Un racconto omaggio
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Un racconto omaggio - Silvana Sanna
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IL RACCONTO
Anna smise di battere sulla tastiera del computer, drizzò le spalle e si stiracchiò la schiena: erano quasi quattro ore che se ne stava lì seduta, non si era concessa nemmeno una piccola pausa per sgranchirsi le gambe e ora i suoi poveri occhi, per non parlare della sua testa, reclamavo qualche attimo di requie.
Le succedeva sempre: quando entrava anima e corpo nella storia che stava raccontando si immergeva talmente nelle vicende che si affastellavano via via sulla pagina bianca dello schermo, che le pareva di viverle in prima persona e perdeva la nozione del tempo. Si immedesimava nell'eroina di turno in modo così assoluto e totale al punto di prestarle la sua mente, il suo cuore e lo spirito con cui affrontava la vita. Tutta se stessa insomma. E si dimenticava di ciò che la circondava nella realtà, la stanza piccola e polverosa (non le riusciva mai di pulirla a dovere e in fondo poco le importava) dove lavorava e che era il suo regno, il resto della casa che incombeva attorno e sopra di lei incurante del fatto che quella casalinga impegnata in tutt'altro aveva ben poco tempo e ben poca voglia per tenerla in ordine, e poi il marito occupato a sua volta al computer nella stanza accanto, avvolto nella sua atmosfera brumosa di fumo… e anche il gatto che, acciambellato in un unico fagotto peloso nel quale si distinguevano a fatica un orecchio, una zampa e la punta della coda, se la dormiva sull'asse da stiro infischiandosene dei peli che ci avrebbe lasciato. Anzi Tigrotto proprio su questo contava: sulla totale assenza mentale della padrona mentre scriveva per comportarsi di volta in volta come gli andava a genio: farsi le unghie sul velluto del divano del salotto, aprire gli sportelli della credenza in cucina per controllare se ci fosse qualche avanzo di suo gusto, rovesciare la scatola dei croccantini sul pavimento e pisolare nei posti più comodi, i letti della casa e soprattutto, appunto, l'asse da stiro. Giaciglio meraviglioso imbottito al punto giusto, non troppo duro, non troppo soffice, per di più a un passo dalla padrona in modo da poterla tenere d'occhio. E pazienza se lei non era d'accordo.
- Brutta bestiaccia dispettosa, scendi giù di lì, ché poi mi ritrovo la biancheria piena di peli – lo apostrofò infatti Anna dopo essersi alzata in piedi.
Ma il tono con cui aveva parlato e l'affettuosa grattatina sulla testa smentivano il titolo spregiativo. E dunque Tigrotto non se ne fece turbare: aprì gli occhi, sbadigliò, si stiracchiò inarcando la schiena dal pelo tigrato color carota, poi scese con un piccolo balzo per approdare sulla sedia che Anna aveva lasciato libera e che ancora conservava sul morbido cuscino la sua tiepida impronta… e si rimise a dormire. Sapeva bene che la padrona non lo considerava affatto una brutta bestiaccia dispettosa
, ma il miciottone santo della sua mamma
, come lo chiamava, suscitando, se era presente, gli sguardi di compatimento del padrone.
Ah, col padrone Tigrotto non se lo poteva permettere di comportarsi come faceva con sua moglie! Il padrone era severo, scorbutico e inavvicinabile. Delle volte, sia pure da gatto in fuori, non riusciva proprio a capire come lei riuscisse a dividere con lui la casa e il letto visto che non li vedeva mai ridere insieme, chiacchierare allegramente e farsi buona compagnia. Mai una carezza, ed erano così belle e dolci le carezze della padrona, mai una coccola. Eppure… eppure Tigrotto, che viveva in quella