Passione Romana
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Anteprima del libro
Passione Romana - Luciana Cuncu
stessa
1
Era domenica otto marzo e Anna Colle Forte aveva appena terminato di presentare il suo ultimo libro. Lo aveva pubblicato nove mesi prima, ma da un anno la sua vita era stata interamente dedicata a lui, Bruno Dal Santo.
La primavera era arrivata acerba, impaziente, agitata, il vento squassava le neonate foglie non ancora cresciute. Mentre si dirigeva verso la sua abitazione pensò quasi ad alta voce: «Meno male, per oggi è finita».
Dopo quella giornata donata al pubblico, aveva voglia di buio e di silenzio. Con mani tremanti cercò nella sua borsa, ne cavò la chiave con furia e la infilò nel buco della serratura del cancelletto, ma si spezzò. Una rottura, una seccatura, un contrattempo di quelli insopportabili. Dovette chiamare il suo vicino di casa per fare smontare il chiavistello, ci volle circa un’ora.
Entrò in casa, un piccolo appartamento all’interno del quale ogni dettaglio era stato scelto con cura. Lo aveva fatto diventare una sorta di nido di gusto classico, pensato per una single. L’arredamento, curato con mobili di antiquariato, creava un’atmosfera avvolgente che trasmetteva tranquillità. Nel soggiorno un tavolo fine ottocento inglese aveva attorno quattro sedie dal tessuto damascato. In un angolo della stanza due divani monocromatici, sopra uno di essi vi erano sparsi cuscini colorati, dietro la poltrona bergère sovrastava un mobile biedermeier sul quale erano poggiati una coppia di candelieri di fine settecento. Sulle pareti una raccolta di quadri di varie epoche ben si adattavano all’ambiente. Morbidi tappeti persiani ricoprivano il pavimento. Tra i pochi oggetti sparsi per la casa spiccava un vaso cinese della dinastia Qing posato su un trumeau dello stesso periodo. Tutte le stanze erano connotate dai toni gialli. Gli oggetti e gli elementi della sua dimora rivelavano il suo animo antico. Non c’era nulla nella sua vita che non avesse già visto.
Ringraziò il cielo per avere un giorno in meno da trascorrere, aveva bisogno di riprendere fiato, pensò, torcendo le labbra con una smorfia di dolore, lo faceva quando era esasperata più del solito, era bastata qualche ora perché l’umore tetro, scacciato dall’evento letterario, la invadesse di nuovo.
Si era accasciata sulla poltrona, teneva gli occhi chiusi, il viso era stanco.
Anna aveva cinquantatre anni, era una bionda ancora molto bella, dalla carnagione candida, gli occhi verdi, a volte azzurri dipendeva dal cielo, dal mare, dal suo umore. Scriveva saggi e qualche volta racconti, con sé portava sempre un libro e una matita, quando sentiva l’urgenza di non perdere il flusso di coscienza lo versava sul suo iPhone. Energica, volitiva e romantica a modo suo, preferiva il saggio alla prosa e ai versi unicamente per l’esigenza di guardare in faccia la realtà.
Lo sguardo attento aveva la caratteristica principale di essere allegro, un’allegria che l’abbandonava di colpo mostrando una malinconia profonda.
«Ah, come odio questa vita!». Disse con un sospiro.
Stava attraversando un periodo nero e privo di sogni. Da quando lui non c’era più.
Da quando la moglie di Bruno aveva deciso che sarebbe andata con lui a New York.
Sembrava una commedia melodrammatica. Era stata Anna a infondergli coraggio riguardo a quella scelta decisiva per la sua carriera.
«Non avrai una seconda possibilità, forse la più difficile dopo quella di farsi assumere. Questa non l’hai mai presa in considerazione, pensaci e non gettarla via». Disse Anna in quella serata di fine novembre, mentre stavano abbracciati sotto le lenzuola.
«Sì lo so, ma non sono sicuro di farcela, tre anni sono tanti».
«Sì che puoi farcela, devi convincerti che ce la farai, anche se non ci credi… Sarà come essere in vacanza, la vita che conduci a volte è così scialba, così noiosa».
Ma una volta firmato il contratto, sua moglie, già irritata dall’idea di lui lontano, con l’apprensione tipica di certe donne gelose che vedono spuntare una nemica, una rivale in ogni angolo, aveva deciso improvvisamente di prendersi un anno di aspettativa dal lavoro, per partire con suo marito insieme alla loro figlia quindicenne. Era il suo modo di amarlo: porre il controllo.
Ispirata da una specie di devozione infastidita, più che amore era persecuzione, lo marcava stretto, lo strumentalizzava, come se si trattasse di un suo oggetto personale.
Lui la lasciava fare, assecondava tutto in lei. Pensava fosse quello il mezzo per essere felici. Forse, perché tranne alcuni sporadici momenti di pace, era dominato da una costante inquietudine, una specie di turbamento che si impadronisce dell’uomo quando si vede deputato a garantire la sicurezza, la spensieratezza ad altre persone, ma alla fine, quella che poteva sembrare felicità in fondo lo affliggeva. A volte la sua esistenza sembrava modellata da istanti levati con fatica al lavoro, alla famiglia e talvolta offerti alla sua amante, attimi così fugaci, in cui spesso, tutta la delizia si guastava sul nascere.
Con sua moglie aveva conosciuto la maledizione congenita al matrimonio: liti senza causa, che esplodevano nel bel mezzo della quiete, all’inizio sono poco frequenti e provocano vergogna, ma poi finiscono per impadronirsi del tempo e della vitalità della coppia.
Lui e sua moglie, l’infattibilità assoluta di conciliare caratteri inconciliabili. Parlavano tra loro mascherando i veri sentimenti, le aspirazioni, le emozioni, i bisogni. Nella loro vita, fin dal mattino c’erano diverse giornate in cui tutto sembrava mal riposto, triste e grigio.
Bruno aveva quarantotto anni. Passava la vita esitando tra una voglia di isolamento e quella di vicinanza. Alto, di corporatura asciutta e giovanile, con i capelli ancora tutti neri e morbidi come quelli di un neonato, la pelle olivastra, il viso duro, con il naso ossuto, baffi, e una piccola barba a ornare il mento. Gli occhi non chiari ma neanche scuri erano intensi, pativano di una specie di indolenza dell’anima. Lo sguardo appariva a volte esigente, altre dolce o svigorito. Aveva belle mani, che mentre parlava muoveva armoniosamente, e incrociava dietro la nuca. Quel gesto, dopo tanti anni che lo conosceva, irritava sua moglie. Lei gli chiedeva sempre:
«Che cosa hai fatto tutto il giorno».
«Mille cose».
«E cioè…».
«Oh, senti Maria non vorrei parlare di lavoro, piuttosto dimenticarlo».
«Perché hai delle preoccupazioni?».
«Ma no! Cerca di capire, un uomo può essere logorato dal proprio lavoro, hai idea di quanto mi sia detestabile Roma in questo periodo?».
«Ma non ti rendi conto della tua fortuna? Io lavoro fuori casa ma ho anche tante incombenze domestiche, la figlia di cui ti occupi poco, il pranzo, tutto questo non sarà certo migliore».
«Sì», disse lui. Ma già non l’ascoltava più.
Vivevano in una casa acquistata diversi anni prima. Vi avevano fatto dei lavori di ristrutturazione. Mobili classici, parquet nei pavimenti, porte chiare, questi gli elementi ricorrenti all’interno di tutte le stanze. Maria sistemava i vestiti in maniera scrupolosa nell’armadio della camera da letto, dove le pareti grigie ponevano in risalto il bianco assoluto del letto in stile fin de siècle, che Bruno metteva in ordine dopo avere dormito per qualche ora nel pomeriggio. Su un tavolino la collezione di statuine devozionali e un grande rosario provenienti da vari santuari, rivelavano l’osservanza esagerata e ostentata, probabilmente senza intima convinzione, di Maria nei confronti della religione cattolica.
«Mi vuoi bene?». Gli chiese la donna emettendo un lieve sospiro.
«Sì, certo, che domanda!». Rispose secco lui.
«Perché rispondi senza guardarmi negli occhi?».
Bruno guardò sua moglie, teneva il capo chino, i capelli corti e scuri erano ancora belli e forti, il collo un tempo delizioso segnato da alcune rughe, reggeva un viso stanco.
«Ma dai! Stasera sei più cupa del solito. Hai come un risentimento angosciato».
«Sì, vorrei che tutto restasse sempre uguale. Sono così stanca dell’inatteso!».
«Tu vorresti che noi restassimo immobili invece di vivere… E domani di nuovo l’ufficio!».
Lei lo guardò sorpresa dal suo tono irritato.
«Tu invece cosa vorresti?». Chiese sua moglie con una nota animata.
«Un’esistenza che non si consumi tutta tormentata dai soldi, dal lavoro sempre uguale… vorrei poter cambiare qualcosa… andare a New York, per esempio. Mi hanno offerto la possibilità di fare carriera, ma ci dovrei stare tre anni».
«Ma tu…», fece lei ironicamente, «non saresti affatto più felice a New York». Conosceva Bruno, sapeva che era abitudinario, e questo le dava buon gioco nel tenerlo legato.
«Forse, ma devo provare…