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Incisioni: Il primo incarico del medico legale Nally McBag
Incisioni: Il primo incarico del medico legale Nally McBag
Incisioni: Il primo incarico del medico legale Nally McBag
E-book313 pagine4 ore

Incisioni: Il primo incarico del medico legale Nally McBag

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Info su questo ebook

Nally McBag è un giovane medico legale al primo incarico come sostituta ed è molto più romana di quanto il suo nome possa lasciar intendere. È sboccata, misantropa, ama avere a che fare con i cadaveri e soffre di attacchi di panico. Viene accompagnata dagli agenti del commissariato di Tor Vergata ad analizzare il cadavere di un uomo facoltoso, trovato nel giardino della propria abitazione con un braccio amputato. Quel braccio presenta un’incisione. E quell’incisione è solo la prima di una lunga serie di sfide lanciate da una mente sadica.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2023
ISBN9788893693622
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    Anteprima del libro

    Incisioni - Antonella Bagorda

    Prologo

    L’uomo sedeva su una sedia rivestita in pelle nera, di quelle classiche da sala riunioni. Strofinava una mano sul ginocchio e il busto dondolava avanti e indietro con movimenti quasi impercettibili. Sembrava intimorito come non lo si era mai visto prima. Un braccio fasciato e il collare cervicale lo rendevano rigido fisicamente, più di quanto avesse già mostrato di esserlo dentro.

    Il poliziotto insisteva perché l’uomo continuasse a raccontare, soffermandosi su tutti i minimi particolari. E ogni volta che sembrava aver concluso lo invitava a ricominciare da capo, con la speranza che quel loop interminabile fosse il giusto metodo per cercare minuzie che potevano essere sfuggite. Passarono delle ore nella penombra di quella stanza, loro due da soli.

    «Sto cercando di aiutarti, doc» gli disse il poliziotto sedendogli accanto.

    L’uomo si sistemò sulla sedia e si prese ancora qualche lungo secondo. Chiuse gli occhi e parve chiaro che stesse tentando, ancora una volta, di visualizzare la scena, di riviverla, di concentrarsi su rumori, sensazioni, ricordi. Ma restò fermo sui suoi passi: una versione che si ripeteva uguale, impeccabilmente precisa e dettagliata.

    «Sono arrivato a casa da solo.»

    L’auto parcheggiata come sempre nel viale poco illuminato. Il marsupio di pelle marrone come sempre posizionato sul sedile del passeggero. Fece per prenderlo ma era aperto e metà del contenuto si rovesciò sul tappetino.

    «Come sempre.»

    L’orologio segnava le tre di notte, aveva fatto tardi un’altra volta. Ma rientrare a casa prima di quell’ora non gli importava, nessuno lo aspettava, nessuno sarebbe stato in pena per lui.

    Passava ore in quei locali della periferia, quelli bui e squallidi, dove bevi e dimentichi, corteggi ragazze che non ti interessano, balli senza avere voglia di ballare, ti stanchi per non pensare ma poi finisci sempre per farlo.

    «Un’altra notte buttata.»

    Pensava alle giornate vuote che si susseguivano una dietro l’altra. Giornate che trovava prive di senso. Nessuna idea, nessun progresso, nessun regresso. L’immobilità. E lui odiava l’immobilità.

    Tornò a casa a sperare che le ore che lo dividevano dal nuovo giorno gli sarebbero scivolate addosso senza fare male. Poi sarebbe arrivata l’alba, avrebbe preso un caffè e affrontato di nuovo la sua noiosa e ininterrotta routine.

    «E pensare che mi basterebbe un’idea.»

    Solo una buona idea. L’idea giusta per cambiare finalmente quella vita che non aveva voluto, che non si era scelto.

    Si frugò nelle tasche senza trovare le chiavi.

    Il viale semibuio dove aveva parcheggiato era a pochi metri dall’ingresso dell’abitazione. Sette metri, forse otto; pochi passi. Passi percorsi migliaia di volte, di cui qualche centinaio solo per ritrovare le chiavi di casa. Sempre lì, sul tappetino. Sempre cadute per sbaglio dal marsupio di pelle marrone sempre lasciato aperto.

    «Sto tornando a prendere le chiavi.»

    Pensò che qualche passo in più non aveva mai ammazzato nessuno e un momento dopo non ebbe modo di pensare a nient’altro. L’auto gli sembrò irraggiungibile, l’aria irrespirabile, il dolore indescrivibile. In una manciata di secondi la sua autonomia d’ossigeno crollò precipitosamente. Se fosse riuscito a richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui sapeva di essere capace, forse sarebbe riuscito a resistere un minuto. Un minuto può durare in eterno se si resta inermi a fare il conto alla rovescia, e può durare un battito di ciglia se non si trova alla svelta una soluzione, un diversivo, un colpo di genio.

    «L’aria si consuma, le narici mi bruciano, ci sono quattro o cinque gradi ma mi sembra di stare in mezzo alle fiamme.»

    Si guardò attorno in cerca di qualcosa, senza sapere cosa cercare. Forse un’idea. Lui, che le idee le aveva sempre cercate, bramate e pretese con affanno, ora cominciava a temere che sarebbe stata proprio una mancanza di idee ad annientarlo. Ma sapeva anche che una delle sue stupide idee non sarebbe servita a nulla in quel momento. Aveva su di sé un energumeno di quasi cento chili che gli teneva un braccio sul collo, sembrava volesse infilarglielo nella gola e ci stava riuscendo.

    Aveva perso ogni tipo di percezione di sé. Non capiva se avesse ossa rotte, le sentiva frantumate, si sentiva polverizzato. Cominciava a dubitare di tutto. Dubitava persino di sé.

    «E io non dubito mai di me.»

    Le forze residue furono concentrate per dimenare il suo corpo sfinito. Sentì un rumore provenirgli alle spalle, aveva fatto cadere qualcosa, forse un vaso. L’energumeno si distrasse, allentò la presa e fu sufficiente per fargli prendere una boccata d’ossigeno e recuperare una manciata di secondi di autonomia. Poi la stretta alla gola tornò più potente di prima e non gli lasciò speranze di poter trovare una via d’uscita.

    Si era già rassegnato all’idea di riposare per sempre quando riuscì appena a godere del regalo che gli fu fatto. Il tizio che gli stava addosso gli regalò la sua voce, sussurrata all’orecchio in un modo che lo fece rabbrividire.

    Che c’è, dottore? Restare senza fiato fa male?

    Lo conosceva. Sapeva chi fosse. Da qualche parte, in qualche luogo, aveva già sentito quella voce. Provò a sforzarsi di ricordare...

    «...ma tanto non serve più. Un odore strano mi arriva alla testa, perdo le forze e diventa tutto ovattato. È l’ultimo ricordo che ho. Poi basta, buio.»

    Il dottor Andrea Tagli riprese a strofinare la mano sul ginocchio e a dondolare impercettibilmente il busto avanti e indietro. Il vicequestore Osvaldo Lo Presti, uno dei suoi più cari amici, continuò a fissarlo colmo di impotenza, seduto alla scrivania del suo ufficio, nel commissariato di Tor Vergata.

    Capitolo 1

    Aprì e richiuse in due il suo Nokia 2720 con le dita grasse e pallide, senza la minima intenzione di leggere il nome che appariva sul display. Poi, con voce rauca e pregna di estroversa napoletanità, sputò fuori un sentito: «Ma vafangùl.»

    Gaetano Papaleo non tollerava essere disturbato mentre si concentrava a guardare in tv Super Tennis, seduto sulla parte sfondata del divano in alcantara beige, nella zona living del suo bilocale in Piazza dei Re di Roma. Canale 64, ventiquattr’ore no-stop di palline gialle che rimbalzavano da una parte all’altra del suo 24 pollici. Erano esattamente dodici anni, quattro mesi e ventidue giorni che sua moglie era andata via di casa. Ed erano esattamente dodici anni, quattro mesi e venti giorni che lui non si perdeva nessun evento tennistico. Live, radiofonico o televisivo che fosse, non aveva importanza, l’importante era il tennis. L’importante era capire perché, dopo ventidue anni di matrimonio, sua moglie aveva scelto proprio un tennista per rifarsi una vita.

    Il telefono continuava a squillare ma non gli importava, era di riposo e niente lo avrebbe smosso da quel divano; niente sarebbe riuscito a strapparlo dalla claustrofobia di quelle mura ingiallite dal fumo di sigaro alla vaniglia. Quella casa puzzava di chiuso e di solitudine. Il lieve sentore dolciastro rilasciato dagli sbuffi di fumo lo infastidiva, ma non poteva smettere. Doveva capire perché, dopo ventidue anni di matrimonio, sua moglie aveva scelto proprio un tennista fumatore di sigari alla vaniglia per rifarsi una vita.

    Il suono del citofono esasperò il suo nervosismo. In pochi sapevano che la scritta guasto era solo un modo per evitare rotture di scatole e testimoni di Geova: che poi, di solito, sono la stessa cosa. Era passato del tempo dall’ultima volta che aveva aperto il portone, erano le sette di sera di un giorno qualunque. Sapeva bene che a quell’ora non poteva essere il postino che consegnava bollette del gas; ed era quasi certo si trattasse di un ragazzino che si guadagnava la pagnotta a suon di volantinaggio e che ignorava puntualmente la scritta qui pubblicità sulla cassetta esterna, ma lui aveva fretta e nessuna voglia di discutere attraverso un citofono. E aprì. Il giorno dopo venne a sapere che, poco dopo le sette di quella sera, uno strano tipo incappucciato si era intrufolato nell’appartamento della vedova del secondo piano, e le aveva strappato via il crocifisso d’oro che portava sempre appeso al collo e la fede di matrimonio, da sessant’anni infilata all’anulare sinistro. Nient’altro. La vecchietta non aveva nient’altro. Papaleo non ebbe mai il coraggio di confessare che l’aveva aperto lui il portone. L’unica cosa che fece fu attaccare sul citofono quel post-it, giallo come i suoi denti, con su scritto guasto, lo fissò con un paio di passate di scotch e di quella storia se ne lavò le mani.

    Il suono del citofono tornò a ripetersi e lui si ritrovò a dare una boccata più profonda e nervosa al sigaro. Era nervoso perché se il citofono suonava, qualcuno lo stava cercando; nessuno suonerebbe mai un citofono con la scritta guasto, tranne chi sa che non lo è.

    «Non funziona!» disse alzando la cornetta, anche questa volta senza la minima intenzione di sapere chi fosse.

    «Mi dispiace, ma la partita di tennis mi sa che stasera finisce qua» gracchiò una voce giovane con una forte cadenza siciliana.

    «Mi sa che ti faccio trasferire in culo ai lupi, Marchesi!» ringhiò lui, col sigaro alla vaniglia incastrato tra le labbra.

    «Le faccio solo un nome: Ingegner Capualdi.»

    «Per me può pure crepare quello storpio.»

    «L’ha fatto. L’abbiamo trovato morto davanti casa sua. Adesso che dice, la spegniamo questa televisione, commissario?»

    Gaetano Papaleo abbandonò contrariato il suo 24 pollici e un quarto d’ora più tardi salì sulla volante per raggiungere il commissariato, accompagnato dall’agente Salvatore Marchesi. Era sera tardi, Roma a quell’ora era deserta e non ci volle molto per raggiungere la periferia di Tor Vergata.

    Pochi passi svelti per percorrere i pochi metri che lo dividevano dall’ufficio del vicequestore e, in aggiunta, l’abbondante quintale di chili che si portava addosso, fecero sudare il commissario Papaleo. Affannato, ripose la giacca sullo schienale di una sedia e si avvicinò al dispenser accanto alla scrivania, bevve un sorso d’acqua e tentò la ripresa di fiato. Poi tirò un sospiro e si riaccese il sigaro. Lo sbuffo di fumo alla vaniglia che gli venne fuori dalla bocca era pieno di goduria e soddisfazione: il vicequestore, questa volta, non si era accorto di nulla, e non avrebbe potuto rimproverarlo con la solita tiritera del ritardo o della sua continua irreperibilità. Era lì, nel suo ufficio. Ed era arrivato prima di lui. O almeno così pensava.

    «Chi ha vinto stasera, commissario?»

    La goduria si trasformò in un conato di vomito, lo stomaco si strinse e il fumo gli si fermò in gola. Tossì di una tosse catarrosa.

    «Scusatemi, dottò. Non potevo immaginare che era accaduta una tragedia» arrancò con la sua solita nenia.

    Il vicequestore Lo Presti, un uomo imponente dagli occhi color resina trasparente, lo fissò dall’alto del suo metro e ottantasei centimetri e lo fece diventare ancora più basso di quanto già non fosse. Il commissario Papaleo, schiacciato contro la scrivania e incapace di sostenere quello sguardo, bevve ancora un sorso d’acqua, poi chiese, senza alcun senso: «Come sta l’ingegnere?»

    «Non si può lamentare» rispose Lo Presti, sempre con la stessa insolita ironia di poco prima. Ironia che aveva imparato a usare come arma contro l’incapacità di quell’inutile commissario, tanto inutile quanto intoccabile grazie ai suoi santi in paradiso. Se non avesse incontrato l’ironia sulla strada che lo legava a Papaleo, con molte probabilità lo avrebbe già ucciso a mani nude parecchio tempo prima.

    «Signori, buonasera.»

    Un bell’uomo sorridente, sui quarant’anni portati bene, piombò nell’ufficio del vicequestore senza essere annunciato e, cosa che infastidiva molto il commissario, senza bussare. Era il dottor Andrea Tagli: vicedirettore di una clinica privata in via Merulana, nel centro di Roma, e medico legale assegnato già da qualche anno al piccolo commissariato di Lo Presti, con la passione per la vita notturna e l’hobby delle invenzioni di giocattoli per bambini. Continuò a parlare, senza aspettare risposta al suo saluto, mentre si sistemava la fasciatura che aveva attorno al braccio.

    «Cos’è, commissario, ha fatto la doccia vestito?» alluse alle chiazze di sudore sparse qua e là sulla camicia di Papaleo.

    «Dottorino, credo che la tua presenza è più utile sul luogo del delitto» gli abbaiò il commissario arrossendo, evidentemente infastidito dall’invadenza dell’uomo.

    «Non la sto mica giudicando, è che non si è asciugato bene.»

    «E mo’ basta! Ogni volta con queste stronzate. Vai a fare il tuo lavoro!» urlò Papaleo, diventando di un brutto colorito violaceo.

    «Il dottore è stato sostituito a seguito dell’aggressione subita pochi giorni fa» lo interruppe brusco il vicequestore Lo Presti. «Le sue attuali condizioni non gli consentono di esercitare le sue funzioni di medico legale.»

    «Buon per lui, così ci ha più tempo per le stronzate che s’inventa.»

    «Qualcosa si dovrà pur fare quando si lavora per un commissariato a cui non affidano neanche casi di smarrimenti di gattini» ribatté il dottor Tagli sornione.

    «E paparino non ha bisogno di una mano per gonfiare qualche tetta?»

    «Per favore!» Lo Presti interruppe quello stupido e già sentito battibecco, che in un giorno come un altro avrebbe anche trovato divertente. «L’ingegner Capualdi era uno degli uomini più in vista della capitale. Vogliamo farci togliere anche questo caso, Papaleo, o vuole arrivare alla pensione cercando di farsi ricordare per qualcosa di buono?»

    «Dottò, quante storie. L’avete detto voi stesso, parliamo dell’ingegner Capualdi. Sapete come si chiuderà il caso? Solita rapina all’uomo facoltoso e pieno di grana, finita però con un morto di troppo. Forse, dico forse, arrestiamo un ragazzino che aveva bisogno di soldi per comprarsi un po’ di fumo e tutto tornerà come prima.»

    «Tutto fila, commissario. A parte il fatto che non è stato toccato un centesimo dalle tasche dell’ingegnere. E prima che me lo chieda, sì, l’ingegnere aveva le tasche piene. Ah, e un’altra cosa, l’ingegnere è stato trovato con un braccio amputato. E su quel braccio una scarnificazione che compone un numero. Se riuscirà, nonostante questo, ad archiviare il caso come semplice furtarello, sarò io stesso a farmi in quattro perché venga accettata la sua richiesta di prepensionamento.»

    Lo Presti finì appena di parlare che bussò alla porta Marchesi, l’agente che poco prima aveva strappato via Papaleo dal suo match di tennis.

    «Ecco la cartella, signor vicequestore. Io sono pronto» disse il giovane poliziotto siciliano spezzando la tensione. Mise i documenti tra le mani del superiore e lasciò l’ufficio.

    Il viso giovanile del dottor Tagli, nel mentre, pareva essere invecchiato di vent’anni. Le rughe già profonde del commissario Papaleo, invece, diventarono veri e propri solchi. Il vicequestore Lo Presti restò gelido a fissare i due, stupito dalla semplicità con cui era riuscito a comunicargli l’orrore che era accaduto pochissime ore prima.

    «Bel casino, Lop. Ora avrai tutti gli occhi e le penne puntati addosso.» Tagli si fece serio, ancora visibilmente scosso dalla notizia e preoccupato per il suo amico. «Però non ho capito perché mi hai convocato d’urgenza. Ci dovrebbe essere il sostituto.»

    Lo Presti gli guardò il braccio fasciato, poi il collare, e si rese conto che in effetti non era il caso di coinvolgerlo; si rimproverò l’errore di aver scomodato il suo amico a quell’ora, per la semplice abitudine di aver sempre lavorato fianco a fianco con lui nei casi più complicati. Spostò gli occhi di ghiaccio verso la finestra che dava su una buia e trascurata periferia della sua amata città. Quel buio, però, non gli suggerì nulla di buono.

    «Hai ragione, doc. Ti faccio riaccompagnare a casa.»

    «Oh, tanto se hai bisogno mi trovi là.»

    «È certo. Se ho bisogno ti chiamo.»

    Capitolo 2

    La dottoressa Nally McBag, come richiesto, non si era ancora mossa dal luogo del delitto. Non immaginava che in quel quartiere apparentemente dimenticato da Dio ci potesse essere una villa tanto maestosa come quella dell’ingegner Capualdi. In realtà non era mai uscita così tanto al di fuori di quanto delimitato sulla sua cartina geografica di Roma. I suoi punti di riferimento erano segnati su una mappa di quelle per turisti, quelle che si possono trovare su ogni bancone di ogni reception di ogni albergo della capitale. Usava sempre la stessa da quando aveva sei anni. Ormai non ne aveva più bisogno, conosceva a memoria tutti gli angoli del centro storico della sua maestosa città, ma amava aiutare i turisti a orientarsi per i vicoletti e siccome, nonostante il suo nome, l’inglese era sempre stata una materia poco interessante per lei, cercava di aiutarli indicando i punti di riferimento su quella cartina quasi del tutto logora.

    Era una trentaduenne che dimostrava molto più dei suoi anni effettivi, non tanto nel fisico quanto negli occhi. Si ritrovò a nascere a Roma da padre irlandese e madre americana, entrambi morti in un incidente d’auto avvenuto tornando in albergo dall’ospedale, subito dopo la sua nascita. Non seppe mai perché i genitori in quel momento si trovassero in Italia né ebbe mai il desiderio di conoscere anche solo il loro nome. In compenso, crescendo, decise di conservare quello che prima di morire avevano assegnato a lei. E decise anche di non farsi domande in merito al miracolo della sua sopravvivenza in quell’incidente.

    Il portiere dell’albergo in cui i due turisti alloggiavano d’abitudine durante le loro permanenze italiane, che la famiglia McBag considerava ormai un amico, decise di richiedere l’affidamento della bambina in attesa di un contatto dei parenti o di una richiesta di adozione, e la sua proposta fu accettata. Non arrivò mai nulla da entrambi i versanti. Il suo nuovo tatà, come quella ragazzina dai capelli castani e gli occhi verde smeraldo l’aveva sempre chiamato, faceva il turno giornaliero in un albergo del centro, in una parallela di via del Corso. E lei, dall’età di sei anni, armata soltanto della cartina geografica regalatale da quel vecchio portiere, passava le giornate vagando per dei vicoletti stretti e spesso isolati, che a volte sembravano non portare a nulla ma che poi, sempre, le riservavano degli squarci di storia talmente belli e imponenti da lasciarla a bocca aperta, con gli occhi sgranati, a viaggiare con l’immaginazione. E a farla rientrare in albergo puntualmente in ritardo. Non aveva mai avuto dubbi sul fatto che se avesse potuto scegliere dove nascere, avrebbe scelto sempre e comunque quella città. E l’avrebbe desiderata proprio così com’era: sporca, volgare, magica.

    Ma quella sera non c’era spazio per i ricordi. Nemmeno un residuo. Era cresciuta, aveva studiato, aveva perso anche il suo secondo papà e adesso era sola e al suo primo incarico ufficiale: convocata pochi giorni prima a sostituire un medico infortunato con una prognosi di trenta giorni; assegnata a quello che doveva essere un commissariato tranquillo e senza colpi di scena. Si compri dei libri per ingannare il tempo, le avevano detto.

    In un attimo, era sembrato di esserci finita lei stessa in un libro.

    Il vicequestore Lo Presti, dopo aver fatto accompagnare a casa il suo amico Andrea Tagli ed essersi raccomandato che rimanesse a riposo, fece preparare l’auto a Marchesi, il giovane poliziotto siciliano, e si fece portare sul luogo del delitto in compagnia del commissario Papaleo.

    Mentre l’auto si avvicinava alla maestosità della villa dell’ingegnere, Lo Presti si riscopriva sempre più incredulo del fatto che proprio lì era avvenuto un omicidio senza alcun tipo di furto. Chiunque avesse avuto il coraggio di violare quella proprietà privata avrebbe senza dubbio fatto in modo di portar via qualcosa. Tutto aveva valore in quel posto. Tutto urlava un grande benessere: il trattorino tagliaerba in bella vista al centro dell’enorme giardino, per esempio, non valeva meno di sei o settemila euro e sarebbe stato una sciocchezza portarlo via; anche solo quel portafogli che sporgeva dal taschino della giacca d’alta sartoria indossata alla perfezione dal corpo senza vita, così facilmente estraibile da far gola perfino a chi era lì, in divisa, a indagare su un caso di morte violenta. E invece niente. Non era stato toccato nulla. E anche volendo concedere un minimo di valore al braccio dell’ingegnere e all’orologio indossato al polso, resterebbe il fatto che erano stati lasciati entrambi lì: braccio e orologio.

    Le troppe sirene accese distrassero Lo Presti da quei pensieri che iniziavano a precipitare nel delirante. Ordinò a Marchesi di fermare l’auto e a Papaleo di seguirlo. Sulla scena del delitto, oltre ai suoi uomini, c’era la scientifica, una pattuglia dei carabinieri che si era fermata incuriosita dai tanti lampeggianti, un’ambulanza e un’auto della vigilanza con due agenti a bordo, che dopo aver saputo cosa fosse accaduto in quel luogo non avevano avuto neppure il coraggio di scendere. Il PM e il questore, invece, per fortuna erano già andati via. In un angolo dell’immenso giardino, defilata dalla confusione generale e appoggiata a un enorme vaso di fiori, c’era una donna all’apparenza spaesata: jeans, stivaletti larghi e giubbotto nero di pelle sotto il quale si intravedeva una camicia a scacchi rossi e neri. Lo Presti chiamò Marchesi con un cenno della mano e il giovane, che era stato tra i primi ad accorrere sul posto segnalato parecchie ore prima da una telefonata anonima, si avvicinò molto meno velocemente di quanto avrebbe voluto.

    «Comandi, signor vicequestore» disse con una voce che urlava pietà e supplicava qualche ora di riposo.

    «Chi è quella? E che ci fa in una zona delimitata?» lo rimproverò Lo Presti indicando la donna.

    «Il nuovo medico legale, signore, la dottoressa Nally McBag. È stata convocata per sostituire il dottor Tagli. È arrivata intorno alle diciannove e le hanno detto di non andarsene finché non arrivava lei. Mi perdoni ma mi ero completamente dimenticato di dirglielo.»

    Dalla mortificazione di quelle ultime parole, Lo Presti capì che quel ragazzo aveva dato abbastanza e la stanchezza non gli avrebbe permesso di rendersi ancora utile.

    «Torna a casa, Marchesi, prendi pure la macchina. Noi torniamo con qualcun altro.»

    «Agli ordini, signor vicequestore.»

    Intanto Lo Presti, confuso da tutte quelle divise, dalla stanchezza di Marchesi e dalla dottoressa dal nome strano, aveva perso di vista Papaleo. Ci volle poco a intercettare la sua posizione: il commissario si era avvicinato al corpo dell’ingegnere per fare il detective coraggioso e ora si faceva tenere la fronte da uno dei carabinieri curiosi mentre vomitava bile all’aroma di vaniglia. Il vicequestore cercò di ignorare tutti gli epiteti con cui gli uomini della scientifica stavano ribattezzando il suo collega; tentò anche di non pensare al fatto che avrebbe dovuto condurre le indagini di un omicidio così importante affiancato da un imbecille, che anche in quell’occasione non si era risparmiato una delle sue solite figuracce. Se avesse voluto provare a risollevarsi da quella situazione con un pensiero positivo, avrebbe potuto pensare che almeno il PM non aveva assistito a quella scena a dir poco deplorevole, ma non provò un sollievo sufficiente a farlo star meglio. Distolse l’attenzione da Papaleo, mise su la faccia migliore che potesse pescare nel repertorio delle buone maniere e andò incontro alla donna appoggiata al vaso.

    «Mi dispiace dottoressa, non era questo il benvenuto che avrei voluto riservarle» esordì, avvicinandosi a mano tesa verso Nally McBag.

    «Avrei senza dubbio preferito un calcio in culo, signor vicequestore» gli rispose lei, stringendogli la mano con vigore e con un mal riuscito sorriso di circostanza sul volto.

    Lo Presti rimase spiazzato dal fatto che lei sapeva già chi fosse; e da quella risposta; e da quella stretta di mano; tutto arrivato in maniera così secca, violenta, inaspettata. Cercò di ignorare tutte le domande che avrebbe voluto fare a quella donna dall’abbigliamento così poco ordinario secondo l’immagine che aveva sempre attribuito a un medico legale, e si costrinse a chiederle, come solo il più squallido dei poliziotti da fiction tv avrebbe potuto fare: «Che cosa abbiamo qui?»

    «Ingegnere Carlo Maria Capualdi. Mi hanno detto che qui lo conoscono tutti. Probabilmente gli hanno fatto perdere i sensi, magari sorprendendolo alle spalle perché non sembrano esserci segni di colluttazione. Quel braccio è amputato in maniera impeccabile, ci sarà voluto del tempo; poi è stato sistemato su un vassoio d’acciaio ed è stato inciso un numero nella carne, 7609, ma non so ancora con quale strumento. Chiunque l’abbia ucciso sapeva che l’uomo sarebbe stato abbastanza tempo da solo per morire dissanguato. Credo di poter ipotizzare come ora del decesso le diciotto circa: quando sono arrivata c’era appena traccia di ipostasi e la

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