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La saga di Rocai - La Guerra per Rothin
La saga di Rocai - La Guerra per Rothin
La saga di Rocai - La Guerra per Rothin
E-book696 pagine9 ore

La saga di Rocai - La Guerra per Rothin

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Info su questo ebook

La guerra per Rothin è il primo capitolo della Saga di Rocai. Il Rothindel è da sempre patria di valorosi guerrieri e formidabili campioni. Innumerevoli battaglie sono state combattute e vinte nel nome del Thane, sovrano del regno, e molto sangue è stato sparso per la gloria. Ma adesso la guerra sta tornando più brutale che mai, fomentata da Mathrayyidi, spietato sovrano del Regno d'Oriente. Mentre il Tha​ne, aiutato dagli altri re del regno barbaro, decide come gestire la situazione, un ragazzo di provincia, Rocai, si ritrova catapultato in una realtà più grande di lui a causa di un uomo sconosciuto e misterioso. Da sempre il ragazzo sa di essere speciale, e di essere destinato a ben più che alla semplice vita del suo villaggio. In cerca di risposte e mosso dalla prospettiva di un futuro migliore, Rocai intraprende un viaggio incredibile che lo porterà a scoprire un mondo ostile e pericoloso, dilaniato da ferro e morte, ma popolato anche da eroi nobili e coraggiosi.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2019
ISBN9788831638234
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    Anteprima del libro

    La saga di Rocai - La Guerra per Rothin - Matteo Sanesi

    Indice

    Biografia

    Ringraziamenti

    Prologo di Matteo Sanesi

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Matteo Sanesi

    La saga di Rocai

    La guerra per Rothin

    Youcanprint

    Titolo | La Guerra per Rothin

    Autore | Matteo Sanesi

    ISBN | 978-88-31627-96-2

    © Tutti i diritti riservati all'Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Biografia

    L'autore Matteo Sanesi nasce il 6 agosto 1995 a Empoli, in provincia di Firenze. Scopre da subito di possedere una grande predisposizione all'apprendimento delle lingue, e intraprende la carriera universitaria del traduttore letterario, recandosi all'estero in più occasioni. Amante delle culture, delle lingue e dei viaggi, Matteo già alle superiori comincia a sognare un mondo fantastico, un'avventura fantasy ambientata in un regno lontano. È il Rothindel, terra popolata da eroi e miti. Nonostante gli impegni accademici, Matteo non smette mai di dedicare un occhio di riguardo a quel sogno di gioventù, fino alla decisione di pubblicare La Guerra per Rothin, un romanzo scritto nel corso del 2013, con cui l'autore riesce finalmente ad esternare se stesso attraverso i propri personaggi.

    Ringraziamenti

    La Guerra per Rothin è un sogno che diventa realtà, la testimonianza di un giovane autore che vuole lasciare qualcosa di sé.

    Creare un mondo vivo, in grado di rappresentare me, le mie esperienze, la mia anima, è stata una delle sfide più grandi della mia vita. Mi sono immedesimato nelle vicende dei miei personaggi, sentendomi uno di loro e descrivendo con dedizione le loro gesta, quasi come se le avessi dinanzi ai miei occhi in quel preciso momento. Mi sembrava di essere lì, seduto con loro, intento a scrivere quel che vedevo.

    Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’appoggio e il sostegno delle persone intorno a me. Ringrazio la mia famiglia, i miei fratelli, il mio patrigno, per avermi dato appoggio incondizionato in questo incredibile percorso. Nello specifico ringrazio mia madre per aver corretto con pazienza e attenzione le mie bozze, dandomi spesso preziosi consigli. Ringrazio tutti coloro che hanno ascoltato con interesse la mia storia, in particolare Marco Fabiani e Mattia Scali, amici di vecchia data che si sono entusiasmati con me dinanzi alle imprese di questi eroi.

    Un sentito ringraziamento va inoltre a Damiano Salvadori, che ha curato la parte grafica dell’opera, fornendomi una bellissima rappresentazione per la copertina di questo stesso libro.

    Infine ringrazio la piattaforma di selfpublishing Youcanprint per avermi dato la concreta possibilità di realizzare il mio sogno.

    Spero che questa avventura possa essere emozionante per tutti voi come lo è stata per me, e che i venti del nord possano sempre accompagnare il vostro cammino.

    Matteo Sanesi

    maps

    Prologo

    di Matteo Sanesi

    Il sole stava ormai tramontando sul castello di Alj-adrain.

    Questo era simile a un gigante, immobile nelle tenebre della notte. Gli splendidi stucchi, marmi e pietre levigate che lo componevano erano appena visibili nella penombra.

    L'enorme edificio torreggiava sulla città di Adrain, capitale del regno del popolo dell'Oriente.

    I quartieri ricchi, costituiti da residenze di forme sinuose e sviluppate su più piani, erano situati a ridosso della fortezza. Una semplice scalinata li divideva dai quartieri bassi e pestilenziali della gente comune. Ovviamente, qualunque cittadino avesse provato a salire la scalinata sarebbe stato abbattuto dagli arcieri collocati sugli spalti di Alj-adrain, per ordine del Gran Re d'oriente.

    Gli alloggi privati della grande Reggia brillavano della sinistra luce di lampade e candele. Decine di stanze, riccamente decorate con tessuti pregiati, sete, porpore, erano dedicate esclusivamente all'uso personale di Sua Maestà.

    Lampadari di cristallo erano appesi al soffitto di ognuna di esse, e decoratissimi arazzi celebravano la grandezza del potente Regno d'Oriente.

    Ampi corridoi, che presentavano eleganti e complesse soluzioni architettoniche sul soffitto, permettevano il transito fra le diverse stanze.

    Il più grande di questi era chiamato Il Cammino dei Re. Per via degli stretti controlli sui visitatori della reggia, poche persone avevano avuto la fortuna di vederlo e restare in vita per raccontarlo. Più che un semplice corridoio, si trattava di una leggenda.

    Esso si sviluppava alla sommità dei gradini che portavano all'ultimo degli innumerevoli piani della Reggia.

    Un lungo tappeto rosso si srotolava per tutta la lunghezza, ed enormi quadri si affacciavano in tutto il loro splendore sulle pareti del Cammino. A un certo punto il tappeto si divideva come in un bivio, e le pareti si allontanavano l'una dall'altra. Al centro di questa specie di stanza si collocava il Monumento a Radijyd, dio della vita e principale figura del culto orientale. Questo era di oro puro, modellato delicatamente dai migliori orefici del mondo; gli occhi del dio erano diamanti esagonali perfetti.

    Tanta ricchezza si contrapponeva ai luridi liquami che scorrevano continuamente ai piedi del castello, sotto la scalinata.

    Tuttavia, nessuna porta si apriva ai lati del corridoio. Nessuna, se non l'alloggio principale del Re, situato in fondo al Cammino; lì si interrompeva il ricco tappeto.

    Oltre il grande portale di quercia e argento si apriva la camera personale del sultano, nonché la sua preferita.

    In effetti, si era raramente visto usare gli altri ambienti riservati a lui, se non l'Harem; e comunque, sempre per brevi periodi di tempo.

    Così una buona porzione della parte superiore di Alj-adrain, nel suo sfarzo, nella sua gloria, echeggiava vuota, dimenticata.

    La stanza, detta Gloria dei Re, era meno decorata di quanto si potesse pensare. Vi si poteva trovare un letto a baldacchino, un tavolo, una terrazza, e poche altre cose.

    Per essere il simbolo della grandezza dell'Impero, sarebbe parsa modesta rispetto alle altre stanze. Ma i re precedenti vollero così: ricchezza nelle cerimonie, semplicità nell'intimità, per essere vicini ai bisogni di tutti, ricchi e poveri.

    Una figura sulla terrazza marmorea della Gloria guardava verso il tramonto. Il suo turbante era di valore inestimabile, tempestato di rubini e zaffiri; la vestaglia da notte, a motivi azzurri e bianchi, era quanto di più prezioso si potesse desiderare. Decorate babbucce blu calcavano il pavimento sotto di lui.

    Gli occhi verdi dell'uomo tradivano uno sguardo fiero e tuttavia assorto nello spettacolo che si presentava a loro come ogni sera, come se il sole stesso rendesse omaggio al suo splendore e tramontasse per intrattenerlo.

    Teneva la mano sinistra al fianco, mentre con la destra si accarezzava la curata barba di color dell'ebano non più lunga di un dito.

    Gli capitava spesso, ultimamente, di ritrovarsi lassù, a pensare. Qualche volta parlava anche a voce alta, da solo. Questo perché pensava di essere l'unica persona con cui poter instaurare un dialogo intelligente e interessante.

    Considerava sempre gli stessi pensieri, e si compiaceva di essi. Da quando suo padre era scomparso, qualche anno prima, tutto quel che l'occhio riusciva a vedere era suo. Suo, e di nessun altro.

    -Il Gran Re, il Sultano, il Re d'Oriente, Sua Maestà, il Dio che cammina-, diceva fra sé soddisfatto.

    -Così mi chiamano.

    Egli era Mathrayyidi, legittimo erede al trono, legittimo padrone del Regno d'Oriente.

    Suo padre gli aveva lasciato un regno enorme, che si estendeva dal mare dell'est fino alle terre del nord-est, comprendente per larga parte le foreste del sud. Il vecchio Re, Muhajyd, era un uomo autoritario, che aveva saputo mantenere e unificare un regno vastissimo grazie alla sua capacità di capire i bisogni del suo popolo. Riuscì ad assoggettare nazioni su nazioni grazie a subdoli giochi politici, senza spargimenti di sangue.

    Per gran parte della sua vita cercò anche di convincere Mathrayyidi, suo unico figlio, a seguire questa strada. Ma non ci riuscì, e si spense con la moglie a causa del peso dell'età, triste per il suo fallimento.

    Il nuovo Re era scaltro, furbo, spietato. Nei pochi anni di amministrazione del regno aveva già preso possesso di alcune terre abitate da popoli che, una volta capito il gioco di Muhajyd, avevano troncato ogni rapporto politico e commerciale, per mantenere la propria indipendenza.

    Non erano state annessioni facili. Mathrayyidi concedeva un ultimatum, che veniva prontamente rifiutato; provvedeva poi a inviare l'esercito reale, dotato di fanti, frombolieri, cavalieri, arcieri e genieri da guerra, a sterminare quelle persone.

    Ma la cosa non gli importava. Anzi, sorrideva, ricordandosi i successi più sanguinosi.

    Il suo episodio preferito era la battaglia per la contea di Emerhal, a est, un piccolo regno che aveva sempre resistito alle pressioni del Regno d'Oriente.

    Mathrayyidi riassaporava ancora adesso il momento in cui, catturato il re nemico, lo fece legare e portare ad Alj-adrain; lo collocò davanti alla tavola dove lui e i nobili consumavano abitualmente i pasti, e lo costrinse ad assistere ai festeggiamenti per la strage della sua gente.

    Dopodiché, fu lasciato morire di fame lì davanti, fra le risate dei commensali, nel corso di un paio di agonizzanti settimane. Infine, fu gettato in una fossa comune con la sua famiglia.

    -Questo è quello che succede a sfidarmi. Tutto il mondo saprà.

    L'ambizione del sultano non si fermava qui. Lui voleva porre rimedio a tutte le situazioni lasciate a metà da suo padre: voleva conquistare quei regni che resistettero stoici, in un modo o nell'altro. Si sarebbe sentito di poter conquistare tutto il mondo, una volta realizzato questo progetto così ambizioso.

    Ma un regno si opponeva ancora al suo potere.

    Al solo pensarci, il suo compiacimento si mutava in rabbia.

    Muhajyd, suo padre, il Sultano, il Re d'Oriente, sovrano del regno, non riuscì mai a instaurare il benché minimo rapporto con il popolo barbaro del Rothindel. Anzi, questa gente lo disprezzava, giudicando che fosse il lussurioso re di una nazione debole e fragile, per quanto all'apparenza gloriosa.

    Mathrayyidi non poteva tollerare che qualcuno si permettesse di deturpare così la figura di un uomo come suo padre, e avrebbe fatto di tutto per farla pagare a quel popolo rozzo e incivile.

    Il Gran Re fu scosso da questi pensieri quando qualcuno bussò alla porta.

    -Chi va là?

    -El-nuai, sire. Sono io.

    -Oh, el-nuai.  Entra, Dal-Yemel.

    Questo era un importante funzionario di corte, giovane e di bell'aspetto, con i lunghi capelli biondi raccolti in una treccia e un pizzetto. I suoi vividi occhi marroni lanciavano sguardi all'intorno.

    Egli entrò al servizio del vecchio re diversi anni prima, e da quando si era reso conto degli orrori che Mathrayyidi era in grado di compiere, aveva cercato di farlo ravvedere.

    -Ho saputo della sua recente conquista al sud. Congratulazioni-, disse con una certa riluttanza.

    -Il regno dei Falsavi. E' stato facile. Vieni, siedi con me.

    Si sedettero uno di fronte all'altro al tavolo della stanza. Una mappa del Regno d'Oriente era srotolata su esso.

    Il Gran Re si alzò e puntellò la cartina al tavolo coi palmi delle mani.

    -Guarda, Dal-Yemel. Il regno si estende a perdita d'occhio.

    Il Re sorrise con orgoglio.

    -Presto, le mie truppe avranno terminato di conquistare le contee del sud-est. Non esiste nessuno in grado di contrastarmi.

    Il funzionario, intanto, fissava la mappa.

    -Cosa c'è?

    -Maestà, il popolo geme.

    -Cosa?

    -Le derrate alimentari sono sottratte con la forza ai contadini, i quali muoiono di fame; il cibo va alle frontiere per mantenere i soldati, ma anch'essi sono stanchi per le continue battaglie. Molti vogliono tornare a casa.

    -Avranno più d'una casa. Li coprirò d'oro! Tutto quello che devono fare è svolgere il loro compito. Poi potranno tornare.

    Dal-Yemel sospirò.

    -Spero sia come dite voi. Per cosa mi avete fatto chiamare, Sire?

    Il Gran Re indicò con l'indice Rothin, la capitale del Rothindel.

    -Ho intenzione di aprire i contatti con il popolo barbaro. Cercherò di annetterlo al mio regno per vie diplomatiche.

    -Come?

    -Invierò un ambasciatore. Chiederò al re del Rothindel di inviarmi il loro campione, per stabilire le modalità delle trattative.

    -Il campione? Non sarebbe meglio un incontro fra legati?

    -Pensi davvero che un popolo così rozzo e lurido abbia delle personalità politiche? Siamo seri, Dal-Yemel.

    -Sarà come dite voi.

    Il funzionario non era minimamente convinto delle motivazioni del re. Il Rothindel aveva resistito alle pressioni politiche del sultano precedente, segno inequivocabile di una certa abilità in materia. Tuttavia, sapeva benissimo che il re non avrebbe accettato meno di un consenso.

    -Ottimo!-, disse il Re, dando una pacca sulla spalla dell'uomo.

    -Vai pure, amico. In meno di tre giorni, il Rothindel sarà soggetto ad Alj-adrain.

    Sorrise macabramente.

    -Te lo garantisco.

    Dal-Yemel rabbrividì. Si inchinò frettolosamente, e se ne andò dalla parca stanza.

    Il sultano torno serio. Meditava accarezzandosi la barba, fissando la porta chiusa con un certo interesse.

    I suoi occhi immobili ebbero un guizzo improvviso. Girò la testa verso il letto.

    -Tu cosa ne pensi, Kaumishi?

    Da una cortina del baldacchino emerse una figura grottesca: un nano deforme, ammantato di una veste nera come la notte.

    Si avvicinò al tavolo zoppicando. Trasse tre pietre dall'abito, le lanciò sul tavolo e aspettò che si fermassero.

    Osservò la loro superficie irregolare, rise sonoramente e parlò con voce gracchiante.

    -Il sangue bagnerà il Rothindel.

    Capitolo 1

    Il deserto d'Oriente era uno spettacolo desolante.

    Ampie zone sabbiose, aride, si alternavano a vegetazione più o meno densa; un'immensità che si alternava a se stessa, ciclica.

    In mezzo al niente, un cavaliere risplendeva nella sua armatura.

    Non aveva l'elmo, e la sabbia a tratti lo costringeva a socchiudere gli occhi, facendolo irritare.

    Il suo cavallo, guizzante come un fulmine, correva verso la sua destinazione: Alj-adrain. Era una bestia leggendaria, possente, ottenuta attraverso incroci delle migliore razze.

    Avrebbe potuto battere in velocità una bestia di Feldmora, e si diceva che non avrebbe avuto problemi a correre per giorni. Il cavaliere sapeva che tutto questo non si limitava alle leggende e poteva già scorgere la sagoma della capitale del Regno d'Oriente davanti a sé.

    Mentre la sabbia scossa dal vento ancora gli impediva una buona visione, pensava agli avvenimenti di qualche giorno prima.

    Mathrayyidi aveva inviato una lettera, scritta con un linguaggio estremamente semplice:

    "Da Mathrayyidi, Sultano dell'Oriente, Re dei Re, al re del Rothindel, salute.

    Chiedo udienza col vostro campione più forte, a fine di stabilire rapporti diplomatici, entro tre giorni."

    L'uomo sorrise, Sapendo che la sobrietà dello scritto derivava dal fatto che il Gran Re cercasse di non apparire ridicolo usando termini raffinati, scrivendo in lingua rothin.

    Il Sultano sapeva che nessun abitante del Rothindel parlava la lingua d'oriente, ritenuta una seccatura inutile. Perché imparare una lingua, quando devi combattere chi la parla? In guerra, il dialogo non conta.

    Ma non era la modalità di scrittura del messaggio che lo turbava, quanto il contenuto.

    Perché Mathrayyidi chiedeva espressamente la visita del campione del Rothindel, cioé il guerriero più forte della nazione? Perché non ricorrere ad ambasciatori?

    Il cavaliere era memore delle manovre politiche del predecessore al trono, ed era al corrente delle atrocità che il Gran Re attuale compiva con calma e fermezza a scapito del proprio popolo.

    Tutto questo attraverso osservatori e spie del nord ad Alj-adrain.

    Sapeva che quell'uomo era dannatamente scaltro,ma anche profondamente stupido. Un invito del genere non poteva significare niente di buono per nessuno.

    Dall'alto del cavallo, ricordava l'espressione del re del nord quando lesse il messaggio. Perplesso, ma fiducioso nelle capacità del Campione. Non aveva tutti i torti; Mathrayyidi si sarebbe pentito di ogni azione troppo avventata.

    Fra questi pensieri, l'uomo alzò gli occhi al portale d'ingresso, e si inoltrò al trotto nella grande città.

    Dopo qualche metro, fu fermato da guardie del Gran Re, vestite con grandi turbanti e vestiti ampi e cadenti che ne impedivano i movimenti.

    Uno di loro inciampò nei voluminosi abiti e cadde per terra cercando di avvicinarsi. Il cavaliere rise.

    -Buffoni!-, disse. Nessuno poteva comprenderlo. Peccato.

    -Bella guardia reale! Il vostro re sarà fiero, quel povero imbecille!

    Lo chiamava così: l'imbecille. Infangava così il nome del Re dell'impero più forte del mondo. Ma non gli importava.

    Qualcuno comprese il significato di quelle parole, forse dal modo sprezzante con cui l'uomo le aveva proferite. Si avvicinò con una picca, con fare minaccioso.

    Il cavaliere si fece serio, gli strappò l'arma di mano prima che potesse fare alcunché, e lo colpì sulla nuca col manico, poi sulla tempia, violentemente. Il guerriero cadde svenuto, e gli altri fuggirono dicendo parole incomprensibili.

    -Ho fatto già abbastanza danni-, pensò.

    -L'imbecille sarà ansioso di vedermi.

    Portò il cavallo alle stalle. Da quello che riuscì a capire, lo stalliere gli stava giurando eterna fedeltà, impaurito. Aveva visto lo spettacolo della picca.

    Il cavaliere sorrise, e si avviò verso la reggia, a grandi passi.

    Intorno a sé vide obbrobri di ogni genere. Tumuli invece di case, persone sporche e ammalate che lo guardavano spaventate, fogne a cielo aperto.

    La sozzura per le strade era inimmaginabile; vecchie baracche scalcinate di legno marcito si affacciavano ad ogni angolo.

    Erano i quartieri dei poveri, cioè gente smunta, debole, indifesa contro i soprusi del sultano.

    Nessuno lì vedeva da tempo speranze di vita migliore. Gli abiti della gente erano logori, e qualcuno piangeva accanto alla persona amata.

    Uno spettacolo straziante.

    L'uomo, vestito impeccabilmente, si sentì un verme in mezzo a tanta miseria. In un certo senso, egli era infinitamente più sporco di tutti quegli straccioni, in quel momento.

    Una madre lo fermò. Lo supplicò di dargli qualche moneta per il pargolo che teneva in braccio.

    -So che non puoi capire ciò che dico-, disse, allungando alla donna un sacchetto colmo di monete.

    -Ma il tuo re pagherà per tutto questo.

    La donna se ne andò, ma non prima di aver ringraziato mille volte l'imponente guerriero e di averlo abbracciato come si abbraccia un figlio che va in guerra.

    Si avvicinò alla gradinata, che separava i quartieri poveri dalle abitazioni dei ricchi. Si arrestò. Vide gli arcieri pronti a fare fuoco su di lui.

    Istintivamente, portò la mano alla spada, pronto a scartare di lato per ripararsi dalle frecce.

    Si udì un corno e gli arcieri si ritirarono.

    -Sarà meglio-, disse il cavaliere fra sé e sé.

    Salì i pochi gradini, e per la prima volta dopo tantissimi anni, un guerriero del nord solcava la soglia del leggendario Palazzo Eterno.

    Le porte dell'enorme reggia si stagliavano in tutto il loro splendore, solenni, come giganti dormienti ma consapevoli della loro grandezza.

    L'ebano, che ne costituiva gran parte, era finemente lavorato dai migliori artigiani di tutto il regno. Le maniglie erano di pesante acciaio levigato, così come i cardini, capaci di resistere all'assedio di mille frombole.

    Gran parte della superifice del legno era coperta da motivi gloriosi, che riportavano vittorie e leggende d'Oriente.

    Oltre la grande arcata, che preludeva ad un'anticamera riccamente decorata, si manifestava Alj-adrain, la perla dell'oriente, il Castello dei Titani. Volte e arcate si rincorrevano in un gioco intricatissimo sul soffitto; si diceva che tale abbondanza avrebbe potuto far impazzire il più bravo degli architetti per l'abilità della realizzazione, nel tentativo di districarsene.

    Ampie stanze laterali si aprivano ai lati dell'ambiente principale. Qui arazzi, altri motivi di leggende, tappeti, sete, preziosi cimeli e tesori sfoggiavano tutto il loro splendore; in fondo alla sala, il leggendario Trono dei Re.

    Questo era un capolavoro di marmo, tempestato di pietre preziose; una statua del dio della vita, Radijyd, era collocata appena dietro, immortalata nel perenne atto della coronazione di chiunque si fosse seduto sul Trono.

    Disposti lungo tutta la lunghezza, enormi pilastri di porfido sorreggevano la struttura.

    Il campione volse lo sguardo attorno. Quello spettacolo avrebbe colpito chiunque. Ma non lui.

    L'imponente guerriero era stato invitato ad Alj-adrain in visita al sultano Mathrayyidi, il cui nome era solito essere storpiato dai sudditi in May'rajyedi, Lo Spietato, non certo per una visita amichevole.

    Egli era il Re dei Re nell'oriente. Un suo cenno poteva voler dire vita o morte per infinite città. Tutto questo potere, però, non giustificava la sua sventatezza.

    La sua spiegazione per l'incontro che stava per avvenire era stata Per fini diplomatici. Ma il cavaliere sapeva che non era così, e tornava a chiamare il sultano un povero imbecille, solo per il fatto di pensare che qualcuno avesse potuto credere a una scusa così ridicola.

    Il re dei barbari aveva acconsentito, non solo per scoprire i progetti del Re, ma anche perché conosceva bene il valore dell'eroe e della sua spada, Bðnngrind, compagna di mille battaglie. E così, l'uomo fu inviato dal sultano, fu ricevuto in armatura, e le guardie all'ingresso della città non si preoccuparono nemmeno minimamente di sequestrargli la spada. Imbecille.

    Il nome del campione era Radiros. Questi era alto, imponente, sulla trentina. Aveva barba e capelli folti, neri, con occhi marroni e profondi. Le cicatrici sul suo volto richiamavano a infinite battaglie del passato.

    Più pronto a una battaglia che a una missione diplomatica, Radiros, nella sua armatura completa, si dirigeva a lenti passi vero il Trono, pestando senza ritegno sul ricco pavimento di marmi e corniola.

    I suoi stivali rilucevano, colpiti dalla luce delle vetrate; la sua fusciaccia di pelo copriva in parte i gambali adamantini. La sua cotta di maglia era stata intrecciata dai migliori fabbri di Rothindel.

    Il paladino sfoggiava uno spallaccio d'acciaio sulla spalla destra per maggior protezione in guerra e, sulla spalla sinistra, un semplice copri spalla di pelle, che non nascondeva la potenza del braccio. Lui affermava che così avrebbe potuto strangolare più facilmente gli sfortunati nemici che gli si accostavano troppo. Tutti pensavano che scherzasse, ma non sapevano che ognuna delle migliaia di tacche incise sul guanto borchiato significava una vittima.

    Purtroppo, per il viaggio, aveva dovuto rinunciare all'elmo, per non allarmare troppo quell'imbecille.

    Ma la sua Bðnngrind era sempre lì, al suo fianco, mai sazia di nemici. Maestosa quanto letale, la lama dell'arma era di metallo ricavato da una stella, affilatissimo e inossidabile; Radiros era sempre attento a pulirla dal sangue in cui la immergeva ad ogni battaglia.

    L'elsa presentava un manico nero ricurvo, atto a deflettere i colpi nemici. Un diamante era incastonato all'altezza dell'impugnatura, la quale era avvolta in una striscia di pelle per rinsaldare la presa. Alla fine del manico, due piccole spade incrociate, argentee, che circoscrivevano una miniatura di scudo di pelle di lupo. I dettagli erano rifinitissimi; era un'arma degna di un re, o di un eroe di guerra, quale era lui.

    Si fece largo attraverso la sala; il lungo mantello marrone copriva le tracce del suo passaggio. Centinaia di persone apparvero dai lati; cortigiani, nobili, parassiti.

    Tutti parassiti indistinguibili, vestiti allo stesso modo: ricchi turbanti e vesti decorate.

    Fra queste constatazioni, Radiros non si accorse quasi di essere arrivato ai piedi di Radijyd, e si arrestò.

    Il suo sguardo si posò subito sullo Spietato, seduto sul trono.

    Se possibile, egli era abbigliato ancor più riccamente, quasi da far male agli occhi. Il cappello piumato era simile a quello di un dio; le babbucce, per quanto indicassero a un uso casalingo più che formale, dovevano avere un prezzo inestimabile. Lo stesso dicasi per la fine seta e gemme che costituivano l'abito, molto più cerimonioso delle calzature.

    Guardò fisso Radiros per un istante. Poi si alzò in piedi.

    Si sentì un arco tendersi, dagli spalti.

    Il Gran Re, che già con dei gesti aveva cercato di far capire al paladino di doversi inchinare di fronte a lui, ne aveva suscitato soltanto l'indifferenza, e si capiva già da subito quanto Mathrayyidi ne fosse indispettito.

    Ci fu un lungo istante di silenzio.

    -Tu devi essere Radiros-, iniziò il sultano.

    -Così mi chiamano, altezza.- Dicendo questo, Radiros si avvide di quanto il re fosse piccolo in confronto a lui, nella sua imponente corazza.

    Il barbaro stava già pensando che, se lo avesse strangolato con la mano sinistra, avrebbe dovuto perlomeno segnare cinque tacche, per celebrare una così ambita preda.

    Comunque, il Re si sentiva più ben disposto da quella parola proferita dal nemico, altezza, senza nemmeno troppa freddezza.

    -Allora, eroe del nord... immagino che tu sappia perché ti ho fatto chiamare.

    -So che vuole stabilire rapporti diplomatici col nostro popolo.

    -Nelle tue parole c'è del vero, ma non è solo per questo.

    -Sto ascoltando-. Radiros si pose ad ascoltare attentamente le parole del sultano, da cui poteva dipendere una pace o una guerra sanguinosa. E se per Radiros c'era qualcosa di più grande e glorioso della guerra, era sicuramente la potenza e la pace di tutto il popolo.

    -Benissimo. Dunque, tu sai che il mio glorioso popolo da tempo è in conflitto con la tua gente. Ora, mio padre non riuscì mai a trovare un contatto. E' ciò che voglio fare io.

    -Ah, sì? E perché?

    -Non c'è bisogno di chiederlo. Voglio concedervi un ultimatum. Avete sempre disprezzato la mia casata; è giunto il momento che mostriate un po' di rispetto.

    Radiros colse sin da subito la nota spavalda e pomposa nel tono dell'imbecille. Notò anche che, nel parlare la lingua barbarica, biascicava non poco, facendogli proferire tutte quelle vanterie con la tecnica oratoria di un garzone. Tuttavia, Il paladino non perse tempo e incalzò.

    -Capisco. Ma non c'è bisogno di questo. Noi non intendiamo arrecare alcun danno al popolo d'Oriente, se questi non costituisce per noi una minaccia.

    Era il cavaliere, a questo punto, che stava concedendo un ultimatum al Re. Ma Mathrayyidi intese l'apparente remissività del nordico come un primo segno di cedimento, di sottomissione. Si sbagliava.

    - Purtroppo, la neutralità non è un'opzione.

    -E la vostra proposta diplomatica, questo... ultimatum... in cosa consisterebbe?

    -E' semplice, mio buon amico. Rinunciate alla vostra strenua difesa e al vostro onore, e potrete andarvene dai vostri territori senza che vi sia fatto niente di male. Perseverate, e sarete sterminati: le vostre pelli saranno lavorate e usate per creare gli arazzi che celebreranno la mia grandezza, i vostri figli diventeranno braccianti dei miei acri, e le vostre donne diventeranno parte dell'harem.

    Radiros si aspettava questa mossa. Ormai era ovvio: il sultano aveva attirato là il simbolo della forza barbarica per toglierlo di mezzo e gettare nel caos i Rothindel. Non si era accorto di questo grande controsenso: l'eroe non avrebbe accettato, se non fosse stato sicuro del fatto suo. Evidentemente, il Gran Re non aveva mai visto il guerriero combattere.

    Rumore di passi. Clamore di spade. In lontananza. Radiros sapeva di essere circondato, nonostante nella sala ci fossero solo lui, il Tiranno, e i nobili spauriti.

    Dal-Yemel, il consigliere, era rimasto celato dietro una delle porte che davano sulla grande sala, allibito dalle parole del Re. Il sultano gli aveva mentito, non aveva mai avuto intenzione di cercare una vera intesa. Si volse e se ne andò, esterrefatto. Il gesto del Re significava una sola cosa, e il funzionario reale lo sapeva bene: un uomo capace di mentire al suo più fidato amico è anche in grado di ucciderlo nel sonno.

    Radiros esplose in una risata fragorosa, che echeggiò per gli ambienti della reggia.

    -O mio re, lasciatemi dire che non siete proprio portato per la diplomazia!-, disse il gigante.

    Mathrayyidi rimase spiazzato da questa spavalderia. Ma si ricompose subito.

    -Forse, Radiros, forse-, valutò il Gran Re. -Ma è anche vero che non avete speranze contro di me. Guardatevi: spauriti, divisi, pronti a collassare. Io intendo solo cogliere la vostra miseria e trasformarla in una dignitosa resa a favore della mia gente.

    -Avete un bel parlare, sire. Eppure ignorate tante cose sul vostro medesimo conto.

    -Cosa intendi dire?

    -Guardatevi attorno. Il vostro potere è una farsa. Il popolo vi chiama May'rajyedi, Lo Spietato.

    -Come fai a sapere...? Questo non è assolutamente vero.

    -No, potente re? E' vero, voi navigate nell'oro. Voi e il vostro seguito. Ma appena mettete piede fuori dal castello, scommetto che anche voi siete investito dal tanfo di pestilenza e morte che dilaga per le strade di città di persone morenti, stremate dalla fame e dalle guerre. Questo è il motivo per cui non siete riusciti ancora a dominarci; questo è il motivo per cui avete cercato una distorta e pomposa diplomazia, e sarà anche il motivo della vostra resa finale.

    -BASTA!

    Tuonò il Gran Re. Non sopportava che gli si desse dell'incapace in questo modo: lui sapeva cos'era meglio per la gente, lui era IL re, non uno dei tanti. Aveva il potere. E lo avrebbe dimostrato a questo misero uomo, che insozzava di lordura la reggia millenaria.

    Un ghigno si fece largo sulla faccia del sultano.

    -Tu non rivedrai la tua patria. Né ora, né mai!

    A queste parole, seguì un gesto preciso: il Re alzò entrambe le mani e le congiunse a mezz'aria. Decine di arcieri uscirono dalle alcove delle terrazze, con le frecce incoccate, mentre le truppe reali sbarravano le porte e aspettavano che i tiratori facessero il loro dovere.

    Radiros scartò di lato appena i guerrieri si fecero vedere. Cinque frecce si conficcarono nel bel pavimento, nel posto dov'era prima il paladino.

    Afferrò fulmineamente un combattente troppo avventato e lo usò come scudo per ripararsi dalla seconda salva di frecce. Gettò il corpo esanime lontano da sé, e con una capriola trovò rifugio dietro il Trono, che fu riempito di punte acuminate. Una freccia sfiorò la barba nera del campione. Il Gran Re fece appena in tempo a gettarsi a terra per non essere colpito dai goffi arcieri, impediti dalla mancanza di spazio sulle terrazze e incapaci quindi di prendere bene la mira.

    -No, fermi! Il mio Trono! Maledetto, la pagherai!

    Gli arcieri stavano per rincoccare altre frecce, quando Radiros corse dal nascondiglio verso un pilastro portante e lo stroncò con un fendente di Bðnngrind. Emise un gemito di dolore per il contraccolpo.

    Il Palazzo Eterno tremò brutalmente; le terrazze vicine, non più sorrette dall'enorme colonna, crollarono di schianto.

    Decine di arcieri caddero dalle postazioni, sfracellandosi sul bel pavimento, sempre più rosso.

    Tutti i presenti osservavano attoniti, persino gli arcieri rimanenti.

    Radiros corse verso un altro pilastro.

    -No! Fermati! La mia reggia!

    -RICHIAMALI, IMBECILLE!-, gridò furibondo l'eroe.

    -RICHIAMALI, O TI PORTERO' CON ME NEL REGNO DEI MORTI!

    Il Gran re non poteva sopportare di essere trattato così. Ma ancora di più non poteva sopportare che la sua magnificenza fosse distrutta.

    -Ritiratevi, arcieri! Fuori di qui! VIA! E voi, fanteria, avanti!È da solo!

    Quelle parole. È da solo. Radiros, all'udirle, si arrestò e si voltò con rinnovato furore. Gli occhi marroni si intorbidirono di colpo, diventando di colore rosso. Sorrise macabramente, assunse una posizione da guerra brandendo Bðnngrind, e corse incontro ai guerrieri spauriti con un grido terribile.

    Il Gran Re osservava lo spettacolo accanto a un muro; i nobili, coerenti col loro codice di valori, se n'erano andati, terrorizzati.

    La lunga spada perforò i corpi dei primi due soldati che incontrò, uno dei quali vi rimase conficcato mentre con un fendente mieteva le vite di altri sei nemici. La faccia del nordico fu inondata di sangue d'Oriente.

    Si abbassò per evitare un colpo di alabarda.

    Ridendo, afferrò saldamente il collo con la mano sinistra di uno di loro, che iniziò a divincolarsi, e con la destra roteava la spada, sgozzando i meno accorti.

    Sempre stringendo il soldato, sferrò un possente calcio ad un altro assalitore; scartò a sinistra, e un picchiere uccise un compagno per sbaglio.

    Lanciò con una terribile forza l'uomo esanime che stringeva nella mano addosso al picchiere, e l'urto fu tale da scaraventarlo al muro.

    Uno spaurito spadaccino ferì Radiros al braccio. Lui glielo fece rimpiangere.

    Colpì un uomo con una forte gomitata, che lo fece crollare a terra.

    Un arciere troppo coraggioso si affacciò da quegli spalti che erano ancora intatti e scoccò rapidamente una freccia; il guerriero si scansò e la freccia colpì un soldato. Dopodiché, Radiros strappò con violenza la lancia di un alabardiere e la scagliò all'arciere, colpendolo nel petto.

    Ormai le guardie del Gran Re erano state decimate; qualcuno tentò di rialzarsi, di riorganizzare un attacco, ma incontrò solamente la lama del nemico.

    I rimanenti cominciarono a scappare.

    Il paladino azzoppò un paio di quelli e li finì con colpi di elsa alla nuca.

    Riuscì ad afferrare quelli più lenti e a scagliarli verso le colonne, fracassandogli la testa.

    Ormai i soldati erano o morti, o in prossimità della porta, scappando terrorizzati.

    Girandosi verso l'ampio portale, Radiros vide due ritardatari.

    Con un movimento roteante, scaglio Bðnngrind, che andò a conficcarsi nella schiena di uno dei due; emise un grido e cadde, trascinando per terra con sé il compagno accanto.

    Lentamente, l'eroe andò a riprendere la spada. La tirò fuori dalla schiena del soldato, e vide che l'altro era vivo, ma terrorizzato.

    Lo sguardo di odio bruciante del cavaliere fece posto a un'espressione seria, poi gli occhi rossi tornarono al consueto color marrone scuro.

    -Va'. Vivi.

    Il soldato fuggì.

    Il Gran Re, abbandonato dai sudditi, era ancora vicino al muro, tremante.

    Radiros si avvicinò. Il sultano tirò fuori un pugnale. Con un manrovescio, Radiros glielo tolse di mano, quasi rompendogli il braccio.

    Si accostò alla sua faccia, e parlò con tono calmo.

    -Questa è la guerra.

    Indicò il portone d'ingresso, e parlò di nuovo.

    -Questo è quanto il tuo popolo ti ama, o mio re. Ti faccio dono della vita.

    Radiros sapeva che umiliare un re aveva un effetto molto più traumatico sulla popolazione che ucciderlo. Fece capire quale dei due regni fosse quello più forte. Uccidere il re avrebbe solo significato eleggerne uno nuovo. E poi avere un imbecille a capo dell'esercito nemico non dispiaceva, al nordico.

    Afferrò sua maestà per le spalle e lo lanciò per terra. La seta del suo ricco abito strusciò sul marmo, facendo fare al re diversi metri sulla schiena.

    Il paladino raccolse il pugnale e incise una tacca sul guanto sinistro. Poi lo infilò nella fusciaccia.

    Si diresse poi verso la statua del Dio della Vita, lentamente. Sguainò Bðnngrind...

    -Ti prego, no-, piagnucolò il re.

    -Calmati. Non farò niente alla statua. Solo a ciò che rappresenta.

    Rinfoderò la spada, e staccò la corona marmorea dalle mani del Dio. Poi se la posizionò sulla gamba destra e la frantumò, con un deciso movimento di reni.

    Radiros si diresse verso l'uscita. Solo lui e il re rimanevano nella reggia, ormai ridotta a rovina.

    -Ossequi.

    -Pagherai, cane. Pagherai per tutto...

    Uscì dal portale, e percorse con calma le vie della città fino a raggiungere le scuderie per riprendersi Felrdnin, il suo cavallo.

    Nessuno osò fermarlo mentre camminava con calma. Le guardie fuggivano ancora, gli arcieri erano svaniti.

    Gli abitanti della città guardavano esterrefatti, loro che avevano sentito solo grida fino a quel momento, poi un silenzio assordante, e visto un guerriero coperto di sangue uscire dalla reggia.

    Qualcuno gli gridò qualche parola nella sua lingua, sconosciuta a Radiros, ma dal tono si capiva che era una sorta di ringraziamento.

    Ritrovò la donna che gli chiese la carità, con ancora in braccio l'infante. Lo guardava a occhi sbarrati. A sua volta, il guerriero la guardò con compassione. Forse lei aveva perso il marito in guerra, chissà. Ma non aveva visto gli orrori, il fumo e il sangue di una strage.

    Si volse verso Felrdnin.

    -Andiamo, amico.

    L'eroe uscì dalla città e cavalcò verso nord-ovest, alla volta di casa. Sapeva che non sarebbe finita lì. L'esito della missione diplomatica era stato disastroso, e di lì a poco il Sultano, uomo orgoglioso che non sopportava di essere malmenato in quel modo, avrebbe mosso le truppe a costo della vita dei suoi sudditi.

    Il Gran Re era un uomo che non perdonava, e aveva appena subito il più grande affronto della sua vita.

    Sarebbe tornato a cercare Radiros.

    Il guerriero lo avrebbe aspettato.

    Capitolo 2

    Il primo sole d'autunno sorse sul paese di Breidh.

    Per molti, questo era un buon periodo dell'anno. Il vicino Bosco d'Autunno, infatti, raggiungeva il suo massimo splendore, e i cacciatori potevano contare su prede più numerose.

    Un delicato vento scuoteva leggermente le chiome degli alberi, in un moto ipnotico.

    Per chi non condivideva questo spirito, questo giorno era soltanto simbolico, ed era visto come un'altra giornata di lavoro, simile a molte altre.

    Breidh era un paese situato a sud della capitale, Rothin. Il luogo era l'incarnazione della concezione più basilare possibile di villaggio; un insieme di poche persone autonome, un posto dove tutti conoscevano tutti e c'erano perlopiù buoni rapporti fra gli abitanti. A nord, proprio sopra il paese, si apriva il Bosco d'Autunno, immenso; verso ovest c'era la strada per la capitale, e a sud-est un passaggio che dava sul Regno d'Oriente.

    L'orfanotrofio del paese, costruito in seguito al grande incendio avvenuto anni prima e che interessò gran parte delle case, ma non la Foresta, ospitava quanti avevano perso i propri cari nel tragico evento. Era una solida costruzione di pietra e legno.

    Il popolo del nord si contraddistingueva per forza e volontà, e gli orfani non solo superarono il trauma, ma diventarono fondamentali nella comunità di Breidh. I più si mantenevano autonomamente aiutando i compaesani nelle mansioni più pesanti.

    Una voce riecheggiò negli ambienti dell'edificio.

    -Rocai!

    Nessuna risposta.

    -Rocai!

    Seguì un lungo gemito. Una porta che dava sul corridoio si aprì.

    Un ragazzo si sporse.

    Questo era alto, slanciato, con i capelli di colore castano scurissimo, folti e arruffati; essendo diciassettenne, presentava solo un accenno di barba, dello stesso colore scuro.

    I suoi occhi marroni erano socchiusi. Si era appena svegliato.

    -Andiamo, forza. C'è da spaccare la legna.

    -Arrivo.

    Si accorse di essere seminudo.

    -Aspetta, mi vesto.

    -Muoviti!

    -Ho capito, Fedryen!

    Fedryen era una ragazza della stessa età di Rocai, che aveva vivaci occhi castani e capelli neri come la notte. Aveva attraversato la fase della pubertà, e il ragazzo da qualche tempo provava un certo interesse per lei. La conosceva da una vita, e il suo carattere gli era sempre piaciuto: solare, estroversa, simpatica. Da pochi anni, il suo corpo si era sviluppato, conferendole un fisico che non passava certamente inosservato.

    Si infilò la sua casacca da lavoro con fatica, sbadigliando ripetutamente.

    Uscì fuori incerto.

    -Dannazione, Rocai, svegliati-, disse a se stesso, scuotendo la testa con vigore.

    La luce lo investì e dovette socchiudere nuovamente gli occhi per poter distinguere ciò che aveva intorno. Pian piano, il paese natìo si mostrò alla sua vista.

    Si guardò intorno. C'era un gruppo di ragazzi dell'orfanotrofio che si stava preparando ad adempiere alle mansioni quotidiane. C'era chi si preparava alla pesca, praticabile solo nei tratti del Fiume Dorato dove l'acqua era più profonda; qualcuno si infilava i guanti da lavoro per assistere il fabbro; altri prendevano gli strumenti da lavoro per andare nei campi.

    Vide Fedryen che stava imbracciando l'arco. Indossava un abito verde e marrone, atto alla mimetizzazione, che le metteva in risalto il seno.

    Le si avvicinò.

    -Com'è che a me tocca sempre spaccare la legna e tu vai a colpire bestie a casaccio nel bosco?

    La ragazza si voltò quasi offesa, poi vide il sorriso sulla faccia di Rocai e sorrise a sua volta.

    -Perché io sono una donna, ovvio.

    -E allora?

    -Non posso certo fare lavori così pesanti.

    -Oh, poverina. Ti si sciupano le mani, eh?

    -Precisamente!-, disse lei ridendo, e diede un pugno scherzoso al braccio di Rocai.

    -E come mai viene anche lui con te?

    Dicendo questo, indicò dietro di lei, dove un altro ragazzo stava sistemando la lancia, che serviva a finire le prede agonizzanti in seguito a un colpo malamente inferto con l'arco.

    Era piuttosto alto, con capelli e baffetti biondi. Era un bel ragazzo, ma decisamente stupido.

    -Sei una donna anche tu, Masdral?

    -No, ma almeno io ne ho avuta qualcuna.

    -La maggior parte delle tue donne non sono oggetto di vanto, sai.

    -Sei solo invidioso, Rocai.

    -La bionda della settimana scorsa aveva un accenno di barba sul collo.

    -Le conferiva un tocco di classe.

    -Glielo conferivano anche i baffetti, immagino.

    -Ripeto, tutta invidia.

    -Ma non vi siete lasciati perché aveva affermato di volerseli far crescere?

    -E va bene, lo ammetto. Ma è stata la mia unica esperienza sfortunata.

    -L'ultima aveva la gobba e una gamba di legno.

    -Sì, ma eravamo al buio.

    -Ora che ci penso, Masdral, sei sicuro che fosse una donna?

    -Ho detto che era buio.

    -Sei ripugnante.

    -Oh, senti, sei tu qui quello che professa la fedeltà a UNA sola donna.

    -Cosa c'è di sbagliato?

    -Cosa c'è di sbagliato? Tutti gli uomini rispettabili del Rothindel hanno almeno quattro donne per volta. Assicurare la continuità della stirpe è fondamentale. Io ne avevo tre. Tu al massimo ne hai una.

    Rocai scosse la testa.

    -Se mi sento bene con una persona, non vedo perché dovrei cercare qualcun'altra.

    -Basta litigare, ragazzi-, disse Fedryen, che fino ad allora era stata ad ascoltare quei discorsi e che temeva che la discussione potesse degenerare ulteriormente. Sembrava piacevolmente stupita dalla filosofia di Rocai.

    -Andiamo, Masdral.

    -State attenti, nella foresta. Potreste trovare Wirdrunn.

    Wirdrunn era un enorme cinghiale dal manto nero. Si diceva potesse sfondare una casa con un paio di cariche, ma pochi l'avevano visto; era considerato alla stregua di una leggenda.

    Abbracciò l'altro ragazzo, e si allontanò nella selva, leggiadra. Scomparvero fra gli alberi in pochi istanti. Gli altri ragazzi se n'erano già andati.

    L'aria era carica dei profumi dell'autunno. Un vento tiepido e gentile scosse nuovamente i rami della foresta, e i capelli di Rocai.

    Questi rimase a fissare il fitto del bosco per qualche secondo, poi raccolse l'ascia, se la posizionò sulla spalla e si mise a spaccare legna.

    Ripensò alle difficoltà avute nello svegliarsi completamente. I suoi sogni erano spesso incentrati sulle armi e sulle battaglie, e raramente si convertivano in incubi. Ultimamente, però, durante ogni sogno, appariva una figura incappucciata, più o meno in risalto durante gli avvenimenti onirici. Tutto quello che l'uomo misterioso faceva era fissarlo in lontananza. A volte riusciva a cogliere le sue parole, portate in modo distorto dal vento. Non sapeva cosa dicesse, ma si svegliava madido di sudore nel suo letto. La notte appena passata, poi, l'incubo aveva raggiunto l'apice. Nel sogno, stavolta, il ragazzo si trovava di fronte alla figura. Poteva scorgerne i tratti: un vecchio sorridente, con uno sguardo inquietante e una cicatrice sulla guancia sinistra. Stavolta riuscì a capire nitidamente le sue parole. Povero amico mio, aveva detto con una voce profonda ed echeggiante da far rabbrividire. Non sai ancora quante zampe ci sono nella tua stanza.

    Rocai aveva recepito il distorto messaggio e si era svegliato di colpo, e aveva passato un'oretta a cercare ragni in camera sua. Era fortemente aracnofobico; e stavolta, l'incubo era riuscito a condizionarlo nella vita vera.

    Interrompendo il suo lavoro, il ragazzo chiuse gli occhi, sospirò e si voltò verso il sole. La sensazione di calore lo confortò, e lo aiutò a smettere di riconsiderare i pensieri della notte.

    Invece, rivolse la mente alle guerre e alle armi, che lo avevano sempre affascinato.

    Sperava, un giorno, di poter imparare a maneggiare correttamente la spada, e di poter difendere la sua terra.

    Ogni uomo del Rothindel era libero di seguire la sua strada, ma il massimo onore era nella carriera militare; solo così si accedeva all'Asgardh degli eroi, cioè il castello dove i guerrieri morti in battaglia continuavano a vivere, combattendo e banchettando per l'eternità.

    Il ragazzo aderiva a queste credenze, e desiderava un giorno varcare l'Halgrind, cioè il cancello dal quale si accede al castello degli eroi nell'aldilà. Questo non significa che la sua massima aspirazione fosse morire in battaglia; per i più convinti era così, ma lui aveva ben altri progetti. Nella sua mente di ragazzo, avrebbe preso parte ad allenamenti che l'avrebbero reso un guerriero, è vero. Ma desiderava anche allontanarsi dal suo piccolo paese, che non offriva molte prospettive. Chissà, forse un giorno avrebbe visto Rothin, la mitica capitale del popolo di cui era fiero di far parte. Intraprendere la carriera militare poteva soddisfare il suo desiderio di indipendenza dal villaggio, e gli avrebbe garantito, in futuro, l'ingresso all'Asgardh.

    Per ora, era costretto al mestiere di spaccalegna per poter sopravvivere. Ma fin da piccolo, il suo più grande sogno era stato di poter servire la sua patria, proteggere la sua casa, combattere i nemici del regno al fianco di guerrieri leggendari, festeggiare la buona riuscita delle sue imprese.

    Per questi valori così fortemente incentrati sull'onore e la forza, coltivati negli anni e consolidatisi insieme al suo desiderio d'indipendenza, negli anni Rocai aveva dimostrato di aver maturato grande temperanza e sangue freddo nelle avversità, e il suo sogno era rimasto quello di poter garantire il benessere del suo popolo per ricevere il dono dell'Asgardh.

    C'era una caserma a pochi chilometri da Breidh, dove il ragazzo sperava di arruolarsi un giorno. Non avendo alcun tipo di formazione con la spada, però, avrebbe dovuto pagare una quota piuttosto elevata per essere ammesso, e stava lentamente raccogliendo i soldi necessari.

    Coerentemente alle sue forti convinzioni, era riuscito prima di tutti gli altri a superare mentalmente la sua condizione difficile di orfano. A chi faceva le sue condoglianze dopo aver appreso della morte dei suoi genitori, lui rispondeva, quasi alterato, che non era un motivo di rammarico. Egli non aveva mai conosciuto i suoi genitori, e non si sentiva legato a loro, non ricordandone il volto e a malapena serbando memoria del loro nome. Pertanto, nonostante questa visione fosse dura, gli consentiva una capacità di ripresa non comune.

    Posizionò un pezzo di legno sul ceppo, e alzò l'ascia.

    -Il benessere del popolo... non ho mai avuto nemmeno modo di allenarmi decentemente con la spada-, disse ad alta voce, ragionando più realisticamente. Era solo lì, tutto il paese era indaffarato altrove, e nessuno poteva sentirlo.

    Spaccò in due la legna.

    -Quella datami dal fabbro in cambio del legno per i manici è forse l'unica di tutto il paese.

    Prese un altro tocco.

    -Non c'è nessuno disposto ad allenarsi con me, e la vecchia quercia non è un nemico troppo pericoloso. Subisce e basta.

    Calò l'ascia.

    Sorrise.

    -I miei genitori sarebbero orgogliosi di me! …oppure no?

    Tentò di prendere un altro pezzo, ma non afferrò niente. Si girò e vide che la catasta di legna era finita. A volte, il suo lavoro durava tutto il giorno, altre volte era questione di ore. Tutto dipendeva da quanto duravano le riserve di tocchi rimaste agli artigiani del paese.

    -Non sarà il mestiere della mia vita, pensò, ma per quanto duro, almeno è veloce.

    Conficcò l'ascia nel ceppo, e andò a lavarsi la faccia dal sudore al fiume a ridosso della foresta.

    Per un secondo gli balenò in testa l'idea di andare a cercare Fedryen e Masdral, ma rinunciò.

    L'interesse di Rocai per lei era facilmente intuibile, e pareva che lei ricambiasse. Ma allora, perché stava così spesso con quell'idiota che usava le donne per il suo piacere personale?

    ...idiota? Forse invece aveva ragione a comportarsi così. Il ragazzo cominciò a ricredersi.

    Tuttavia, avendo finito prima di tutti i compagni dell'orfanotrofio, lo spaccalegna colse l'occasione per addentrarsi davvero nella Foresta, ma non per cercare Fedryen.

    Si fece largo fra le fronde degli alberi, e raggiunse una radura coperta di foglie. Si guardò un po' intorno.

    -Alwyr!-, gridò.

    Dalle foglie spuntò il muso di un cavallo, bianco come il latte, luminoso come di luce propria.

    I suoi profondi occhi, azzurri come la linea che congiunge cielo e mare, ricercarono guizzando la forma del giovane intorno a sé.

    Si alzò e e trottò verso Rocai.

    -Come va la zampa, oggi?-, chiese il ragazzo, controllando la benda che aveva applicato qualche giorno prima a una delle zampe centrali, ferita da una caduta.

    Alwyr aveva sei zampe; non era un cavallo comune. Le leggende del nord narrano che ogni foresta abbastanza estesa, nel Rothindel, viene dotata dagli déi di un'anima propria, vivente, che può manifestarsi in molti modi. Il più delle volte, quest'anima si trova sottoforma di animale, anche se non sempre

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