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Rimani con me. Operazione Kapo.: Saga Operazione Kapo, #1
Rimani con me. Operazione Kapo.: Saga Operazione Kapo, #1
Rimani con me. Operazione Kapo.: Saga Operazione Kapo, #1
E-book392 pagine5 ore

Rimani con me. Operazione Kapo.: Saga Operazione Kapo, #1

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Info su questo ebook

La vita di Adriana cambiò per sempre con la morte improvvisa di sua madre quando aveva solo nove anni. Sentendosi responsabile di un padre distrutto dalla perdita di sua moglie e una sorella troppo piccola per rendersi realmente conto di quel che succedeva, Adriana decise di prendere le redini della sua piccola famiglia, facendosi carico di tutto.

Los Kapo è una pericolosa organizzazione criminale russa molto ben strutturata che opera in Spagna da più di quindici anni. Prostituzione, furti, estorsioni, traffico di stupefacenti, reclutamento di membri, immigrazione illegale sono solo una parte delle loro attività illegali. L’apertura dell’Operazione Kapo è un durissimo colpo per il gruppo mafioso.

L'inizio dell'Operazione Kapo fu un duro colpo per l'organizzazione. Poliziotti e pubblici ministeri iniziarono così un’investigazione senza precedenti per arrivare alla detenzione del boss, el Mecenas, un uomo senza scrupoli guidato dalla vendetta e con un interminabile desiderio di consumarla.

Nella vita adulta di Adriana passa Angel, un uomo dalle forti convinzioni, che combatte una dura battaglia interiore tra il desiderio di averla al suo lato e allontanarla per proteggerla. Le loro vite, ad ogni modo, finiranno per aggrovigliarsi in una maniera tale che il passato più lontano e la resa dei conti della mafia russa inevitabilmente decideranno per loro.




 

LinguaItaliano
EditorePILAR SC
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9781393604730
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    Anteprima del libro

    Rimani con me. Operazione Kapo. - PILAR SC

    Rimani con me

    Operazione Kapo

    ––––––––

    da

    PILAR SC

    Copertina: Disgno di © Sara García

    Titolo originale: Quédate conmigo. Operación Kapo

    Traduzione itailana: Monica Uncini

    Copyright © María Pilar Salazar Calle 2017

    Seguire l’autore:

    Blog: https://ladycapricciosa.blogspot.com

    Linkedin: https://es.linkedin.com/in/pilarsalazarcalle

    Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale di questo documento con qualsiasi procedura elettronica o meccanica, tra cui fotocopia, registrazione magentica e ottica o qualsiasi sistema di memorizzazione o sistema di recupero è completamente vietata senza l’autorizzazione dei proprietari del copyright.

    Dedicato a mio padre,

    il pilastro piu’ importante della mia vita,

    che supporta il mio lo piu’ puro.

    AVVERTIMENTO

    ––––––––

    Tuti i personaggi che compaiono in questo romanzo, i loro nomi, descrizoni, personalità, signolarità fisiche, stilismi, così come il modo in cui agiscono, si riferiscono, pensano, vivono o si sviluppano nel loro giorno per giorno sono assolutamente e indiscutibilmente fittizi.

    Le situazioni descritte in esso, insieme con le esperienze e l’esperienza sono semplici artifici di un’immaginazione, sopraffatta da un eccessso di creatività e ingegno, incarnata in carta. Qualsiasi somiglianza con la realtà è pura coincidenza.

    "Un bravo scrittore possiede, non solo la propia intelligenza,

    ma anche quella dei suoi amici"

    Friedrich Nietzsche

    ÍNDICE

    PROLOGO

    QUELLO CHE IMPARAI

    FOLLIA PERMANENTE

    15, 30 E 50 ANNI

    OSSESSIONE

    CAMBI

    OSCURE AVVERTENZE

    LA MIA NUOVA VITA

    PERSECUZIONI

    NUOVE EMOZIONI

    IL PIANO

    CONFUSIONI

    AVVERTIMENTI

    VISIONI

    ULTIMATUM

    CONFESSIONI

    PECCATI

    VITTIME

    LUSSURIA

    RUBEN

    IRA

    CAMMINI DIFFERENTI

    LEZIONI

    RIVELAZIONI

    TRADIMENTI

    LOTTE

    AFFARI

    INSIEME

    TRANSAZIONI

    LA CATTURA

    A CACCIA

    LA TRAPPOLA

    DOPO LA TEMPESTA...

    IN FLAGRANTE

    RESTA CON ME

    EPILOGO

    SULL’AUTORE

    PROLOGO

    Kirill

    Ero disorientato, meravigliato, in trance. La macchina era esplosa davanti ai nostri occhi con una furia selvaggia. In pochi minuti quello scheletro di ferro e plastica era diventato un groviglio di fuoco e fumo che si espandeva freneticamente in ogni direzione. Le fiamme lambivano furiose il veicolo, bruciandolo senza pietà, riducendolo al nulla poco a poco.

    Le grida della donna che si trovava al suo interno erano inquietanti, laceranti, come lo stridio di un’unghia affilata che graffia una lavagna. Agghiacciante. Non c’era nessuno che potesse soccorrerla, tranne noi, non muovemmo un dito, neanche un cenno. Mai avremmo osato! Impavidi, impassibili, contemplavamo la scena con un certo disprezzo; una vendetta crudele di quello che, per Damyan Mihaylov, el Boss, lì presente, era un tradimento imperdonabile. E che tradimento!

    Gli occhi mi bruciavano, non sapevo se fosse per quel fumo acre che pian piano ci avvolgeva o per l’emozione di vedere con i miei stessi occhi, e per la prima volta, la morte nella sua forma più vera e carnale. Sentì un brivido correre per tutto il corpo. E anche se non lo riconobbi in quell’istante, era solo l’inizio di un insaziabile e irrefrenabile desiderio di potere.

    Mi arrivò, scuotendomi dal mio torpore, l’odore della carne bruciata. Chiusi gli occhi e respirai intensamente quell’aroma così profondo e seducente. Sorrisi, non potei evitarlo.

    Quell’odore, mi ricordo vagamente la misera infanzia a Oymyakon, un maledetto e gelido paesino siberiano, dove il mio patrigno ci preparava succulente grigliate di topi, o qualsiasi animale trovasse, per evitare che morissimo assiderati. Nonostante quei ricordi, dovetti ammettere che davanti alla macchina in fiamme, quella fragranza mi sembrò il più ipnotico degli elisir, una vera ambrosia di piacere. Aprì nuovamente gli occhi e inchiodai lo sguardo su quella scena così intensa. Sentì il potere. Lo sentì fluire nelle vene come un virus le cui tossine si vanno impossessando velocemente del corpo, della mente e della volontà con letale precisione. Mi sentì magnanimo. E anche se non ero l’autore di quel delitto, mi sentì riconoscente per poter essere presente e ammirare lo spettacolo, come se fossi il padre di un tal prodigio. Magari fossi stato io l’Esecutore! Soffocai una risata che minacciava di scoppiare fragorosa e sorrisi con noncuranza. Quell’esecuzione era per me rivelatrice.

    Quella donna, le cui implorazioni erano state completamente inghiottite dalla violenta furia del fuoco, era stata un’idiota. Chi oserebbe sfidare el Boss? Chi, con un po’ di sano giudizio, poteva credersi capace di sfidarlo senza nessuna conseguenza? Non conoscevo bene la storia però, se el Boss partecipava all’esecuzione, era perché’ a quel tradimento non riconosceva neanche l’ombra di un possibile perdono. E se cosi’ era, la perfidia, che aveva portato quella donna a essere uccisa in una maniera cosi’ crudele e disumana, doveva essere stata estremamente subdola... ed io volevo saperne di piu’!

    El Boss raramente si presentava a questo tipo di eventi. Non ne aveva motivo. Confidava nella sua famiglia, così ci chiamava, e lo faceva perché’ ci ricompensava lautamente e perché’ gli avevamo dimostrato assoluta fedeltà in moltissime occasioni, anche a costo della nostra stessa vita. Senza domande e senza rancore. Mai lo avevamo deluso.

    El Boss era un uomo compassionevole ma non stupido. Sapeva che il denaro poteva comprare tutto, incluso il silenzio, per questo pagava generosamente ognuno di noi. Rispettavamo i suoi comandi senza chiedere, e lo facevamo con ordine, rapidità e obbedienza. Di questo si trattava. Lui era il patriarca, il capo, e lo dimostrava in ogni occasione.

    Il fatto che fosse presente a quell’esecuzione diceva molto del tradimento di quella sciocca. E il fatto che solo in pochi fossimo lì ad accompagnarlo dimostrava la fiducia che riponeva in noi. I suoi protettori, la famiglia più vicina, di sangue, erano gli unici, insieme a Sergey e Sasha, che lo accompagnavano negli eventi più significativi. Io ero lì per caso, per un errore del destino. Però el Boss neanche si era accorto della mia presenza, la rabbia appannava quasi totalmente la sua capacità di ragionare. O forse, semplicemente non gli interessava! Non lo so. Preferì comunque rimanere in secondo o terzo piano, senza scoprirmi, però non me ne andai. Volevo visualizzare dall’inizio alla fine quell’esecuzione. E, se possibile, volevo scoprire cosa diamine avesse fatto quella donna per suscitare quell’odio e quella collera che l’avevano portata nelle mani della morte stessa. Ero ansioso di vedere e imparare.

    Rada, la donna di Mihaylov, era tra Iva e Andrei, due dei suoi tre protettori. Il suo viso era un misto di dolore, furia e vanità che non riuscivo a decifrare con certezza. Ero disorientato poiché’ mai, per quel che ricordavo, era presente nelle esecuzioni, indipendentemente dall’identità del condannato. Quel fatto, già di per se’, era unico e incredibile.

    Un altro fatto, anche se quasi impercettibile, alimentava il mistero. Rada afferrava, turbata, la mano di Iva. Questa neanche la guardava, semplicemente ignorò, leggermente infastidita, il gesto e continuò a contemplare la macchina in fiamme. La debolezza era un qualcosa che non ci potevamo permettere davanti a el Boss. Nessun sentimento era permesso. Nessuno era fuori dalla sua portata e la debolezza non era perdonabile. Al contrario, era un tradimento in piena regola e meritava la morte.

    Con un gesto rapido e impeccabile, Iva si liberò di quell’abbraccio. Rada la guardò con la coda dell’occhio ma lei rimase totalmente indifferente. Lacrime! Rada stava piangendo! Si pulì il viso con il dorso della mano, indurì lo sguardo e recuperò la sua compostezza. Tornò a guardare la macchina, o meglio, quel che ne rimaneva. Il fuoco aveva incenerito tutto, anche il corpo della sua amica. Già non traspariva dolore dallo sguardo di Rada, soltanto rabbia e disprezzo. Era una donna sorprendente, facile da leggere ma difficile da decifrare. Era imprevedibile, e questo non mi piaceva.

    El Boss si era girato verso di noi. Io ero abbastanza lontano, ero quasi sicuro che neanche mi vedesse. Trattenni il respiro e aspettai ansioso di vedere cosa sarebbe successo.

    –Non voglio che questo succeda di nuovo –disse con voce profonda, mentre guardava sua moglie– Non lo permetterò.

    Rada tremava. Forse per paura. Forse perché’ non aveva mai visto suo marito così furioso.

    –Voi –e guardò uno per uno, tutti i presenti, tranne me che ero nascosto dietro una delle macchine–. Appartenete alla mia famiglia per sangue o per lealtà. Non permetterò mai più –continuò, dopo una breve pausa, pronunciando con enfasi le ultime parole–. L’insolenza che questa donna ha portato nella mia famiglia. So che Rada ha un cuore sensibile –confessò guardandola con un miscuglio di compassione e amore, come guardasse una bambina vulnerabile e indifesa–, però la amo. Da oggi, e vale anche per te amore mio, non voglio più sentir pronunciare il nome Sara Bravo in mia presenza. Mai più! Per chi oserà farlo lo giustizierò con le mie stesse mani e nella maniera più dolorosa che possiate mai immaginare. E tu –disse indicando con il dito sua moglie– non voglio più sentirti piagnucolare per una tua presunta amica, qualsiasi cosa dica o faccia, capito? –Rada, terrorizzata, annuì con un leggero movimento del capo–. Sei abbastanza cresciuta per risolvere da sola le tue miserie.

    –Sergey!! –sbraitò Mihaylov dirigendosi verso la macchina, dando per concluso il cerimoniale–. Dai a mia moglie dieci frustate, ma non lasciare troppi segni. Sai che non sopporto i suoi lamenti.

    QUELLO CHE IMPARAI

    Adriana

    La mia infanzia non è stata particolarmente frivola e innocente. Non che sia stata così terribile. Solamente è stata diversa da ciò che si considera normale.

    Mia madre morì quando io ero una bambina e, avendo solo una sorella più piccola, mi son vista obbligata ad occuparmi della casa molto presto: pulizia, pasti, stirare, orari, fatture ...

    Mio padre, nonostante lo adori con tutta l’anima, è il perfetto esempio di un completo disastro. E come chi si chiude nella sua corazza quando qualcuno o qualcosa lo terrorizza, mio padre si rifugiò nel suo lavoro. Passò dal lavorare dieci ore al giorno a sedici o diciotto, se andava bene.

    Quello stupido incidente d’auto non solo ci aveva portato via nostra madre, ma estirpò anche una parte di noi. Nel caso di mio padre, la fede. A mia sorella, la verità. Nel mio... beh, nel mio caso mi strappò l’infanzia. Passai dal fare cose normali per una bambina di nove anni al dovermi assumere delle responsabilità' di un’adolescente di venti. Così, di colpo. E non che mio padre me lo abbia imposto; non lo fece, no. Mio padre non pensò a questo. Non pensò più a nulla. Lui, semplicemente, iniziò a lavorare come un pazzo, dimenticandosi che doveva prendersi cura delle due figlie piccole. Per essere sincera, dimenticò di averne; eravamo la sua unica famiglia.

    Furono le circostanze che mi obbligarono a farmi carico della casa, di mia sorella e, sì, anche di mio padre. Furono queste stesse circostanze che mi obbligarono a cercare di apparire come una famiglia normale. Sempre le stesse che mi obbligarono, per questo motivo, a festeggiare ogni compleanno come un qualcosa di molto speciale: con torta al cioccolato, palloncini, candele e regali, ovviamente. E furono sempre le stesse stramaledette circostanze che mi spinsero a obbligare mio padre a promettermi di essere presente a quelle feste disastrose, anche se solamente con il corpo e non con la mente, perché in verità, da quando mia madre era morta, non era più lo stesso. A malapena mangiava. Non rideva. Non parlava. Girava per casa come un sonnambulo in pena. Neanche i miei abbracci o i miei baci potevano consolarlo. Piangeva di continuo. Piangeva e mormorava ancora e ancora il nome di mia madre. Non ero più la sua adorata principessina. Era un uomo distrutto, aveva perso l’anima in quell’odioso incidente.

    Con il tempo, imparai varie cose su me stessa che rimasero impresse, come un marchio a fuoco lento, sotto la mia pelle. Una di queste è la mia inevitabile avversione per le auto. Sentivo un rancore terribile. Mi muovevo sempre a piedi, in metro, autobus, aereo, bicicletta, pattini e anche in treno ma mai in macchina. Mai. Per nessun motivo. Ed è curioso, mia sorella Cristina in questo era l’esatto opposto. Adora le macchine! Le ama. Venera questi ammassi di ferro e gomma bruciata più di qualsiasi altra cosa. Le tratta come fossero persone cui può raccontare gioie e dolori; sangue del suo sangue.

    Il suo Mustang Shacker del ’68, il suo occhietto destro, è la sua più grande felicità, il piccolo di casa, la sua vita, la sua ragione di vivere. Ancora mi fischiano le orecchie al pensiero delle sue grida il giorno che mio padre le diede le chiavi di quel magnifico cavallo selvaggio (queste sono le esatte parole della mia sorellina giusto prima di gridare contro tutti i venti e saltare come una pazza per tutta casa, con le chiavi in mano). Se qualcuno tocca il suo Mustang può considerarsi morto.

    A parte le macchine, e con questo non voglio dire che lo stia facendo anche ora, non è questo il caso, imparai a mentire. Lo feci per proteggere mia sorella e per giustificare davanti a lei, tra le altre cose, gli stranissimi comportamenti di mio padre. All’inizio furono bugie pietose: mamma è dovuta partire per un lungo viaggio e non so quando tornerà (con gli anni, la povera si stancò di chiedermi dove fosse), papà ha moltissimo lavoro e non può leggerti un racconto, papà ti vuole molto bene (questo iniziavo a dubitarlo anch’io). Con gli anni, queste bugie divennero delle calunnie grottesche e senza senso che, per mia tranquillità, lei credeva vere. Non so bene se lei ci credesse perché’ capiva la mia difficile situazione o per un semplice ma disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa e le mie chimere le bastavano.

    Mentivo anche a scuola, davanti a professori e compagni, per salvaguardare una forza che già non vedevo più in mio padre, per proteggere la reputazione di mia sorella in classe e soprattutto per giustificare le mie numerose assenze; che erano ben compensate dai voti alti, un’attitudine docile e infiniti falsi sorrisi, ciò sembrava bastare alla direzione.

    Ho sempre avuto la convinzione che loro realmente sapessero molto di più sulla mia situazione familiare di quello che davano a vedere; ciò mi porta alla terza cosa che imparai e l’avevo impressa a fuoco: non mi fido delle persone. Fare dei cambi nella mia vita era impossibile. Le compagnie di luce, gas, acqua e telefono a casa mia erano le stesse da sempre. Cambiarne una significava per me dover puntare su un’impresa cui non credevo, e neanche volevo tentare di farlo. Sempre mentivano, o almeno a me sembrava, quindi mi accontentavo di quel che avevo e vivevo tranquilla cosi’.

    Amici? Beh, è evidente che non ero capace di farmeli. Non saprei neanche da dove iniziare; non credo sia semplice come preparare dei pasticcini o una torta. Non mi fidavo della gente, quindi era impossibile avvicinarmi a qualcuno e tanto meno lasciare che siano loro a farlo. Andavo a scuola, frequentavo le lezioni, riprendevo mia sorella, e tornavo a casa per studiare, preparare la cena, pulire, stirare, pagare le fatture e preparare tutto per il giorno dopo, che era l’esatta copia di quello anteriore. Credo che, anche se avessi voluto, non sarebbe stato possibile farmi degli amici. Non ne avevo il tempo. Tutta la mia giornata era impegnata tra studio e famiglia. Non potevo permettermi di essere egoista e pensare ad altro. La mia famiglia non se lo meritava, aveva bisogno di me.

    Così ora, con ventiquattro anni, degli studi di diritto alle spalle e un lavoro di cui mi sento orgogliosa e che mi rende davvero felice, non ho la minima idea di cosa si prova ad avere un amico vero. Non so nemmeno come sia averne uno qualsiasi.

    Neppure so cosa è l’amore e, pertanto.. neppure i baci. E non mi riferisco ai baci di mia sorella o a quelli che mi dava mio padre (quelli di mia madre neanche li ricordo), ma ai baci veri, a quelli che ho visto infinite volte nei film d’amore o quelli di cui tante volte ho letto nei romanzi, in cui mi perdo tutte le notti. Questi sono i baci di cui parlo; quelli che ti fanno perdere i sensi, quelli che ti fan drizzare i peli, ti fan venire le farfalle allo stomaco e non ti lasciano dormire; quelli che ti tolgono l’appetito ma ti nutrono allo stesso tempo; quelli che provocano sul tuo viso un sorriso ridicolo di cui vuoi solo vantarti. Questi baci. Baci veri, d’amore.

    Questo mi porta a confessarvi un’altra cosa che imparai con il tempo: a essere curiosa, troppo. La mia curiosità per sentire e vivere supera il razionale. Credo si possa comparare a una malattia come la cleptomania o il Parkinson; ero totalmente incapace di controllarmi. E’ un paradosso, un assurdo del mio subconscio, che giustifico con la mancanza di esperienze nell’infanzia. E’ cronico, lo so. Questa carenza mi ha spinto con gli anni a voler sentire costantemente nuove sensazioni: le vertigini delle montagne russe, la sensazione di sparare a paintball, lanciarmi con un paracadute, sentire la marea in barca, cadere sciando. Sensazioni! Sentire! Voglio solo sentire ed è questa stessa necessità di soffrire e vivere, apparentemente intrinseca in me, che mi ha condotto fin dove sono ora: nascosta nell’armadio delle pulizie del mio ufficio alle otto di un giovedì sera.

    Cosa mi ha fatto finire qui? La sfacciataggine del presuntuoso Rubén che, animato da un insensato entusiasmo, mi ha fatto la domanda per la quale sospirano molte femmine che conosco, tranne me, in un giorno come oggi (mio padre compie cinquant’anni e mia sorella ed io vogliamo festeggiarlo in maniera davvero speciale): vuole invitarmi a cena. Perché l’ha fatto? Per la mia indisciplinata curiosità.

    Solo a me succede di rimanere a guardarlo, imbambolata come una stupida, mentre mordicchiava quel delizioso croissant. Era così ipnotico vedere quella noce salire e scendere ad ogni morso che dava a quel dolce, che non potevo evitare di fissarlo, senza neanche batter ciglio. Erroneamente, quella mia alienazione mentale passeggera lo portò a pensare che quel movimento mi eccitasse e, ancor peggio, mi piacesse. Si sbagliava. Beh, di questo ho cercato di convincerlo per tutta la mattina però, ovviamente, lui non ci credeva visto che da più di mezz’ora mi cerca per tutto l’ufficio per raggiungere il suo scopo e sa che non me ne sono ancora andata perché, come una stupida, ho lasciato la luce accesa e la borsa sul tavolo. «Merda!»

    Stufa di quel giochetto e con il tempo agli sgoccioli, sbircio dalla fessura della porta di quello sgabuzzino che odorava di ammoniaca. «Non ci posso credere! Quel presuntuoso sta frugando nella mia borsa!». Sposto i fili dello spazzolone che mi era appena caduto in testa e continuo a guardarlo arrabbiata. «Che diamine sta facendo?» Confusa, osservo come il mio collega prende il mio cellulare e inizia a digitare qualcosa. «Cosa fa? Che crede di fare?» Pronta a uscire come un uragano dal mio nascondiglio e a mettere i puntini sulle I, vedo come rimette il cellulare al suo posto e se ne va. Così. Indifferente, come se in un secondo avesse perso interesse. Sconcertata e, devo riconoscere, con l’adrenalina alle stelle esco da quel buco buio e mi dirigo cauta verso il tavolo, quasi mi aspettassi una sua apparizione. Raccolgo le mie cose frettolosamente senza distogliere lo sguardo dalla porta dell’ufficio, prendo la giacca di jeans ed esco di corsa.

    Correndo per strada come fossi inseguita dal diavolo in persona, guardai l’orologio che mi regalai con il mio primo stipendio (un preciso Lotus di acciaio inox e sfera rotonda) e contemporaneamente dietro di me: più per verificare che nessuno mi seguisse che per assicurarmi che lo stesso Rubén non lo facesse.

    Mentre cerco le chiavi di casa tra le mille e una cosa che porto sempre nella borsa, la mia respirazione inizia a rallentare. Presa dalla ricerca, sorrisi al pensiero di quanto fosse incredibile che il ragazzo più bello che avessi mai visto mi avesse chiesto un appuntamento. Una cena! Chiaramente, proprio perché il più bello, mi sono nascosta come una codarda in quello stanzino di un metro e mezzo che quasi mi soffoca con i suoi odori chimici, ed è che, se già trovo difficile fidarmi della gente, è ancor peggio con uno come Rubén. Tutte le persone coscienti di essere cosi incredibilmente affascinanti di solito sono superficiali. Non ho bisogno di nessuno così nella mia vita, né lo voglio né mi serve.

    Avevo visto Rubén in infinite occasioni flirtare con la receptionist, con le stagiste e anche con qualche amministratrice. Perfino alcune clienti erano state un chiaro obiettivo del suo gioco di seduzione. Il fatto che ora stesse flirtando con me neanche mi sorprendeva, sembrava essere la logica continuazione della sua catena alimentare; ed era così che vedevo me stessa in quel momento, una preda in più per alimentare il suo ego.

    Immaginavo Rubén come un chiaro segnale di pericolo, circondato da ondeggianti bandiere rosse e con lampeggianti luci neon, in cui poteva leggere a caratteri cubitali la parola PROIBITO. A chiare lettere: era un frutto proibito, la perdizione, l’ecatombe, un disastro assicurato.

    No, Rubén non rientrava nei miei piani, né in quelli immediati né in quelli futuri. Era una distrazione che non potevo permettermi e, chiaramente, non ero disposta  a concedergli il piacere di... cacciarmi.

    Trovando le chiavi e guardando nuovamente l’orologio, mi rimprovero per aver perso del tempo prezioso per un pensiero così stupido. Anche se riconosco che mia sorella Cristina sarebbe orgogliosa di me. No, non tornerò a lasciarmi ammaliare da uno come lui, assolutamente. Avevo una dignità, per Dio, e mi ero nascosta come un topo spaventato.

    Salgo le scale più velocemente che posso e prego perché, a parte il ritardo, non voglio essere il motivo per cui mio padre si tiri indietro. Erano quasi le otto e mezzo e avevamo prenotato per le nove al ristorante "Horcher" vicino alla Porta di Alcala’ di Madrid, quindi dovevo sbrigarmi.

    FOLLIA PERMANENTE

    Kirill

    Sono stufo! Un giorno el Boss dovra’ cambiare opinione. Non puo’ obbligarmi a fare sempre questo. Lavoro bene, ne sono certo, però lo detesto. Detesto quello che faccio! Mi annoia e non mi soddisfa minimamente. Io voglio essere un Esecutore, come Sergey. Non chiedo altro! Voglio solo uccidere ed essere elogiato per questo. Caligola, Nerone, Attila, Ivan il Terribile... Tutti loro furono dei re sanguinari che rimasero nella storia! Grandi tra i grandi! Monarchi dalle sproporzionate aspirazioni. Impeccabili, fermi, sanguinari. Decisi nei loro disegni e instancabili fino al loro completo compimento. Loro sì che erano liberi! Erano rispettati! Li veneravano come Dei. La gente li guardava con paura. Con rispetto! Sì era così. Li guardavano con ammirazione. Si guadagnavano la sottomissione dei loro con fiumi di sangue. Loro sì che sapevano agire. Sapevano governare. Si facevano sentire. Si facevano notare. Sì, decisamente voglio essere Esecutore.

    Negli ultimi mesi ho mutilato e annientato più persone di quante possa ricordarne con un piacere al limite della decenza. Coltelli, seghe, martelli, grimaldelli... Ho usato strumenti di ogni genere per amputare una parte di quei miseri e inutili corpi ed esigere quei soldi che, da troppo tempo, si rifiutavano di darmi. Se lo meritavano. Meritavano di agonizzare come animali, urlare fino a rimanere con un filo di voce, supplicare un po’ di clemenza. Dovevano morire per quello che erano: dei codardi. Non volevano pagare i loro debiti! Gli imbecilli non prendevano sul serio le mie minacce. Provai a essere buono con loro ma non mi credevano, non mi rispettavano. Se facessi come Sergey, se prendessi possesso del suo titolo, le cose sarebbero molto diverse. Potrei uccidere a sangue freddo senza che nessuno osi guardarmi dall’alto in basso. Mi venererebbero! Oh, chiaro che mi venererebbero! Farei in modo che mi rispettino. "Odino, puerche’ temano" come spesso ripeteva Caligola nella sua vita.

    Le cose cambieranno. Avevo davanti a me una magnifica opportunità e non pensavo assolutamente di sprecarla. Sarò Esecutore a qualsiasi costo. Conquisterò quel posto con il sudore e con il sangue. Mihaylov non avrebbe più potuto ignorarmi. Sarebbe stato costretto a promuovermi. Gli avrei fatto un enorme favore che non avrebbe potuto passare inosservato. Gli consegnerò la testa di questo zoticone infame su un vassoio d’argento. Metterò quella vita nelle sue mani. Lo renderò partecipe della sua distruzione. Se necessario, gli consegnerò anche la sua famiglia, i suoi figli, i suoi amici, i suoi colleghi.. gli darò la mia stessa anima se così mi darà quello che desidero! So che lo sta cercando. So che quel poliziotto era nel suo mirino. Tanto tempo e tanto odio accumulato negli anni non potevano rimanere impuniti. Il suo destino era scritto. Era scritto allora ed è firmato e sigillato ora. Non so, e neanche mi importa, cosa ha scatenato questa sete di vendetta né perché proprio ora. Non mi interessano i dettagli. Vuole la sua testa e la sua testa avrà. Farò in modo che sia così.

    El Boss, traviato da un desiderio di rivalsa che scorre nelle sue vene ad una velocità esponenziale, rivoltò completamente le strade della città. Posseduto dalla necessità di placare in qualche modo la sua furia, ha obbligato Spione, storpi e Esecutori a smantellare la città. Los Delegati sono inquieti perché le loro squadre non stanno dando le risposte necessarie e, per questo, el Boss è incapace di trovare la pace. I nervi li stanno tradendo tutti e stanno commettendo errori imperdonabili. Così mi accorsi delle intenzioni di Mihaylov. Così seppi che lo stavano cercando. Che stupidi! El Boss è inquieto, come un animale in gabbia, e presto voleranno altre teste. Questo mi spianerà così il cammino. Oh, sì che lo farà.

    So che alcune Spione sono facili da corrompere e sciolgono in fretta la lingua se il compenso è appropriato. Questa notte ne cercherò una con cui sfogare la mia lussuria poi la farò parlare. Se non sa nulla, ne cercherò un’altra. Qualcuna deve pur sapere qualcosa di questo stupido poliziotto! Qualcuna deve aver visto qualcosa! Nessuno scompare così come se niente fosse.

    Se le puttane non sanno nulla cercherò tra i senza tetto. Se neanche loro parlano, farò pressione su qualche tossico. Qualche vecchio Spione sapra’ qualcosa. Le Spione sono gli occhi della città. Una di loro deve aver visto qualcosa che mi possa servire. Una di loro deve sapere.

    Una di loro sicuramente mi darà l’informazione di cui ho bisogno. Mentecatti! Le conviene darmela».

    "...Almeno una dozzina di detenuti della nota organizzazione mafiosa russa Los Kapo in una complicata operazione della Polizia Nazionale Spagnola.

    Nel dispositivo, iniziato alle cinque della mattina, partecipavano piu’ di venti agenti di polizia.

    Si calcola che i detenuti hanno commesso un minimo di otto furti a privati, diciotto omicidi con diverse armi bianche e innumerevoli delitti di concorso e  integrazione con l’organizzazione criminale.

    Un ufficio mobile dell’Europol e numerosi agenti francesi dell’Unita Crimine Organizzato sono arrivati in Spagna per intervenire, in collaborazione con la Polizia Spagnola, in un dispositivo senza precedenti.

    Due agenti, che si recarono in Russia per raccogliere informazioni, sono i responsabili di un’operazione che, senza nessun dubbio, ha compromesso un’organizzazione che con gli anni e’ diventata sempre piu’ pericolosa, convertendo le sue pratiche delittive in sanguinarie.

    La Direzione Generale della Polizia e’ in allerta per il possibile arrivo in Spagna di altri mafiosi appartenenti all’organizzazione alla ricerca di vendetta.

    I Comandi Provinciali sono stati informati delle pericolose intenzioni di questi delinquenti. Secondo la Polizia, l’ordine dato ai membri dell’organizzazione e’ quello di attaccare, soprattutto, le autorita’ intervenute nel caso.

    L’operazione e’ aperta..."

    15, 30 E 50 ANNI

    Adriana

    L'Horcher è un ristorante squisito che ha sempre preparato- e prepara- una deliziosa pernice a la prensa, da leccarsi le dita. Beh, non letteralmente, anche se così prendeva forma nella mia immaginazione.

    Tutti gli anni da quando mia madre era morta, abbiamo deciso di andare lì. Lo decisi io, più che altro, che saremmo andati lì. Da quel che ricordo, è stato l’unico ristorante dove mio padre ci avesse portato quando eravamo piccole. Forse, per questo, lo presi come riferimento e lo adottai come tradizione

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