The cosentinos. l'educazione sentimentale del pdl in campania
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Anteprima del libro
The cosentinos. l'educazione sentimentale del pdl in campania - Dipartimento Legalità Sel Campania
all’italiana".
Perchè un libro bianco
Questo libro bianco non ha nessuna ambizione di offrire una lettura storica di fatti e personaggi che in questa fase, speriamo temporaneamente, sono al potere in Campania.
Siamo una forza politica e, come tale, siamo abituati a misurare la nostra capacità di egemonia e d’iniziativa non sulla cronaca giudiziaria che coinvolge i nostri avversari, ma sui passaggi cruciali che incrociano la vita di milioni di cittadini della nostra regione.
Siamo nella Campania della crisi più drammatica conosciuta dai tempi dell’immediato dopoguerra, dove la recessione è entrata nelle case prima del resto del Paese e da dove ne uscirà più tardi. Siamo la Campania il cui prodotto interno lordo è passato in quattro anni da 81 miliardi di euro a 74 e dove negli stessi anni sono stati bruciati 188.000 posti di lavoro. Siamo ancora la Campania che ha contribuito in maniera più forte e drammatica alla crescita di quello tsunami demografico che ha cambiato il volto del Mezzogiorno, figlio della più grande fuga di cervelli e braccia che si sia mai verificata dall’inizio del secolo scorso ad oggi.
Insomma, la vittoria della destra si è affermata in questo contesto economico e sociale e ha attecchito nella testa e nel cuore delle persone non tanto per la proposta politica di sviluppo che offriva ma piuttosto perché il centrosinistra a un certo punto ha scelto di liberare il campo, ritirandosi nei suoi accampamenti e rinunciando in maniera definitiva a offrire un’idea forte di alternativa.
Mi hanno colpito molto i contenuti del saggio edito da Daniele Checchi Immobilità diffusa, dove nella tabella sulle modalità di reperimento al lavoro dei laureati europei il meccanismo di relazione per l’Italia vale il 23,3%, in Spagna per il 26 mentre in Francia e in Germania sotto il 10%. Dentro questi dati c’è la disperazione di una generazione italiana e meridionale che non riesce a collocarsi in autonomia nel mercato del lavoro senza santi in paradiso
, vivendo in prima persona la fine dell’illusione di una mobilità sociale in grado di affrancare il cittadino dalla condizione di cliente e di suddito.
Nel Mezzogiorno si è formata un’intera schiera di notabili su questa mediazione d’interessi e sulla capacità di promuovere carriere: il compromesso, se vogliamo, su cui si è costruito negli anni un equilibrio sociale in grado di garantire pace e consenso.
Oggi, i morsi della crisi e la scarsità di risorse danno un colpo a questo impianto, ridimensionando significativamente la capacità redistributiva della politica. Tuttavia, continua a essere radicata nella coscienza popolare l’allusione alla potenza della politica come strumento di ascesa sociale, di ricollocazione professionale, di accreditamento pubblico. Altrimenti, non ci spiegheremmo la proliferazione incredibile – che negli ultimi anni ha rappresentato un tratto costante della politica campana e meridionale – di liste civiche su base territoriale, che al di là del consenso elettorale ottenuto, finiscono per essere strumenti nelle mani del peggior notabilato: il voto di scambio passa anche attraverso l’offerta di una candidatura al comune o alla municipalità, dove un nucleo familiare, un’azienda, un’associazione si mettono a disposizione di un obiettivo politico in attesa di un ritorno successivo. Il civismo deteriore è stato uno dei pilastri su cui si è fondato negli ultimi anni il potere nelle regioni meridionali, attraendo in maniera trasversale messe ingenti di consenso e costituendo una forma di annichilimento ulteriore della partecipazione democratica alla vita delle persone. In molte comunità anche piccole il rapporto fra candidato ed elettore alle elezioni amministrative è talvolta di uno a quattro, uno a cinque: e poi si parla di crisi della rappresentanza o della politica! In realtà questa partecipazione alle competizioni elettorali talvolta si è tramutata in una sorta di adesione disperata a un mega concorso pubblico, dove i candidati, pur non avendo alcuna speranza di essere eletti, concorrevano a formare una sorta di regime clientelare di massa, in cui il vincolo è solido e duraturo perché metti la faccia e talvolta anche un po’ di soldi. Una rivoluzione passiva che ha progressivamente privatizzato la politica, rendendola debole ed esposta a incursioni familistiche.
Il cosentinismo è nato, si è formato ed è cresciuto in questo brodo di coltura: la crisi della sinistra, il suo fallimento come attore di governo e di trasformazione, il disastroso scandalo dei rifiuti che in questa terra ha contato, come passaggio di stabilizzazione e ristrutturazione democratica, come e più del terremoto del 1980.
Si è costruita, insomma, una classe dirigente alimentata da una permanente emergenza ambientale che ha sfregiato la faccia e condizionato la natura della Campania.
I signori dei rifiuti hanno prodotto un’idea di sviluppo concepita sull’idea di una regione a bassa specializzazione produttiva e con un futuro fondato sul consumo ulteriore del suolo, attraverso i piani casa, i condoni edilizi e una pianificazione economica esclusivamente fondata sulla moltiplicazione della rete della grande distribuzione commerciale.
Il volume di affari che è girato attorno a questo circuito speculativo è spaventoso, ma il costo civile e morale lo è ancora di più. La lingua di territorio che dal basso casertano arriva fino a Napoli nel corso degli anni si è trasformata in un’unica colata di cemento, senza qualità sociale e senza qualità ambientale.
La sinistra non è riuscita ad arginare questa esplosione urbanistica e talvolta l’ha assecondata.
Ne è venuto fuori un paesaggio urbano che ha modificato l’antropologia delle nostre comunità, ha abbattuto il tessuto associativo, ha frantumato la civiltà del lavoro e ha alimentato il dominio pressoché incontrastato dei clan sull’economia del territorio. Le classi dirigenti che dominano la Campania non a caso conservano il loro insediamento elettorale principale e la loro mole di relazioni in quell’area specifica della regione.
Ha fatto discutere troppo poco un’intervista di Paolo Cirino Pomicino, non certo un esempio di buon governo e di buona politica, recentemente – a volte ritornano… – nominato presidente della Tangenziale di Napoli, di qualche anno fa in cui dichiarava che nemmeno la Dc più compromessa degli anni 80 costruiva la sua tolda di comando politico ed economico in città come S. Antimo, Casal di Principe e Mondragone.
Luoghi dove era difficile per i maggiorenti democristiani persino andare a fare campagna elettorale, perché era meglio evitare di fare brutti incontri o collezionare fotografie imbarazzanti. Pomicino mostrava tutto il proprio stupore rispetto al fatto che Berlusconi avesse lasciato il partito di maggioranza relativa italiano nelle mani dei Cesaro, dei Landolfi e dei Cosentino in un luogo nevralgico come la Campania: perché accadeva tutto questo? È evidente che il Cavaliere ha pagato un prezzo, elettorale ma non solo. I signori dei rifiuti hanno fatto vincere la campagna elettorale delle politiche del 2008, anche perché come ha scritto più volte Roberto Saviano avevano la possibilità di muovere i fili dell’emergenza a loro piacimento, accreditando persino l’idea di una sequenza di crisi indotte dall’esterno, prima ancora che figlie di un ciclo industriale dello smaltimento incompleto e fallimentare. Forse dovremmo riavvolgere il nastro e tornare indietro di qualche anno: il governo Prodi crolla nell’opinione pubblica per l’incapacità conclamata a risolvere la crisi dei rifiuti.
Bassolino e la sua esperienza