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Quando ero una farfalla
Quando ero una farfalla
Quando ero una farfalla
E-book306 pagine3 ore

Quando ero una farfalla

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Info su questo ebook

Quando Alessandro, giovane promessa del mondo della musica, muore improvvisamente in un incidente stradale, le vite di Eleonora e Andrea sembrano spezzarsi in pezzi piccolissimi. Se per Eleonora, la tragedia segna la fine della sua storia d’amore, per Andrea, quell’evento determina la perdita di un fratello. Il dolore monta, la sofferenza soffoca, ma il tempo, dicono, aggiusta tutto. Per Eleonora giunge infatti il momento di tentare una nuova vita, di cedere a una nuova speranza e, forse, di lasciare che un paio di penetranti occhi azzurri sconvolgano il suo precario equilibrio.
È la mossa del destino che tanto aspettava? O forse no? Per quanto tempo un segreto può rimanere tale? L’amore, la perdita, la riconciliazione con se stessi.
Eleonora e Andrea, alla fine di tutto, dovranno rispondere a queste domande, perché i sentimenti, quelli veri, non sempre si possono cancellare o dimenticare. Quelli, prima o poi, tornano a galleggiare nel cuore.
 
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2019
ISBN9788855310888
Quando ero una farfalla

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    Quando ero una farfalla - Elisabetta R. Brizzi

    Elisabetta R. Brizzi

    Quando ero una farfalla

    1

    Titolo: Quando ero una farfalla

    Autrice: Elisabetta R. Brizzi

    Copyright © 2019 Hope Edizioni

    Copyright © 2019 Elisabetta R. Brizzi 

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    ISBN: 9788855310888

    Progetto grafico di copertina a cura di Angelice Graphics

    Immagini su licenza Depositphotos.com

    Fotografo: ArturVerkhovetskiy

    Editor: Francesca Chiavarini

    Impaginazione digitale: Cristina Ciani

    Questo libro è concesso in uso esclusivamente per il vostro intrattenimento personale. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in qualunque forma o con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico, compresi i sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni, senza il permesso scritto dell’autore, tranne nel caso di brevi citazioni contenute in una recensione. Se state leggendo questo libro e non lo avete comprato, per favore, andate sul sito amydawsauthor.com per scoprire dove potete comprarne una copia. Vi preghiamo di rispettare il duro lavoro dell’autore. Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, avvenimenti o luoghi è puramente casuale.

    Tutti i diritti riservati.

    Prima edizione digitale ottobre 2019

    Indice

    Prologo

    Parte 1 - Il rumore dei ricordi

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Parte 2 - Respiri fragili

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Parte 3 - I nostri giorni lontani

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Parte 4 - Non dirmi mai più addio

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Hope edizioni

    A te,

    piccola mia.

    "Gioco a far la guerra, 

    perché l’amore non mi ha mai dato tregua.

    Ma se ti avrò di fronte ancora un’altra volta,

    nel dubbio, farò la cosa più giusta."

    (Emma - Mi parli piano)

    Prologo

    1

    Latina, 5 luglio 2018

    Tutto quello che resta di noi è racchiuso in questo giorno di sole. Incastrato nei tuoi occhi cioccolato, nella tua bocca rattrappita in una smorfia di dolore e rimpianto. È un ricordo incagliato sulla tua pelle avorio. Taci e abbassi lo sguardo sul caffè ormai freddo. Ti rifiuti di dirmi qualsiasi cosa, di farmi ascoltare, almeno per un momento, la tua voce. Quella voce che ho amato fin dal primo istante in cui l’ho sentita nella penombra di una sera ormai vecchia di tre anni.  

    Ho le mani serrate sul tavolo e le labbra strette. Vorrei piangere, ma non lo faccio. Ingoio un grumo di saliva, di pentimento e rimorso. Intorno a noi, il locale è pieno di gente che sorride, gente che è felice di viversi la sua estate. Ma per me, e forse anche per te, è come se non ci fosse nessuno. Tutti inghiottiti e svaniti nel nostro giorno dell’addio.

    «Io non volevo farlo.»

    Sono le uniche, quattro stupide parole che riesco a dirti. Contorco le dita, aspetto che tu mi risponda. Ho bisogno che tu lo faccia, Alessandro. Ho bisogno che tu mi conceda una possibilità. Una soltanto. Un’ultima possibilità per rimediare. 

    Alla fine reagisci e il mio cuore – ogni fibra di me – si spezza.

    Alzi il viso, la barba che non ti fai da qualche giorno ti rende più uomo. Vorrei accarezzarla. Nei tuoi occhi c’è l’ombra di una lacrima.

    «Perché, Ele? Voglio sapere solo questo. Perché?»

    È l’unica domanda a cui non so rispondere. Non so dare una spiegazione a quello che è successo. 

    Allungo una mano, l’adagio sulla tua e ti guardo o forse ti imploro di tornare a essere quello che eri, di farmi tornare a essere la tua venere farfalla.

    Esiti, fai per parlare di nuovo ma rinunci. Ti alzi. Frughi nelle tasche dei jeans in quel tuo modo un po’ timido e posi sul tavolo i soldi del caffè.

    «Alessandro, ti prego!»

    Scatto in piedi e urto la mia tazza di tè. Il poco che era rimasto si sparge sul tavolino in una macchia scura. 

    «Ti prego...»

    Di nuovo non rispondi. Mi dedichi solo un ultimo sguardo, ti stringi nelle spalle e vai via. Il tintinnio della campanella sulla porta d’ingresso e il tuo profumo acre svaniscono lenti nella luce del giorno.

    Parte 1 

    Il rumore dei ricordi

    Capitolo 1

    1

    Latina, 8 luglio 2018

    Le tempeste estive arrivano all’improvviso. Stravolgono gli equilibri di un giorno di sole e poi vanno via senza restituire alla terra quanto hanno sottratto. La morte di Alessandro è stata questo. Una tempesta inaspettata che ha lasciato tutti attoniti e incapaci persino di respirare. Forse non è un caso che abbia iniziato a piovere. Una pioggia che ci ricorda quello che abbiamo perso e che fa rumore esattamente come i nostri ricordi. 

    «Andrea, è ora di andare.»

    Papà spunta al mio fianco e la sua voce mi fa sobbalzare. Non so da quanto tempo me ne sto fermo qui, davanti alla finestra di casa, a fissare il portico bagnato e il giardino con le piante piegate dal peso dell’acqua e dalla forza del vento. Annuisco. Mi sistemo la cravatta sfruttando il riflesso del vetro. Il braccialetto d’argento e perle nere che indosso al polso destro tintinna piano. Chiudo gli occhi. Il brusio delle persone intorno a me si attutisce e io ho l’impressione di sentire i suoi passi e la sua voce chiamare il mio nome. Ingoio un grumo di pianto. Non posso permettermi di crollare. Non posso mostrarmi debole. Li riapro e mi volto verso mio padre. Il suo viso è un’ombra di angoscia. Gli stringo una spalla e mi avvicino al divano, a mia madre che se ne sta seduta là accanto a zia con gli occhi bassi e rossi di pianto. Ha legato i capelli biondi in uno chignon ma qualche ciuffo è sfuggito alla presa delle forcine e le cade sulla fronte. Le porgo la mia mano. Lei si alza appoggiandosi a me. La sua sofferenza è in ogni fiato, in ogni gesto, in ogni passo. Si muove incerta, evitando di posare lo sguardo su chiunque. Le circondo le spalle con un braccio e invito papà ad aprire la porta con un cenno del capo. Appena lo fa, lo scroscio del temporale ci invade.

    L’auto con il feretro di Alessandro è pronta a partire. Una cascata di gigli bianchi ricopre la bara quasi per intero. Mamma non ha voluto nessun altro fiore, è convinta che solo loro rappresentino mio fratello. Lui che se n’è andato in un giorno qualunque. Lui che resterà per sempre intrappolato nei suoi venticinque anni. Contraggo la fronte in un moto di rabbia. Ci può essere qualcosa di più schifoso? Accompagno mia madre alla mia macchina e l’aiuto a salire sul sedile del passeggero. Papà si accomoda dietro e, quando lo fa, incrocia le mani sul grembo curvandosi in avanti. Per un attimo mi dà l’impressione di essere in procinto di rompersi come il ramo di un albero spezzato dal vento.

    Chiudo l’ombrello prima di salire, gettandolo in un angolo della macchina. La pioggia m’investe, la sento oltrepassare la giacca, infradiciarmi la camicia e inzupparmi i capelli. Non ha nessuna importanza. Vorrei che mi strappasse di dosso la vita e la desse ad Alessandro. Mi decido a entrare. Chiudo lo sportello e accendo il motore in attesa di seguire il carro funebre.

    Mamma allunga una mano e l’adagia sulla mia. 

    «Ti prenderai un malanno così bagnato» dice con un filo di voce.

    «Sto bene, non preoccuparti.»

    A passo lento, ci muoviamo. L’auto con Alessandro supera il cancello nella foschia creata dal temporale. Le luci dei fanali affiorano nella penombra e sembrano vacillare. Quando raggiungiamo la strada, veniamo intercettati da una lunga fila di automobili. In una di esse riesco a intravedere Eleonora. I suoi occhi azzurri sono incastrati in un’espressione di doloroso stupore. La fronte è contratta e la bocca è serrata in una smorfia di pianto. D’istinto sposto lo sguardo al mio bracciale e lo sfioro con la punta delle dita. È tutto sbagliato e noi siamo vittime dei nostri stessi peccati. Peccati che dovremmo scontare in qualche modo. 

    Mamma fruga nella borsa e ne estrae un fazzoletto di carta. Si tampona gli angoli degli occhi mentre fissa con aria smarrita il feretro di Alessandro. Nonostante il dolore la strazi, riesce a conservare una grande dignità. Ha gesti misurati, traditi solo dal tremore che le scuote le dita.

    Impieghiamo pochi minuti ad arrivare in chiesa. Sparsi sulla piazza, ci sono gruppi di persone che si riparano sotto ombrelli colorati. Quella vivacità m’infastidisce.

    Il carro funebre si ferma di fronte al sagrato. Parcheggio senza curarmi troppo di dove lascio la macchina. Affido mia madre a papà e raggiungo gli addetti alle pompe funebri. Mi posiziono su un lato del feretro e li aiuto a trasportarlo all’interno della chiesa. A ogni passo che faccio mi sembra di procedere verso il vuoto e la sensazione si accentua quando mettiamo piede in chiesa e lasciamo la bara di fronte all’altare. Il prete ci saluta con un cenno del capo e sparge incenso dall’aspersorio. L’odore acre mi nausea e stordisce. Scosto indietro i capelli appesantiti dalla pioggia e cerco con lo sguardo mia madre e mio padre. Mentre lo faccio i miei occhi si posano su quelli di Eleonora, a pochi centimetri da me, con una mano sulla bara. Deglutisco. Mi manca il fiato. Ho bisogno di appoggiarmi a una delle panche per riprendere il controllo. Lei non dice nulla. Distoglie l’attenzione da me e la concentra sul feretro, accarezzandone la superficie. Sfiora i petali con le sue dita affusolate e sussurra parole che non mi consente di ascoltare. È così pallida che temo possa svenire da un momento all’altro. Faccio un passo nella sua direzione per sostenerla ma si allontana di riflesso. I suoi lunghi capelli castani, legati in una treccia laterale, ondeggiano appena. Come sempre, quando si muove, sembra che danzi. Mia madre e mio padre arrivano a sedersi nella prima fila. Eleonora fa un sospiro, aspetta un momento e poi si avvicina a loro salutandoli con un abbraccio. Si accomoda dietro insieme alla sua famiglia. 

    Io ho bisogno ancora di un momento prima di unirmi a mamma e papà. Ho bisogno di fermare il mio sguardo sulla bara e di ripetermi per l’ennesima volta che oltre quel legno c’è Alessandro. Mio fratello. 

    Il prete posa l’aspersorio e invita tutti a prendere posto. Il rintocco sordo delle campane accompagna i suoi gesti metodici. Finalmente riesco a sedermi accanto a mia madre. L’odore dell’incenso continua a essere forte ma, ora, percepisco anche un profumo di ortensia. Il profumo di Eleonora.

    Il silenzio dei cimiteri mi ha sempre messo a disagio, fin da bambino, quando cercavo di stare al passo di mia madre nelle sue visite ai nonni, a quelli che erano stati e che sarebbero continuati a essere i suoi genitori. Il rimbombo dei tacchi delle scarpe sul pavimento, l’odore dei fiori confuso a quello delle candele e poi le facce dei morti intrappolate nelle cornici sui loculi mi riempivano il cuore di angoscia. Forse è per questo che ho scelto di diventare un medico. Volevo strappare più persone possibili alla morte. Peccato che poi non sempre ci si riesca e quando si fallisce ci si ritrova a vivere giorni come questo. Giorni impossibili. Un brivido mi sale lungo la schiena. Un rumore sordo e meccanico mi fa alzare lo sguardo. La bara di mio fratello viene calata giù, nella terra, nel luogo che mia madre e mio padre hanno scelto per lui. Solo adesso mi rendo conto che intorno ci sono le lapidi di altri ragazzi e ragazze. Sono invase da pupazzi, maglie delle squadre del cuore e biglietti che adesso annegano nelle pozzanghere. Chissà se così ti sentirai meno solo, Alessandro.

    Il montacarichi si ferma e rilascia il feretro. Una cascata di fiori cade su di esso. Fiori dei miei genitori. Fiori dei nostri parenti, degli amici e di Eleonora. Incerta la vedo fermarsi sul limitare della fossa. I suoi occhi cerulei sono smarriti, ancora increduli che quello sia davvero il presente. Stringe una mano al petto e lascia cadere il suo giglio bianco. Poi fa un passo indietro e appena la terra ricopre quel che resta di mio fratello, si volta di spalle e si precipita fuori dal cimitero. 

    Non dovrei allontanarmi da qui ma non posso lasciarla sola. Non posso permettermi di mandarla via in questo modo. So che non si farebbe avvicinare da nessun altro. Così faccio una carezza lungo la schiena di mia madre e la raggiungo. Lei se ne sta appoggiata contro il muso di una macchina, con il viso affondato nelle mani. Stendo un braccio nella sua direzione riparandola con il mio ombrello. Quando non percepisce più l’acqua su di sé, alza lo sguardo spiazzata. Io mi limito a osservarla senza dire nulla. 

    «Che ci fai qui?» mi chiede con voce tremante.

    «Ero preoccupato.»

    «Sto bene, avevo... avevo solo bisogno di stare sola.»

    Di nuovo il silenzio scende tra di noi. Un muro di impenetrabili pensieri e sensazioni. Eppure avrei molte cose da dirle. Vorrei chiederle dell’ultimo incontro con Alessandro, sapere cosa si sono detti. Vorrei dirle che è stata fortunata ad averci parlato prima che tutto si distruggesse. Vorrei dirle di considerare il tempo passato con lui come un regalo. 

    Poso una mano sulla sua guancia e finisco con il dirle l’unica cosa su cui avrei dovuto tacere.

    «Tu lo sai che non è colpa tua, vero?»

    Eleonora cerca di allontanarmi da sé con una spinta.

    «Cazzate. Sono tutte cazzate. Lo sappiamo entrambi qual è la verità.»

    «È stato un incidente e…»

    «Basta, smettila, Andrea.»

    Si porta le mani sulla testa e le affonda nei capelli. Sembra quasi voglia strapparseli via.

    «Ho sbagliato tutto e l’ho perso.»

    Si lascia scivolare a terra. È così dannatamente fragile adesso. 

    «Ho sbagliato tutto quanto.»

    L’ultima frase viene coperta dai singhiozzi del suo pianto. Io non riesco di nuovo a respirare. Vederla così è uno strazio. Mi appoggio con una mano al cofano. Chiudo gli occhi. L’ombrello mi sfugge via. Lascio che l’acqua torni a travolgermi. Vorrei mi uccidesse. Sarebbe un buon modo per non provare più niente. Riapro gli occhi e mi volto verso Eleonora. Non ha cambiato la sua posizione. Continua a piangere con le braccia strette intorno al ventre. I capelli le cadono davanti al viso appesantiti dall’acqua. Mi scosto dall’auto e mi accuccio di fronte a lei. La circondo con le braccia facendole adagiare la testa sul mio petto. Stavolta non mi rifiuta e mi abbraccia con forza. 

    Il tempo adesso è come se avesse perso valore. Il suo profumo di ortensia mi porta lontano, a giorni che non ricordavo neanche più fossero esistiti, al sorriso di Alessandro, alla sua musica, alla nostra infanzia. È un viaggio che mi confonde e mi avvolge in una profonda e insopportabile malinconia.

    Il rumore di una macchina, delle sue ruote sul selciato, rompe l’incanto. Eleonora sobbalza e si scosta da me quasi fossi diventato bollente. In imbarazzo, si sistema alla bene e meglio il vestito zuppo di pioggia. Poi punta lo sguardo all’ingresso del cimitero. Una piccola folla si approssima all’uscita, sono i nostri genitori e gli amici. Mi rimetto in fretta in piedi e raccolgo l’ombrello prima che qualcuno si accorga di noi.

    Eleonora si passa una mano tra i capelli.

    «Domani parto per Firenze, mi trasferisco a vivere là.»

    Le sue parole arrivano all’improvviso e mi riempiono di stupore. 

    «È la soluzione migliore per me…»

    Si prende un momento di pausa, è incerta se terminare la frase. Lo vedo da come muove le dita. Alla fine però mi guarda e trova il coraggio di farlo.

    «E anche per te.»

    Ha ragione, non posso fare a meno di riconoscerlo. Ha ragione a volersene andare, se restasse qui non riuscirebbe mai a dimenticare, ad andare avanti, a ricominciare la sua vita. Ha ragione e basta.

    Rimane a guardarmi fino a che i suoi genitori non ci raggiungono. Mi osserva e ho come la sensazione che si aspetti da me una reazione, una parola, qualcosa che la trattenga qui. Ma di fronte al mio silenzio si arrende. Il padre mi saluta con un cenno del capo, l’accosta a sé e la porta via. 

    Io mi limito a seguirla con lo sguardo. La vista si appanna. Traggo un respiro profondo passandomi le dita sugli occhi. Torno dai miei. Il rumore della pioggia copre i miei passi e ha il sapore di un ricordo vecchio di anni. 

    Capitolo 2

    1

    Latina, 10 settembre 2000

    «Passa, qui!»

    Un comune giorno di fine estate. Un campo di calcio impregnato di pioggia. 

    «Passa qui, dai!»

    Un pallone sporco di fango slittò sull’erba. Alessandro, sette anni, ci mise un piede sopra per frenarne la corsa. Si passò una mano sul volto sudato, guardando verso sinistra in direzione del fratello. 

    Andrea, diciassette anni, saltellò impaziente.

    «Sbrigati, Ale! Che cavolo aspetti?»

    Alessandro fece una smorfia incerto sul da farsi. I compagni della squadra avversaria erano pronti a sfilargli la palla dai piedi. Uno gli andò incontro con aria decisa e incattivita. Lo aggredì in scivolata. Lui però, prima di essere buttato a terra, riuscì a lanciare il pallone ad Andrea che lo stoppò di petto. Un attimo, un respiro e fu gol all’angolo della traversa.

    Alessandro si mise in ginocchio pieno di entusiasmo.

    «Ohhhhhh, grande fratello!»

    Si alzò rapidamente in piedi e corse da lui. Lo abbracciò saltellando. Andrea si scostò e gli scompigliò i capelli.

    «È merito del tuo passaggio.»

    Il resto dei compagni li circondò festeggiandoli. 

    «Siete dei fenomeni!»

    «Li facciamo neri a questi!»

    Andrea sorrise. Poi aggrottò la fronte accigliato. Indicò il ginocchio del fratello scorticato e sanguinante.

    «Che hai fatto?»

    «Ma niente, deve essere stato il fallo di prima.»

    Andrea si rabbuiò cercando con lo sguardo il bambino responsabile dell’azione ai danni del fratello. Quando lo individuò fece un passo verso di lui.

    «Non ti sembra di aver esagerato? È solo una partita!»

    «Sì, e chi perde deve farsi fotografare chiappe all’aria.»

    Il ragazzino sputò a terra togliendosi i capelli dal viso.

    «Scusa se preferisco evitarlo!»

    «Be’, non ti sta riuscendo granché bene.»

    «Siamo solo al primo tempo, idiota.»

    Andrea serrò la mascella e fece per lanciarsi verso di lui. Alessandro glielo impedì afferrandolo saldamente per un braccio.

    «Oh stai calmo, non ne vale la pena.»

    Andrea rimase in silenzio con gli occhi incollati sull’altro ragazzino. Un lampo illuminò il cielo a giorno. Subito dopo un tuono ruggì così violento da far tremare il terreno di gioco. La pioggia cadde più copiosa. Andrea tornò a posare l’attenzione sul fratello. Frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori un fazzoletto di stoffa. Si accovacciò a terra e lo legò intorno alla ferita.

    «A casa dobbiamo dire a mamma che ci metta il disinfettante.»

    «No, quella mi ci fa il bagno se lo viene a sapere.»

    «Tanto si vede, non puoi mica nasconderlo.»

    «Che palle.»

    Andrea si rimise in piedi. Dette una pacca sulla spalla del fratello e posizionò il pallone al centro del campo. Riprese a giocare con il resto dei compagni ignorando il temporale.

    Un grumo di fango cadde a terra in un piccolo tonfo. Alessandro, zuppo d’acqua fino al midollo, tolse alla bene e meglio il terriccio dalle scarpe. Sospirò.

    «Mamma ci ucciderà.»

    Andrea fece spallucce. 

    «È inutile pulirle, abbiamo il fango fin dentro le mutande.»

    Alessandro guardò le scarpe con aria rassegnata. Tornò a indossarle sedendosi sulla panchina del campo da calcio. Sogghignò divertito.

    «Hai visto che faccia Giovanni?»

    «L’ho vista sì e chi se la dimentica.»

    Alessandro si tirò su i pantaloni scesi oltre la vita e si sistemò la maglietta infangata. Tirò fuori dalla tasca una polaroid tutta stropicciata. Ridacchiò mentre la sventolava con aria fiera. 

     «Questa resterà storica.»

    «Infatti, modello chiappe pelose all’aria.»

    Andrea posò una mano sulla spalla del fratello incamminandosi con lui verso l’uscita del centro sportivo.

    «Sto pensando di farci un poster in camera.» Mimò la posizione in

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