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Lunga vita all'impero
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Lunga vita all'impero
E-book498 pagine7 ore

Lunga vita all'impero

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Info su questo ebook

È giunta l’ora, per gli eroi dell’esercito romano, di incontrare il più mortale dei nemici

54 D.C. A causa dei tumulti che provengono dalle frange orientali dell’impero romano, il prefetto Catone e il centurione Macrone si trovano a far fronte a una nuova minaccia. L’impero partico ha invaso l’Armenia, che gode della protezione di Roma, e il sovrano è stato deposto. Il re Radamisto è ambizioso e privo di scrupoli, ma è leale nei confronti di Roma. Per questo il generale Corbulone è stato incaricato di rimetterlo sul trono e di prepararsi alla guerra contro i parti. L’arrivo di Catone e Macrone, soldati di grande esperienza, rappresenta l’unica speranza che Corbulone ha per tenere alto il morale delle truppe e organizzare l’offensiva. Ma riusciranno a tenere a bada il narcisismo del re Radamisto? Il sovrano, infatti, è intenzionato a ottenere la sua vendetta ed è solo questione di tempo prima che compia un passo falso che potrebbe mettere a repentaglio le sorti della guerra, l’invincibilità di Roma e, soprattutto, migliaia di vite…

Un autore da 5 milioni di copie
Tradotto in 10 Paesi

Hanno scritto dei suoi libri:
«L’invenzione e la storia si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli.»
Corriere della Sera

«Simon Scarrow è riuscito a costruirsi una discreta fama. Merito del modo in cui costruisce i suoi personaggi, ma anche del fatto che ha saputo cogliere e raccontare il fascino di certi momenti storici. Quelli in cui il corso degli eventi determina per sempre il futuro.»
Il Giornale

«Simon Scarrow spopola.»
Il Venerdì di Repubblica

Simon Scarrow
è nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore delle serie Le aquile dell'impero (Il centurione, Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, La spada di Roma, Roma alla conquista del mondo, Roma o morte, Il pretoriano, La legione, L'aquila dell'impero, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, Sotto un unico impero, Per la gloria dell'impero, L'armata invincibile, La spada dell'impero), Roma arena saga (La conquista, La sfida, La spada del gladiatore, La rivincita, Il campione), I conquistatori (La battaglia della morte, Il sangue del nemico, Il richiamo della spada, L'erede al trono, Muori per Roma) e Revolution saga (La battaglia dei due regni, Il generale, A ferro e fuoco, L'ultimo campo di battaglia). Ha firmato anche i romanzi I conquistatori (con T.J. Andrews), L'ultimo testimone (con Lee Francis) e Eroi in battaglia. Le sue opere hanno venduto oltre 5 milioni di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2019
ISBN9788822737274
Lunga vita all'impero
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Lunga vita all'impero - Simon Scarrow

    Capitolo 1

    Ctesifonte, capitale dell’impero dei parti, marzo, 55 d.C.

    Il sole al tramonto illuminava un ampio tratto del fiume Tigri che luccicava come oro fuso contro l’arancione pallido del cielo. L’aria era calma e fresca e le ultime nuvole del temporale che aveva colpito la città si erano spostate a sud, lasciando un leggero odore di ferro nel crepuscolo. Gli schiavi del palazzo reale correvano da una parte all’altra mentre preparavano la tenda a bordo fiume per la riunione di quella sera tra il re e i suoi consiglieri in cui si sarebbe discusso della recente minaccia romana nei confronti della Partia. Erano spronati dalle impazienti urla e dai fischi del ciambellano, un uomo molto esile, invecchiato anzitempo per l’ansia derivata dall’occuparsi dell’irascibile sovrano di un impero che si estendeva dall’argine del fiume Indo fino ai confini della provincia romana della Siria. Re Vologase era un uomo desideroso di far tornare in auge l’impero dei parti e non disposto a tollerare chiunque si frapponesse tra lui e il suo destino, nemmeno in piccolissima parte. Tantomeno nobili ribelli o servitori goffi e inefficienti. L’ultimo ciambellano non era riuscito ad assicurarsi che il cibo servito a un banchetto fosse abbastanza caldo una volta raggiunta la tavola reale. Per questo motivo era stato frustato quasi a morte prima di essere gettato per strada. L’attuale ciambellano era risoluto, non avrebbe seguito il suo esempio, quindi malediceva e picchiava i suoi sottoposti mentre disponevano divani, pile di legna accanto ai bracieri e spessi paraventi ricamati sui tre lati del padiglione. Il quarto era stato lasciato aperto per permettere al re e ai suoi ospiti di godere della vista del fiume mentre il sole scompariva dietro l’orizzonte e le stelle spuntavano e iniziavano a luccicare sulle scure acque del fiume.

    Dopo aver appoggiato con cura gli ultimi cuscini di seta, gli schiavi tornarono nella parte al chiuso in attesa che il ciambellano esaminasse il loro lavoro e si chinasse per fare una manciata di piccoli aggiustamenti per accertarsi che tutto fosse sotto controllo. Non che Vologase fosse incline a ispezionare da vicino ogni singolo dettaglio del lusso in mezzo al quale era abituato a vivere. Tuttavia, rifletteva il ciambellano, meglio essere scrupolosi che correre anche il minimo rischio di scatenare l’ira del re. Dopo aver completato l’ispezione, batté le mani con forza.

    «Su, cani! Portate la frutta e il vino!».

    Quando gli schiavi iniziarono ad allontanarsi trottando, si girò verso il suo assistente. «E tu dì al mastro cuoco che faccia in modo che i piatti siano pronti per essere serviti all’istante quando darò l’ordine!».

    Il suo assistente, un uomo corpulento, più giovane, che senza dubbio aspirava a prendere il suo posto, annuì e corse via. Il ciambellano diede ancora un’occhiata al lavoro dei suoi sottoposti e, in piedi davanti alla pedana regale, aguzzò gli occhi per ispezionare meticolosamente il largo divano, i cuscini e le federe. Si chinò per rimuovere delicatamente una piega del tessuto e poi si alzò e incrociò le braccia soddisfatto. Fatto ciò, e non era da lui, abbozzò un sorriso e si guardò attorno con fare circospetto. Ma era praticamente da solo. Era una cosa che succedeva di rado, preso com’era dalla miriade di impegni derivati dalla sua carica. L’interludio sarebbe stato abbastanza breve prima che gli schiavi tornassero con la frutta e il vino, insieme all’assaggiatore ufficiale, che avrebbe testato ogni scodella e giara su richiesta del ciambellano per essere sicuri che il re Vologase potesse mangiare e bere in tutta tranquillità. Se quello dei parti, oltre a essere vasto, era un impero duraturo, lo stesso non si poteva dire per i suoi imperatori, i quali spesso erano vittime di complotti di nobili influenti, o delle ambizioni di membri della famiglia reale.

    Il ciambellano respirò profondamente guardando il divano regale e sentì l’irrefrenabile impulso di gettarsi sui cuscini di seta, di nascosto. Sarebbe stata una questione di secondi e nessuno l’avrebbe mai saputo. Il suo cuore accelerò al pensiero di una violazione così inusuale del protocollo e per pochi secondi fu sul punto di cedere alla tentazione. Poi tornò in sé e si mise una mano davanti alla bocca, e rabbrividì pensando a cosa ne sarebbe stato di lui se il re l’avesse scoperto. Anche se il ciambellano era da solo, la paura nei confronti del suo superiore prevalse sul suo istinto e si spaventò al pensiero della sua imprevedibile follia. Con il respiro affannato corse in cima agli scalini che conducevano ai giardini ai lati del sentiero che si diramava attorno al palazzo. Il primo degli schiavi stava tornando, carico, con un grande vassoio d’argento ricoperto di fichi, datteri e altri frutti pregiati.

    «Muoviti, cagnaccio!», sbraitò il ciambellano, e l’uomo iniziò a correre cercando di non rovinare la composizione sul vassoio.

    Il ciambellano diede un’ultima occhiata al tutto e offrì una veloce preghiera a Mitra, pregando che il suo superiore non trovasse nulla che potesse renderlo scontento.

    Quando il re e il suo piccolo seguito spuntarono dal castello, il sole era già scivolato dietro l’orizzonte e una striscia di cielo bronzeo si estendeva tra il paesaggio in ombra e il cielo. Sopra, il color bronzo lasciava spazio al violetto e alla vellutata oscurità della notte, dove le prime stelle brillavano come pagliuzze argentee. Una parte delle guardie marciava in prima fila, armata di lance e con larghi pantaloni dai sontuosi ricami infilati negli stivali. Le armature e corazze laminate e i conici elmetti brillavano alla luce delle torce e dei bracieri ai lati del passaggio. Ma non era niente in confronto alla magnificenza del loro sovrano, era come comparare il metallo più grezzo all’oro.

    Vologase era un uomo alto e ben piazzato, con folte sopracciglia e la mascella squadrata, tratto ancor più accentuato dalla meticolosa rifinitura della sua barba scura. I suoi occhi erano altrettanto scuri, come lucido ebano, e dotavano il suo sguardo di una notevole intensità. Ma sembrava esserci anche umorismo nella sua espressione. Le sue labbra si sollevavano alle estremità così che sembrava sorridesse quando parlava con la sua voce calda e profonda. E, senza dubbio, sapeva anche essere un uomo dotato di spirito e bontà, oltre a essere ambizioso e saggio, e i suoi soldati e le sue genti lo guardavano con leale affetto. Ma quelli che lo conoscevano bene diffidavano dei repentini sbalzi d’umore cui era solito e così sorridevano quando lui sorrideva e stavano fermi e rigidi quando si arrabbiava. Quella notte era di umore nero. Erano giunte notizie dalla capitale che l’imperatore Claudio era morto e che gli era succeduto sul trono il figlio adottivo, Nerone. Vologase si interrogava su come questo cambio al potere potesse ripercuotersi sui rapporti tra Roma e la Partia, rapporti che si erano inaspriti negli ultimi anni. La causa, come sempre, era l’Armenia, quello sfortunato regno di confine da sempre ambito sia dai romani che dai parti. Circa quattro anni prima, un pretendente al trono armeno, il principe Radamisto del vicino regno di Iberia, aveva invaso l’Armenia, ucciso il re e la famiglia, e si era insediato come nuovo sovrano. Radamisto aveva dato prova del fatto di esser tanto crudele quanto ambizioso, e gli armeni avevano fatto appello a Vologase affinché li salvasse dal tiranno. Così Vologase aveva schierato le sue truppe contro Radamisto, che era fuggito dalla capitale, e aveva messo sul trono suo fratello Tiridate. Era stata una provocazione, e Vologase lo sapeva bene, poiché Roma guardava all’Armenia come regno sotto la sua sfera di potere da ormai cent’anni. I romani non erano propensi a considerare positivamente l’intervento dei parti.

    Il ciambellano, che stava aspettando all’entrata, fece un inchino quando la truppa salì la scalinata verso la tenda. Le guardie si schierarono fuori, salvo i due uomini più grossi, che si misero ai due lati del podio regale. Vologase prese posto sul divano e si mise comodo prima di fare cenno ai membri del consiglio supremo.

    «Sedetevi!».

    In una situazione formale i suoi ospiti sarebbero rimasti in piedi di fronte al loro sovrano, ma Vologase aveva deliberatamente scelto la tenda e messo da parte il protocollo di corte per incoraggiare i suoi subordinati a esprimersi in libertà. Dopo che questi ebbero preso posto sui divani, il re si sporse in avanti, afferrò un fico dal vassoio e diede un morso, dando così il permesso agli altri di mangiare quel che volevano. Vologase sputò il frutto morsicato sul vassoio e si mise a osservare gli ospiti: Sporace, il suo miglior generale; Abdagase, il tesoriere regale; e il principe Vardane, figlio maggiore del re ed erede al trono di Partia. Un ambasciatore di Tiridate completava il quadretto: un giovane, circa della stessa età del principe, di nome Mithraxes.

    «Abbiamo poco tempo da perdere, amici miei», disse Vologase. «Vi prego dunque di perdonarmi se farò pochi convenevoli. Immagino avrete tutti ricevuto le notizie da Roma. Abbiamo un nuovo imperatore da combattere. Nerone».

    «Nerone?». Sporace scosse la testa. «Questo nome non mi dice nulla, maestà».

    «Non mi stupisce. È stato adottato solo qualche anno fa. Figlio dell’ultima moglie dell’imperatore Claudio, avuto da un precedente matrimonio».

    «La stessa donna che si rivelò essere la nipote di Claudio», aggiunse Vardane ironicamente. Schioccò la lingua e alzò un sopracciglio. «Questi romani, eh? Proprio dei lussuriosi. Mai nulla che non sia scandaloso».

    Gli altri sorrisero al commento.

    «Cosa sappiamo di Nerone?», continuò Sporace. Il generale era un veterano che aveva avuto poco tempo per la frivolezza, caratteristica che ben si sposava con i suoi lineamenti scarni. Molti a corte avevano poco riguardo nei suoi confronti per via dei suoi modi burberi, ma Vologase conosceva il suo valore di soldato e ne stimava il talento. Inoltre Sporace, in quanto figlio di un mercenario greco e di una puttana di Seleucia, era disprezzato dai grandi nobili della Partia, e non rappresentava pertanto una minaccia per Vologase.

    Il re fece cenno ad Abdagase, che gestiva la rete di spie che la Partia usava per raccogliere informazioni su quello che accadeva nell’impero romano. «Hai letto l’intero rapporto. Riferiscilo!».

    «Sì, maestà». Abdagase si schiarì la gola. «Per prima cosa, è giovane. Ha solo sedici anni. È poco più di un ragazzino».

    «Sarà». Sporace inclinò leggermente la testa. «Ma Augusto aveva solo diciott’anni quando decise di far fuori i suoi oppositori e divenne il primo imperatore romano».

    «Nerone non è Augusto», lo contraddisse il tesoriere seccato. «Potrebbe diventare come Augusto un giorno, ma ci sono remote possibilità secondo le nostre spie a Roma. Al nuovo imperatore piace considerarsi una sorta di artista. Un musicista. Un poeta… Si circonda di attori, musicisti e filosofi. Ha l’ambizione di rendere Roma una sorta di faro per quel tipo di persone, piuttosto che rivolgere i suoi pensieri alle questioni militari».

    «Un artista? Un musicista?». Sporace scosse la testa. «Che razza di imperatore è questo qua?»

    «Uno che potremmo manipolare, spero», disse Vologase. «C’è da sperare che il giovane Nerone continui a concentrarsi sull’arte e non venga distratto dagli eventi in Armenia».

    Abdagase annuì. «Sì, maestà. Possiamo sperare, ma potrebbe essere saggio non essere guidati da una mera speranza. Nerone sarà anche un dilettante, ma sarebbe da pazzi screditarlo a priori. È circondato da consiglieri, alcuni dei quali hanno intelligenza ed esperienza sufficienti per causarci problemi. Anche perché soffrono del morbo di Roma».

    «Il morbo di Roma?». Vardane alzò un sopracciglio, si prese un altro fico e diede un grande morso. Iniziò a masticare lentamente, prima di riprendere con la bocca piena. «Che… malattia… è questa?»

    «È un’espressione che alcuni di noi usano a corte per riferirsi a quei romani ossessionati dalla ricerca della gloria e dal loro irremovibile senso dell’onore. Nessun nobile romano, qualunque sia il suo status, rinuncerebbe all’opportunità di conquistare consenso per la sua famiglia. A qualunque costo. E questo è il motivo per cui Crasso cercò di invadere la Partia e finì male. E Marco Antonio dopo di lui. È un peccato perché sembra che vogliano misurare il loro valore cercando di fare meglio dei loro predecessori, e sono portati ad avere successo dove gli altri hanno fallito». Abdagase fece una pausa. «Pare che le disfatte di Crasso e Antonio non possano che portare i romani a vedere la Partia come una sfida da superare. Uomini assennati farebbero tesoro delle sconfitte dei predecessori, ma il senso dell’onore degli aristocratici romani prevale quasi sempre sulla ragione. Augusto fu abbastanza avveduto da realizzare che avrebbe ottenuto di più dalla diplomazia che non dalle azioni militari nei suoi rapporti con la Partia, e i suoi eredi seguirono nella maggior parte dei casi il suo esempio. Anche se questo significò scoraggiare i senatori che premevano per muovere guerra contro di noi. Il punto è questo, sarà il giovane imperatore capace di resistere alle lusinghe dei suoi consiglieri e del senato?»

    «Spero vivamente di sì», rispose Vologase. «La Partia non si può permettere di correre il rischio che scoppi una guerra con i romani quando ci sono nemici che minacciano di dare problemi su altri fronti».

    Vardane sospirò. «Parli degli ircani, padre?».

    Vardane era il figlio preferito del re. Era coraggioso, intelligente e carismatico, tutte qualità che sono utili per un erede. Era anche molto ambizioso, e questa era una caratteristica da temere più che da ammirare. Soprattutto in Partia. Il re si fece scuro in volto.

    «Sì, gli ircani. Pare che disapprovino l’aumento delle tasse che ho imposto loro».

    Vardane sorrise. «Il che non mi sorprende. E non è di certo d’aiuto in un momento in cui abbiamo provocato i nostri sottoposti greci obbligandoli a mettere da parte la loro lingua e le loro tradizioni e ad abbracciare le nostre, anche se il greco è la lingua comune del mondo orientale. Poi ci sono guai in vista con i romani in Armenia». Bevve un sorso di vino. «Temo che ci stiamo spingendo troppo oltre. In particolare per quel che riguarda l’Armenia. Roma e la Partia sono come due cani che si contendono lo stesso osso».

    Il tesoriere diede un colpo di tosse e lo interruppe con gentilezza. «Sua altezza semplifica la questione. Si dà il caso che quell’osso sia nostro e che quei maledetti romani non abbiano nessun diritto di portarcelo via. Abbiamo sangue in comune con la maggior parte dei nobili armeni. L’Armenia si è sempre rivelata leale all’impero dei parti prima che i romani volgessero il loro sguardo a oriente».

    «Credo che possiamo tutti convenire che Roma non ha alcun diritto sull’Armenia. Ciò nonostante Roma rivendica l’Armenia, e se dichiarasse guerra, se la prenderebbe. Ho sentito parlare molto del potere delle legioni romane. Non riusciremmo ad avere la meglio su di loro».

    «Non in uno scontro sul campo, mio principe. Ma se riuscissimo a evitare uno scontro frontale, le nostre truppe potrebbero logorarli, indebolirli e, al momento giusto, farli a pezzi. Come i cani da caccia che uccidono gli orsi montani. O no, generale?». Abdagase si voltò verso Sporace in cerca di approvazione.

    Il generale ci pensò un po’ prima di rispondere. «La Partia ha sconfitto i romani in passato. Quando commisero l’errore di invadere la nostra terra senza una conoscenza approfondita del territorio o adeguate scorte per sostentarsi. Marciano lentamente persino senza armi d’assedio. Al contrario le nostre truppe possono avanzare molto più rapidamente, soprattutto i nostri arcieri a cavallo e i nostri catafratti. Ci possiamo permettere di temporeggiare sul campo per far sì che esauriscano le loro provviste e si indeboliscano. Ma questo vale solo se muovono guerra sui fiumi e sui deserti della Mesopotamia. L’Armenia è differente. I terreni montani avvantaggiano più la fanteria romana che i nostri arcieri. Temo che il principe Vardane abbia ragione. Se Roma vuole l’Armenia, riuscirà a prendersela».

    «Ecco!». Vardane schioccò le dita. «Te l’avevo detto!».

    «Comunque», continuò Sporace, «per conquistare l’Armenia, Roma sarà costretta a concentrare le sue truppe. I suoi soldati sono i migliori al mondo, si sa. Ma non possono essere in due posti contemporaneamente. Se marceranno verso l’Armenia, lasceranno la Siria scoperta. Non che pensi di conquistarla. Non abbiamo gli strumenti per farlo. La Partia non sarà mai abbastanza forte per distruggere Roma, e i romani non avranno mai abbastanza uomini per occupare la Partia. È sempre stato così, e sempre lo sarà, mio caro principe. Un conflitto che nessuna delle due fazioni può vincere. Per questo l’unica soluzione è la pace».

    «Pace!». Vologase sbuffò. «Abbiamo cercato di mantenere rapporti di pace con Roma. Noi abbiamo rispettato ogni trattato stipulato, sono stati quei maledetti romani piuttosto a romperli il più delle volte».

    Vologase, con la fronte corrucciata dalla frustrazione, rifletté un momento. «Ed è per questo motivo che dobbiamo essere certi di prendere una saggia decisione quando ci occuperemo della situazione in Armenia».

    Si girò verso l’ambasciatore mandato da suo fratello. «Mithraxes, non ti sei ancora espresso. Non hai nessuna opinione sul nuovo imperatore e sulle sue intenzioni in Armenia?».

    Mithraxes alzò le spalle con fare indifferente. «Conta poco la mia opinione, maestà. Sono un nobile armeno, discendente da una grande stirpe di nobili, nessuno dei quali ha mai vissuto così a lungo da poter vedere la propria terra libera dall’influenza sia dei parti che dei romani. I nostri re hanno l’abitudine di essere spodestati o ammazzati. Tuo fratello è sul trono da a malapena due anni. Non è peggiore di alcuni altri che hanno governato l’Armenia e…».

    «Fai attenzione alle parole che usi quando parli di mio fratello», lo avvertì Vologase.

    «Maestà. Sono stato inviato per fornire una relazione sulla situazione in Armenia e per chiedere il tuo aiuto. Credo che sia meglio che io parli chiaro».

    Il re lo guardò da vicino e si accorse che l’armeno non cercava di evitare il suo sguardo. «Coraggio e anche integrità? Sono tutti come te i nobili armeni?»

    «Purtroppo no, signore. Ed è il problema che affligge tuo fratello. Come ho detto, non è peggiore di molti sovrani, ed è senz’altro migliore di molti. Tuttavia, è stato obbligato a governare con il pugno di ferro per poter imporre la sua autorità sul suo nuovo regno».

    «Quanto severamente?»

    «Alcuni nobili preferiscono Roma, signore. Alcuni non sopportano di essere governati da uno straniero. Re Tiridate ha pensato che fosse necessario dare una lezione per scoraggiare tali tradimenti. Purtroppo, è stato necessario esiliarne alcuni e giustiziarne altri. Questo ha avuto l’effetto di sedare in parte lo scontento popolare».

    «Posso immaginare». Vardane sorrise. «Ma oserei dire che questo potrebbe aver portato alcuni a essere un po’ più scontenti».

    «Esattamente, sua altezza. Tuttavia, re Tiridate è ancora sul trono ad Artaxata. I suoi nemici sono intimiditi per ora. Anche se sono sicuro che presto chiederanno aiuto per destituire il re. Se non l’hanno già fatto». Mithraxes volse il suo sguardo a Vologase.

    «Pertanto tuo fratello chiede che tu gli invii un’armata per garantire il suo potere sull’Armenia. Abbastanza uomini per poter sconfiggere qualsiasi nobile che cospiri contro lui, e per dissuadere Roma dall’invadere le sue terre».

    «Un’armata? È tutto quello di cui ha bisogno?», disse il re dei parti con fare beffardo. «E mio fratello si crede che io tiri fuori armate così dal nulla? Io ho bisogno di tutti i miei soldati qui in Partia per affrontare tutte le minacce già elencate».

    «Non chiede una grande armata, maestà. Solo una truppa abbastanza forte da scoraggiare ogni tentativo di spodestarlo».

    «I ribelli armeni sono una cosa, i romani un’altra. Dubito che vengano scoraggiati dalle truppe che potrei mandare in Armenia».

    Mithraxes scosse la testa. «Non ne sono sicuro, signore. Le nostre spie in Siria ci hanno riferito che le truppe romane che sono là sono impreparate per la guerra. Hanno pochi uomini e sono scarsamente equipaggiate. È da molti anni che non combattono. Dubito che rappresentino una grande minaccia per il re Tiridate».

    Vologase si girò verso il suo generale. «È così?».

    Sporace rifletté un momento prima di rispondere. «È coerente con quanto riportano le nostre spie, signore. Ma se i romani dovessero decidersi a intervenire, porterebbero più legioni in Siria, e si assicurerebbero di trovare nuove reclute per le legioni già presenti. Ovviamente avrebbero bisogno di essere addestrate. Dovrebbero accumulare scorte, riparare strade e radunare le armi d’assedio. Ci vuole tempo per preparare una campagna. Forse anni. Ma una volta che i romani avranno deciso di attaccare, niente li potrà fermare. È il loro modo di agire». Fece una breve pausa per permettere agli altri di riflettere sulle sue parole, poi continuò. «Il mio consiglio sarebbe quello di non provocare ulteriormente i nostri nemici. Roma considera già come un affronto l’aver messo Tiridate sul trono. Ma non ha ancora deciso se attaccare o meno. Per di più non conosciamo ancora il temperamento di questo nuovo imperatore, Nerone. Potrebbe lasciarsi influenzare. Pertanto cerchiamo di non dare motivo ai più inclini alla guerra di persuaderlo a combattere. Piuttosto, suggerirei di adularlo con calorose e amichevoli parole e di congratularsi con lui per essere diventato imperatore. Se trova a ridire sulla nostra azione in Armenia allora digli che siamo stati obbligati a rimpiazzare il tiranno, e che non abbiamo alcuna mira sulle altre terre che confinano con l’impero romano». Chinò il capo e concluse. «Questo è il mio umile consiglio, signore».

    Vologase si riaccomodò sui suoi cuscini e incrociò le braccia pensando a tutto quello che aveva sentito dai suoi consiglieri. Era vero che l’orgoglio dei romani avrebbe resistito alle punzecchiature solo fino a un certo punto. Tuttavia, non poteva correre il rischio di inviare uomini in aiuto a suo fratello quando doveva comunque fronteggiare una potenziale ribellione in Ircania.

    «Pare che sia costretto ad aspettare il corso degli eventi. La scelta sul da farsi dipenderà da Nerone. Sarà lui a decidere se ci sarà la pace. O la guerra».

    Capitolo 2

    Tarso, capitale della Cilicia, provincia orientale dell’impero romano, due mesi dopo

    «È guerra!», annunciò il centuriore Macrone quando entrò nei quartieri del suo comandante facendosi scivolare via il mantello e lanciandolo su una cassa vicino alla porta. Era tornato dall’ispezione mattutina delle truppe che difendevano la casa del mercante di seta dove alloggiava il generale Corbulone.

    «Guerra?». Catone alzò lo sguardo dal pavimento su cui era seduto con suo figlio, Lucio. Il bambino stava giocando con dei soldatini di legno che alcuni soldati comandati da Catone avevano intagliato apposta per darglieli in dono. La Seconda coorte pretoriana era stata mandata da Roma per fare da guardia al generale Corbulone e al suo seguito. Catone si doveva ancora abituare all’idea di essere chiamato tribuno, dal momento che fino ad allora i soldati e gli ufficiali lo avevano chiamato prefetto, carica sotto la quale aveva acquistato davvero molta fama negli ultimi anni. Ma il generale Corbulone era molto attento al protocollo, e anche Catone lo era diventato. Durante il lungo viaggio da Brindisi gli uomini avevano iniziato a vedere Lucio come un portafortuna e lo viziavano a ogni occasione. Catone scompigliò con dolcezza i fini capelli scuri del figlio e si alzò. «Dove l’hai sentito?»

    «Annuncio imperiale. Un messaggero mandato da Roma l’ha letto nel foro poco fa. Sembra che il giovane Nerone abbia preso il toro per le corna e abbia deciso di affrontare i parti e riprendersi l’Armenia». Macrone sbuffò. «È dunque guerra».

    Entrambi gli uomini restarono per un po’ in silenzio mentre pensavano alle implicazioni della notizia. Non era una gran novità visto che la decisione di mandare il generale a prendere il comando delle armate della parte orientale dell’impero era già stata presa da alcuni mesi. Tuttavia, ragionava Catone, Roma in passato era spesso riuscita a ottenere quello che voleva semplicemente minacciando di usare la forza, tanto era il timore, nei confronti dell’impero, che provavano i regni che avevano avuto la sfortuna di scontrarsi con le sue legioni in battaglia. Forse l’imperatore e i suoi consiglieri avevano sperato che mandare un ufficiale della levatura di Corbulone sarebbe stato sufficiente a convincere i parti ad abbandonare le loro ambizioni di riannettere l’Armenia al loro impero. Era come se Nerone volesse testarlo. Ecco, oppure l’imperatore era stato persuaso che niente se non una guerra avrebbe potuto soddisfare il bisogno di affermare la sua autorità con fermezza. Non c’era niente che piacesse di più ai romani della notizia di un’altra guerra portata avanti con successo.

    «Be’ una cosa è certa», disse Macrone. «Ci vorrà un po’ prima che saremo pronti ad avanzare contro la Partia. Almeno fino a quando il generale non avrà radunato abbastanza uomini e provviste. Potrebbero volerci mesi».

    «Io pensavo un anno come minimo», rispose Catone. «E nel mentre i parti di certo non perderanno tempo. Si prepareranno e saranno pronti a combattere molto prima che Corbulone attraversi il confine».

    Macrone alzò le spalle. «Che si preparino quanto vogliono. Non farà molta differenza. Sai come sono fatti questi orientali, ragazzo. Un branco di femminucce che sfilano avvolte nella seta. Li abbiamo già affrontati prima d’ora e abbiamo dato loro una bella lezione».

    «Vero», ammise Catone. «Ma la prossima volta potrebbe andare diversamente. Non dimenticarti che Crasso ha perso la parte migliore delle sue legioni a Carre. Roma non può permettersi che questo scempio si ripeta».

    «Corbulone non è Crasso. Il generale ha combattuto sul Reno per quasi tutta la sua carriera e non ci sono nemici peggiori di quei bastardi in Germania. Se i parti hanno un minimo di buon senso, scenderanno a patti in quattro e quattr’otto». Macrone attraversò la stanza e allungò la testa nell’altra camera. Le imposte erano chiuse e all’interno c’era poca luce, ma si poteva distinguere la sagoma di una donna sdraiata su un fianco su un largo divano letto. «Ah, mi stavo chiedendo dove fossi andata, amore».

    La donna si mosse e lasciò andare un sospiro prima di tirarsi le coperte fin sopra alle spalle.

    «Lasciala dormire, povera donna». Catone lo allontanò dallo stipite della porta. «Petronilla è stata sveglia quasi ogni notte con il bambino. Gli era venuto mal di denti».

    «Allora perché lui è ancora sveglio e lei sta già dormendo?». Macrone gli fece l’occhiolino. «Credo che ci sia qualcosa che non va con la mia donna, Catone. È una sfaticata, senza dubbio».

    «Vieni qui a ripeterlo», ringhiò la balia di Lucio. «Che ti do uno scappellotto».

    Macrone rise. «Ecco il mio amore! Sempre pronta a litigare!».

    Si girò e chiuse delicatamente la porta prima di dirigersi verso il tavolo, dove c’erano ancora gli avanzi della colazione: pane, formaggio, miele e la caraffa di vino speziato, il preferito dalla gente del posto. Macrone afferrò la caraffa, la agitò e sorrise vedendo il liquido vorticare all’interno. Se ne versò una coppa, poi si fermò e guardò il suo amico. «Ne vuoi un po’?»

    «Perché no? C’è ben poco da fare per noi qui a parte ubriacarsi, perlomeno fino a quando Quadrato non arriverà in città».

    Macrone scosse la testa. «È un incontro che non promette bene».

    Catone annuì. Ummidio Quadrato era il governatore della Siria, una delle cariche più prestigiose per un senatore. O almeno lo era stato fino a quando non era arrivato Corbulone nella regione, sotto l’autorità dell’imperatore, per attingere a tutte le risorse, civili e militari, delle province confinanti con la Partia. Il generale aveva inviato un messaggio poco prima del suo arrivo, convocando Quadrato a Tarso per parlare dei preparativi dell’imminente campagna. Catone poteva ben immaginare come avrebbe reagito il governatore quando Corbulone gli avrebbe chiesto la maggior parte dei soldati, dell’equipaggiamento e delle provviste. Ci sarebbe anche stata la questione di ordinare alle province di sborsare più tasse per finanziare la manutenzione delle strade nella regione, così come quella di fornire animali da traino e carri per le salmerie e cavalli per la cavalleria. Quadrato sarebbe stato inondato da proteste da parte di magistrati infuriati che avrebbero sostenuto che non avevano le risorse per soddisfare quelle richieste. Non che sarebbero servite a qualcosa quelle lamentele. Era compito delle province dell’impero pagare quando l’esercito doveva preparare una campagna nella loro regione e non c’era modo di sottrarsi all’obbligo. A meno che le dirette interessate non volessero affrontare l’ira dell’imperatore una volta che si fosse saputo a Roma della loro avarizia.

    «Quadrato non sarà contento», concordò Catone. «Ma questa è la gerarchia di potere e non avrà scelta. Per di più, Corbulone non è quel genere di uomo che sa accettare un no come risposta».

    Si scambiarono un sorriso divertito. Nel corso del loro viaggio da Roma avevano avuto modo di conoscere il generale abbastanza bene da poter capire che tipo era. Corbulone era un soldato di carriera, un aristocratico che aveva una passione per la vita militare e che aveva avuto il talento per intraprenderla. Così dopo essere stato al servizio come tribuno era rimasto con le legioni invece di tornare a Roma e immergersi nel mondo della politica. Una delle poche virtù del percorso di carriera degli aristocratici romani, rifletté Catone, era che permetteva di scartare quelli con un limitato potenziale militare, e di far sì che rimanessero nell’esercito solo quelli che eccellevano. Corbulone era un generale soldato. Spesso divideva le razioni e le difficoltà con i suoi uomini. Quando questi dormivano all’aperto, lo faceva anche lui. In battaglia, una volta che i soldati avevano preso posizione e ricevuto gli ordini, lui comandava in prima fila. Spronava i suoi uomini al massimo, non più di quanto spronasse sé stesso. Per questo motivo si era guadagnato il rispetto dei soldati e un invidiabile affetto. Questo, Macrone e Catone lo avevano sentito dire da quel gruppetto di ufficiali che Corbulone aveva scelto di portare con sé dalla frontiera sul Reno. I due amici avevano servito comandanti così mediocri da essere entusiasti di essere stati assegnati al generale.

    C’era un’altra ragione per cui essere felici di essere ben lontani da Roma. Un nuovo imperatore significa cambiamenti, e quelli che avevano goduto dei favori di Claudio ora avevano un futuro incerto. Nuove personalità sarebbero state nominate alle cariche di potere e c’erano conti in sospeso. Ce n’erano sempre stati nel ribollire della politica romana. Inevitabilmente uomini influenti sarebbero stati accusati di crimini commessi nel precedente regime e ci sarebbero stati processi; alcuni senatori sarebbero stati esiliati, alcuni sarebbero stati eliminati in silenzio, e le loro proprietà sarebbero state divise tra gli informatori e il tesoro imperiale. Essere innocenti era irrilevante quando informatori e avvocati fiutavano sangue e, ancora più importante, denaro.

    Catone non aveva alcun desiderio di finire immischiato in quelle faccende. Soprattutto perché era stato ricompensato con i terreni del suocero, che era stato così incauto da finire in un complotto per deporre Nerone pochi giorni prima della sua nomina. Gli amici sopravvissuti del senatore Sempronio non avevano fatto un mistero di quello che pensavano in merito alla fonte della ricchezza appena raggiunta da Catone. Egli sapeva che la sua ricchezza aveva un prezzo, ovvero farsi dei nemici, che avrebbero cercato di screditarlo non appena sicuri che i tempi fossero maturi. Per questo motivo era stato ben contento di far parte del seguito del generale che avrebbe viaggiato verso est. Inoltre, aveva deciso di portare con sé suo figlio e la nutrice, per non lasciarli in ostaggio della fortuna a Roma, una decisione che aveva fatto piacere al centurione Macrone, dal momento che aveva iniziato una relazione con Petronilla, una donna che poteva bere quanto lui e tirare un pugno che avrebbe fatto invidia a qualsiasi incallito veterano della legione.

    Ed eccoli lì, tutti e quattro, in stanze in affitto a casa di un argentiere ebreo, in una strada accanto al foro di Tarso. Erano lì da un mese, di Quadrato neanche un segno, e Tarso, pur essendo una città accogliente, si era presto stancata della novità di ospitare un generale romano e una coorte di pretoriani. Ed era ancora più stufa della molesta ubriachezza dei soldati non in servizio. In circostanze normali Catone sarebbe stato irritato da un simile stato di inattività forzata. Ma questo ritardo faceva sì che avesse tempo da passare con suo figlio, e ne era grato. Così come Macrone era felice di aver l’opportunità di approfittare delle voluttuose grazie di Petronilla.

    Macrone versò a entrambi una coppa di vino e si sedettero sugli sgabelli ai due lati del tavolo e guardarono giù verso il piccolo e ordinato cortile della casa dell’argentiere. Una fontana si tuffava in una piscina al centro del cortile, attorno al quale era sistemata una serie di divani all’ombra di un graticolato. A Catone venne in mente il giardino della sua casa a Roma si chiese quando l’avrebbe rivisto.

    «Questa guerra contro la Partia», disse Macrone. «Quanto pensi che ci vorrà per dare a Vologase una bella lezione?»

    «Dipende da Corbulone. Se fa la cosa giusta, si assicurerà che avremo un nostro uomo sul trono armeno e potrebbe ritenersi già soddisfatto. Se assapora la gloria, a quel punto chi lo sa? Potremmo ritrovarci a dover marciare sulle orme di Crasso. E non porterà a nulla di buono. A ogni modo è quasi certo che finiremo a combattere. Nerone non sarà contento fino a quando non ci sarà una grande vittoria da celebrare a Roma».

    Macrone annuì e poi indicò Lucio. Il bambino, seduto con le gambette divaricate, proferiva versi a bassa voce mentre giocava, entusiasta, con i soldatini simulando un combattimento.

    « E Lucio e Petronilla? Che ne sarà di loro? Cosa gli accadrà quando inizierà la campagna?»

    «Possono restare qui. Mi assicurerò di far contento il nostro padrone di casa, Yusef, pagandolo con molto anticipo. È una persona per bene. Sono sicuro che baderà a loro quando saremo via. E li terrà al sicuro fino al nostro ritorno. Se ritorneremo». Catone era felice di aver deposto le sue volontà a un avvocato a Roma prima di partire. Almeno il futuro di Lucio era sicuro, a differenza del proprio.

    «Se? Mah!», Macrone scosse il capo. «Vedi sempre il bicchiere mezzo vuoto tu, eh… Ah, e per rimanere in tema». Rabboccò le coppe. «Andrà bene. Una volta che avremo dato un bello schiaffo a quei parti, saranno ben contenti di restituirci l’Armenia e di levarsi dai piedi tornandosene nel loro deserto, o via, da dove vengono».

    Catone fece una faccia afflitta. «È proprio questa mancanza di intelligenza che mi fa preoccupare, e dovrebbe preoccupare anche il generale».

    Macrone gli lanciò un’occhiataccia, ma Catone scosse il capo. «Sto parlando di intelligenza strategica, non della tua».

    «Sarà».

    «Non sappiamo quasi nulla del territorio dall’altra sponda dell’Eufrate», continuò Catone. «Dove si incontrano i due fiumi? Dove sono i fiumi, oltretutto? E i sentieri di montagna, le fortificazioni, le città, i villaggi, e via dicendo. Non abbiamo idea di quanti siano i nostri nemici, delle loro intenzioni, o di come siano schierate le loro truppe. Avremmo bisogno di guide che conducano le nostre truppe per la via più sicura, e in caso come potremmo essere sicuri di poterci fidare? Fu il tradimento di una guida a condurre Crasso alla disfatta». Catone bevve un sorso e rifletté per un momento. «Sono stato nella biblioteca imperiale prima di partire da Roma per vedere se potevo trovare qualcosa in merito alla Partia o all’Armenia».

    «Ma certo. I libri. Tu puoi sempre risolvere qualsiasi problema con i libri», disse Macrone, in tono sarcastico. «Deve esserci sempre una risposta da qualche parte».

    «Prendimi pure in giro quanto vuoi, ma contenevano informazioni utili. Non molte, te lo concedo. C’era un itinerario rimasto dalla campagna di Antonio. Non si prestava a una facile lettura. Non avevo idea delle dimensioni della Partia fino a che non ho controllato le distanze tra le città che incontrò. E l’uomo che disegnò l’itinerario ha lasciato una nota dicendo che le nostre legioni a malapena si addentrarono in un terzo della regione, secondo le sue fonti. Riporta anche la presenza di ampie distese desertiche e che ci vollero molti giorni prima di avere l’opportunità di nutrire e dare da bere agli uomini e ai cavalli. E poi si parlava dei nemici. Uomini poco inclini alla battaglia sul campo, mentre preferivano sempre dare fastidio alle nostre colonne e fare fuori guardie e sbandati».

    «Allora preghiamo gli dèi che Corbulone non voglia entrare in Partia – che si concentri sull’Armenia e che si limiti a portare a termine gli ordini dell’imperatore».

    Catone bevve un altro sorso e guardò nella sua coppa, facendone vorticare dolcemente il contenuto. «Non sarebbe il primo generale romano a essere tentato dalla prospettiva di ottenere la gloria in oriente».

    «E sono sicuro che non sarà l’ultimo. Ma non ci possiamo fare nulla, amico mio. Sono solo un centurione, e tu sei il tribuno che comanda la sua scorta. Siamo qui per obbedire agli ordini del generale, non per riportare consigli da rotoli polverosi da Roma. Dubito che Corbulone li possa vedere di buon occhio».

    «Beh, sì. Più o meno… Qualunque cosa accada, ho il sospetto che il nostro nuovo incarico non sarà breve».

    «Me ne farò una ragione», Macrone scolò la coppa e si pulì le labbra con il dorso della mano pelosa. «Questa parte del mondo è perlopiù calda e accogliente. Il vino è economico e le sgualdrine lo sono ancor di più». Guardò verso la porta che dava sull’altra stanza. «Ehm, non che stia cercando questo genere di cose al momento».

    Catone fece un gran sorriso. «Centurione Macrone, cosa sei diventato? Petronilla ti ha trasformato in un uomo nuovo. Faccio fatica a riconoscerti».

    «Con rispetto, puoi andarti a farti fottere, signore». Macrone si tirò su e incrociò le sue robuste braccia. «Sono lo stesso soldato di sempre. Non è cambiato nulla. Solo un po’ più brizzolato dalle tempie e qualche acciacco e dolore in più. Ma sono all’altezza della nuova campagna, se andrà per le lunghe, come temi».

    «L’ultima campagna?» Catone inarcò un sopracciglio. Sapeva che Macrone aveva servito la legione per oltre ventisei anni. Lui avrebbe potuto richiedere di andare in congedo e ricevere l’indennità che ne conseguiva. Se avesse voluto. Ma Macrone aveva rimandato ogni richiesta e aveva detto che non era ancora il momento. Aveva ancora qualche anno per dimostrare il suo valore di soldato. E Catone ne era felice. Aveva bisogno di avere Macrone al suo fianco quando andava in guerra, un bisogno che sfiorava la superstizione, e temeva il giorno in cui alla fine il suo

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