proprietà per cui non fatevi venire strane idee di mettervi contro di lui. Vi conosco da molto tempo, più di quanto crediate, e vi sto facendo consapevolmente tutte queste raccomandazioni. Vi sentirete solo e sarà dura. Vi benderà due ore prima della meta delle Montagne Nere. Per fare in modo che voi perdiate ogni riferimento visivo. La vostra guida ha quest’ordine e lo rispetterà, pena la sua morte.

    – Posso sapere il suo nome, se ne ha uno? – domando io.

    – Sì, Umukulthùm, ma non vi servirà a nulla saperlo, Sir Andrew.

    La pronuncia esperta di quel nome rende ancora più seria NePheliae, la pizia che non smette neanche per un attimo di fissarmi.

    – Strano nome – le sussurro guardandomi i piedi nudi e caldi ancora per poco.

    – Ha trovato due cavalli molto forti. Dice che è l’unico mezzo per attraversare quella pianura deserta… a piedi si muore in poco tempo.

    – Dice? Non era muto? – osservo io.

    NePheliae mi infilza con il suo sguardo, fissando la pagliuzza giallo oro visibile nel mio occhio sinistro.

    Inizia a esprimersi il mio primo dubbio, cerco un appiglio per fidarmi di quel cavaliere servente ma, invano, cerco di non mostrarlo. Vorrei viaggiare da solo ma entrare in quel deserto è praticamente impossibile, nessuno è mai tornato con una mappa. Nessuno è forse mai tornato, credo.

    – Sarei venuta con voi, io la strada la conosco, ma sono troppo vecchia per queste cose. Riportatemi indietro tutto quello che riuscite a salvare di voi stesso.

    – Come fate a conoscere la strada, vecchia? Non è possibile entrare.

    – Abbiamo il dono delle visioni, Sir Andrew, non abbiamo motivo di spostarci da dove siamo. È un dono anche se, a volte, tremendo.

    – La prossima volta, NePheliae, la prossima volta…

    La pizia non raccoglie la mia battuta. Rimane lì, impassibile, come se fosse molto preoccupata. Non mi augura né il buon viaggio né la buonanotte ed esce con un’espressione accigliata sul volto rugoso. Non so assolutamente come andrà a finire ma è l’unica cosa che posso e che devo fare.

    Mi sono sdraiato di nuovo, ho chiuso gli occhi e ho iniziato subito a sognare. Prima uno spadone con un’impugnatura di avorio bianco, poi la magna torre del Palazzo dei Bruce, poi una bambina salvata da un naufragio. L’immagine di un mazzo di rose dura solo una frazione di secondo. Infine, passa davanti ai miei occhi una figura tutta nera, sembra un fantasma al negativo e mi fa svegliare di soprassalto.

    È li, davanti a me, completamente coperto, come un guerriero tuareg tinteggiato di nero. Ha in mano una sacca simile a quella che mi è stata portata dalla pizia. Ha le mani fasciate con la stessa stoffa con cui ha avvolto il capo. Mi fa cenno che è pronto. Porta con sé una spada ricurva infilata nel cinturone ma non è una scimitarra. E un ciondolo di ferro nero appeso al collo che attrae la mia attenzione. È un triangolo allungato con gli angoli intagliati come fossero piccole frecce e intorno dei petali di corallo rossi.

    Capitolo uno

    30 aprile 1317

    Un arrivo inaspettato

    È iniziato tutto un attimo prima che esplodesse l'estate. Era la fine dell’aprile del 1317, durante la festa di Beltane, la celebrazione del Fuoco Luminoso, un giorno a metà strada fra l'equinozio di primavera e il solstizio d'estate. In quella settimana tutte le attività erano dedicate a Belenus, il dio della luce, ma erano svolte in segreto, lontani dagli sguardi accusatori della religione ufficiale. In quei giorni, oltre a riunirsi le forze della luce di Belenus, sulla cima di un monte al di là della Manica si radunava una congregazione di guaritrici che il cristianesimo di lì a poco avrebbe iniziato a chiamare streghe. Queste, si diceva, cercavano solo di contrapporsi alle forze luminose e, svolazzando per giorni sulla cima di quella montagna, decidevano sul da farsi per tutto l'anno a venire. I saggi di ogni villaggio nel quale si rispettasse la tradizione, quelli non ancora completamente convertiti alla religione dei re, dicevano che era giusto così, era il prezzo da pagare per ottenere il favore degli dei e che chiunque fosse nato in quel giorno non poteva appartenere mediocremente all’umanità ma doveva essere per forza un diavolo o un angelo.

    Una donna era apparsa all'improvviso, come uno di quegli animali che si è stranamente perduto nella foresta e che, spinto dalla fame e dal disorientamento, si avvicina al primo villaggio in cerca di avanzi di cibo. Lei però non aveva solo l'aria di chi ha bisogno di rifocillarsi, anche se quello poteva sembrare scontato, visto il suo arrivo inaspettato dalle fronde fitte e inospitali della foresta di Hogg. Si era invece avvicinata al fuoco mentre tutti ballavano. Era il giorno più importante dell'anno dopo la grande festa di Lugnasad, quella che la comunità si preparava a organizzare in grande il successivo primo di agosto, la celebrazione della madre adottiva, Tailtiu.

    Stavano tutti danzando in cerchio, guidati dal sacerdote più anziano, uno di quelli che parlano con gli alberi e che scrivono sulle pietre, uno di quelli che raccolgono ancora il vischio alla maniera celtica, quella degli antenati più rispettati, l'unico autorizzato a recidere la giugulare dei tori da sacrificio, i due tori bianchi che avrebbero donato il loro sangue per inumidire la corteccia della quercia più antica. Poi, finito il rituale, tutti sarebbero tornati alla vita di tutti i giorni, quella che comportava anche il ritrovarsi in chiesa ad ascoltare incomprensibili parole in latino.

    Sembrava ipnotizzata e, fortunatamente, un paio di donne di quelle che hanno la situazione sempre sotto controllo l'aveva vista e afferrata per le magrissime braccia nude salvandola da una caduta quasi certa sul cumulo di braci delimitate dai sassi che disegnavano il cerchio intorno al fuoco principale. Lei aveva vomitato dopo aver alternato una serie di respiri affannosi e si era ripresa abbandonando lentamente il suo catatonico barcollare disordinato. Si era lanciata così decisa verso il fuoco che tutti avevano pensato che stesse cercando di morire bruciata su quel rogo purificatore. Alcuni degli uomini avevano assistito alla scena, considerandola più come qualcosa di affascinante che non di pericoloso, e non si erano neppure scomodati. Molti avevano riso ottenendo i rimproveri delle proprie mogli. I più avevano finito col brindarci sopra, celebrando il salvataggio con una bella dose di birra fresca. Uno solo si era messo a disegnare la creatura al bagliore della sua torcia a olio. I più anziani, infine, erano rimasti semplicemente lì a guardare quella strana donna biancastra apparsa dallo scuro del bosco, come qualcosa di magico, misterioso e pericoloso al contempo.

    Henya, questo si era scoperto in seguito essere il suo nome, era poi stata portata in casa di una guaritrice e tenuta nascosta per i trenta giorni successivi. Il trentunesimo giorno aveva iniziato a riapparire qua e là, fra le abitazioni fatte di legno e sassi, mimetizzandosi, senza avere alcun contatto con gli abitanti di quel minuscolo villaggio ai confini del territorio dei Borders. Parlava coi cavalli, con i ragni, con i falchi e i roditori che salivano e scendevano dagli alberi e che sembravano riconoscerla per qualche attimo prima di scappare via.

    Descriverla nei minimi particolari dopo averla osservata di nascosto mentre parlava con ogni tipo di essere vivente che non fosse l’uomo sarebbe stato facile ma superficiale, vista la sua stranezza nel muoversi più come un fauno che non come un essere umano. Raccoglieva foglie, fiori e piante intere, anche quelle che ai più sarebbero risultate insignificanti. Le maneggiava con assoluta meticolosità, come se stesse raccogliendo qualcosa di tanto prezioso e fragile da poterne disturbare l'essenza anche solo posandoci gli occhi sopra.

    Inutile descrivere con parole comuni le sue fattezze perché era così insolita da far sembrare falsa e inefficace ogni descrizione. Aveva infatti dei capelli rossi come le fiamme che stanno attorno al diavolo che cammina. Come le fiamme che nei racconti degli anziani avevano distrutto quel villaggio prima che gli fosse attribuito il nome di Brightinghorse. Nome proveniente dalla scena che i suoi antenati fondatori avevano osservato da lontano, sulla sommità della collina adiacente, il grande incendio che, indomabile, aveva ridotto in cenere l'intero villaggio. Da quel momento era stato ricordato e raccontato come lo spettro luccicante di un cavallo impazzito.

    Henya aveva gli occhi di un verde giada dal contorno più scuro, come se le si fossero infilati dei sottili aghi di pino nelle pupille. Questo però era visibile quando l’astro del giorno era al suo zenit e solo guardandola da vicino. In altre condizioni di cielo, i suoi occhi prendevano a imitare l'azzurro sovrastante. Erano sempre un po' anneriti, attorno alle orbite, da olio di fuliggine, una specie di trucco, una mistura nerastra che alcune donne usavano anche durante il rituale del matrimonio ma soprattutto quando aveva luogo la lunga celebrazione del parto, il momento più sacro per la gente religiosa. Serviva a tenere disinfettate alcune parti del corpo come le unghie delle mani, gli occhi e l'area degli organi genitali. La composizione la conoscevano bene la levatrice e il sacerdote. Forse usava quell’unguento fuligginoso anche per mascherare uno strano tatuaggio composto da sette punti bluastri disposti a ogiva attorno all’occhio sinistro.

    Era piccola di statura e andava in giro a piedi nudi. Portava una gonna bianca che strisciava per terra per via della sua lunghezza eccessiva e un grande scialle di lana, così grande che ci si sarebbe potuto avvolgere un cervo adulto. Non appena usciva il sole, abbandonava parte di quelle protezioni, si legava i capelli in alto e prendeva a roteare guardando il cielo, come per lasciare che il sole la inondasse di calore sulla nuca, sulle spalle, sulle braccia e direttamente in viso. Ma la parte più interessante e straordinaria di quella creatura era la peluria incredibilmente folta che cospargeva tutto il suo corpo, persino il viso. Sotto gli occhi, sopra gli occhi, sulla fronte, sul mento, sul collo, sulle spalle, sulle braccia e così via, fino a mani e piedi, era molto più simile a un animale che non a un comune mortale. Da una distanza di dieci passi non si notava granché ma al di sotto di quella soglia non si poteva che rimanere attoniti, seppur incuriositi da quello strano effetto. Ricordava un gatto, un cane a pelo corto, un’antilope giovane ma la bellezza dei suoi occhi vinceva lo stupore per la sua stranissima peluria. Anche le mani erano bellissime e affusolate come quelle di una nobildonna ma anch’esse ricoperte da una peluria bionda e delicata. I bordi delle unghie erano anneriti dal lungo tempo trascorso nella foresta. Nessun uomo le si sarebbe avvicinato senza prima averne controllato la dentatura, comunque perfetta. A tutti gli effetti ricordava l’effigie scolpita sull’uscio di alcune abitazioni, quelle dei più ostici alla religione ufficiale, che avevano deciso di costruire la propria dimora al limitare della foresta: la figura della Dama Selvatica, una misteriosa donna verde ricoperta interamente di foglie e di erba con braccia e gambe a forma di ramo di albero e fogliame al posto dei capelli.

    Capitolo due

    31 maggio 1317

    L’incontro

    Il trentunesimo giorno cadeva la fine di quel mese e sin dalle prime luci del mattino si era levato in cielo un sole di una tale lucentezza che Sir Alexander Seton, ex comandante dei Guardiani di Scozia, da tempo lontano dai campi di battaglia, aveva deciso di sfruttarlo trascurando il suo lavoro di fabbro. Si organizzò così per mettersi a disegnare con i carboncini e i bulini di metallo su delle superfici di legno che impiegava settimane a preparare, la sua vera passione sin da bambino. Disegnava le ombre fra le cose, il bosco, le migliori prospettive di paesaggio, armi, marchingegni e la natura, soprattutto dal suo punto di osservazione preferito: un grandissimo masso di roccia sulle rive del lago. Una roccia dalle fattezze perfette. Su quel masso se ne erano raccontate di tutti i colori. Era stato denominato il Gomito di Odino dagli anziani venuti prima di lui e molti pensavano che fosse una sorta di menhir cavo, portato lì da chissà quale gruppo di sacerdoti che aveva percorso molta strada salendo da Sud per seppellire uno dei loro avi. Secondo Alexander Seton, invece, il sasso non poteva pesare meno di venticinque tonnellate e non poteva che essere stato trasportato fin lì da una legione di angeli o da qualche creatura dotata di una forza sovrumana.

    Si era posizionato sulla sua cima quando il sole era ancora di taglio e aveva iniziato a disegnare uno scorcio dove un paio di alberi maestosi, due grandissimi olmi, troneggiavano come i perfetti protagonisti di quella meravigliosa giornata di luce. Disegnava stando lontano dal villaggio ed evitando così di bere davanti agli altri. Lo faceva soprattutto per sua figlia. Era così visibilmente immerso nel disegnare nella maniera più realistica possibile i due enormi esseri colpiti da una luce quasi irreale, per quella umida terra sempre sovrastata da nuvole, da non accorgersi che già da un po' si trovava sotto osservazione. La ragazza con i capelli rossi e gli occhi cerchiati di nero, infatti, lo stava guardando, immobile come un cervo, standosene seduta sulle radici di un leccio che aveva da tempo perso la maggior parte delle sue ghiande. La guardò senza salutarla con fare serio, sollevando la matita nell'aria come una microscopica spada e lei rispose solo con un sorriso, rimanendo immobile nella sua posizione. Le ci vollero alcuni minuti per prendere confidenza dopodiché si alzò e si mosse verso il masso, camminando lentamente e aggiustandosi i capelli con un laccio di cuoio che liberava la nuca pur lasciandoli sciolti come un fascio sulle spalle.

    – Cosa bevete di buono?

    Seton manifestò una breve irritazione per quella domanda. Poi per spirito di contraddizione tracannò un altro sorso dalla sua bottiglia di metallo.

    – D’accordo, non sono affari miei. Conoscete la storia dell’orso di Callanish? – esordì in seconda battuta la ragazza.

    – Ne ho sentito parlare ma solo di sfuggita – rispose Alexander Seton in modo distaccato.

    – Mi è stata raccontata da uno strano personaggio incontrato nella foresta. Narra di un piccolo orso che entrò in un buco che portava in una rete di cunicoli e grotte. Proprio qui si trovava una sorgente magica che poteva curare mille malattie e tutte le ferite. Incapace di uscire dal buco, dopo essersi perso nei suoi anfratti, l’orso iniziò ad abbeverarsi alla fonte fino a cadere in letargo. Al risveglio era diventato così grande che non poteva più uscire dal buco d’ingresso. Gli abitanti di Callanish, impietositi, dopo qualche tentativo di tirarlo fuori, iniziarono a portargli cibo e regali. L’orso si abituò alla sua vita in quella tana ma non all’oscurità, allora, gli stessi abitanti del luogo iniziarono a costruire una rete di specchi per portare la luce all’interno della grotta, con la speranza di ammansire l’animale e di poter di nuovo accedere alla loro sorgente di acqua magica.

    – Gli orsi dopo il letargo diventano più magri – affermò Seton.

    – In effetti è vero ma quello forse era un orso speciale.

    – Avrebbero potuto uccidere l’orso, no? – la incalzò Seton.

    – È questo il punto, Sir. Un tale druido chiamato il Raccoglitore, vi rivelo, il cantore di questa storia, li avvisò: qualora l’orso fosse stato ucciso, il sangue avrebbe bloccato la forza di quella sorgente e sarebbe stato tutto inutile. Ma un giorno qualcuno sarebbe arrivato, avrebbe addormentato l’orso, avrebbe portato una grande quantità di acqua fuori dalla grotta e avrebbe salvato migliaia di persone.

    – Storia molto affascinante, ma un po’ troppo fantasiosa.

    – Mi hanno detto che siete un disegnatore di mappe – disse lei incuriosita e stando attenta a dove metteva i piedi nudi.

    – Sono un fabbro. Le mappe sono il mio personale contributo alla comunità – rispose l’ex soldato senza degnarla di troppo interesse.

    – Vale a dire? – disse lei guardandolo dal basso.

    – Vale a dire che le sto disegnando per capire meglio la terra di Scozia e per fare in modo che quelli che verranno dopo di noi capiscano l'importanza del riconoscere i propri territori – rispose lui sforzandosi di essere il più gentile possibile, anche se quello era un argomento che non amava assolutamente affrontare.

    – Quindi conoscete molte vie di transito, sapete come attraversare le Highland senza perdervi in mezzo a tutta quella melma? – domandò lei con un insistente sorriso.

    – Se volete davvero attraversare le Highland, non è quello ciò che vi serve – rispose l’uomo con un tono più secco.

    – Mmm, sembrerebbe che non amiate conversare con gli sconosciuti – fece lei.

    – Ci state andando vicino, Madame, ma non è esattamente così. Straniera ditemi: cosa vi serve?

    La ragazza smise di fare domande e scomparve per qualche attimo dalla visuale. Poi ricomparve dall'altro lato del masso, elargendo un enorme sorriso. Sembrava un essere vivente di un altro mondo.

    – Posso salire a vedere cosa state disegnando? – chiese lei, rompendo per la terza volta la pace di quell’impressionante silenzio. Alexander Seton si voltò di scatto e, fingendo di non essere né infastidito né stupito, le offrì la sua mano facendole cenno di avvicinarsi per aiutarla a salire. Lei aveva la mano più calda che avesse mai osato

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