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Piccole Donne - Piccole donne crescono
Piccole Donne - Piccole donne crescono
Piccole Donne - Piccole donne crescono
E-book748 pagine11 ore

Piccole Donne - Piccole donne crescono

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Info su questo ebook

"Il suo primo amore aveva avuto la forza di una tempesta, ma lui ora vi guardava come a qualcosa di quieto e lontano nel tempo, accompagnato da un sentimento di indulgenza verso se stesso e insieme di rimpianto. Non se ne vergognava, ma decise di metterlo in disparte, accanto alle altre esperienze felici e dolorose del passato, come qualcosa da ricordare con affetto quando il dolore fosse scemato. Desiderava che la sua seconda passione fosse invece più serena e tranquilla. Non c'era bisogno di un proscenio, né quasi che le confessasse di amarla: lei lo sapeva, senza bisogno di parole, e gli aveva già dato la sua risposta molto tempo prima."

Edizione integrale illustrata dei primi due libri del capolavoro di Louisa May Alcott, che seguendo la consuetudine statunitense riunisce in un unico volume i due titoli Piccole donne e Piccole donne crescono.
Pur mantenendo il tono semplice e immediato delle versioni più conosciute, la nuova, accurata traduzione integrale restituisce all'opera la sua connotazione iniziale, che ne rende la lettura piacevolmente fruibile anche da parte di un pubblico più maturo. Le illustrazioni sono quelle originali di Frank T. Merril, che l'Autrice scelse personalmente per la seconda e definitiva edizione del 1880.
Introduzione critica di Luisa Vardiero, a cura del Centro Studi Tethis, specializzato in edizioni critiche, nuove traduzioni e collezioni letterarie.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2020
ISBN9788835356134
Piccole Donne - Piccole donne crescono
Autore

Louisa May Alcott

Louisa May Alcott (1832-1888) was an American novelist, poet, and short story writer. Born in Philadelphia to a family of transcendentalists—her parents were friends with Ralph Waldo Emerson, Nathaniel Hawthorne, and Henry David Thoreau—Alcott was raised in Massachusetts. She worked from a young age as a teacher, seamstress, and domestic worker in order to alleviate her family’s difficult financial situation. These experiences helped to guide her as a professional writer, just as her family’s background in education reform, social work, and abolition—their home was a safe house for escaped slaves on the Underground Railroad—aided her development as an early feminist and staunch abolitionist. Her career began as a writer for the Atlantic Monthly in 1860, took a brief pause while she served as a nurse in a Georgetown Hospital for wounded Union soldiers during the Civil War, and truly flourished with the 1868 and 1869 publications of parts one and two of Little Women. The first installment of her acclaimed and immensely popular “March Family Saga” has since become a classic of American literature and has been adapted countless times for the theater, film, and television. Alcott was a prolific writer throughout her lifetime, with dozens of novels, short stories, and novelettes published under her name, as the pseudonym A.M. Barnard, and anonymously.

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    Anteprima del libro

    Piccole Donne - Piccole donne crescono - Louisa May Alcott

    Ringraziamenti

    INTRODUZIONE

    di Luisa Vardiero

    Louisa e Jo, due vite a confronto.

    Figlia di Abigail e del filosofo esistenzialista Amos Bronson Alcott, Louisa May Alcott nasce a Germantown, in Pennsylvania, il 29 novembre 1832. È la seconda di quattro sorelle: Anna, la maggiore, attrice di teatro amatoriale; Elizabeth Sewall, la terzogenita, che morirà giovanissima di scarlattina, e Abigail May, illustratrice e pittrice.

    Bronson Alcott ha un ruolo centrale nella vita e nella formazione della scrittrice: pedagogista, filosofo trascendentalista, sperimentatore di pratiche educative d’avanguardia, si occupa personalmente dell’istruzione delle figlie. Louisa ha inoltre l’opportunità di studiare privatamente con figure eminenti della cerchia intellettuale riformista frequentata dal padre, come il naturalista Henry David Thoreau, lo scrittore Nathaniel Hawthorne, la giornalista e patriota Margaret Fuller e Ralph Waldo Emerson, poeta e filosofo trascendentalista.

    Nel 1844, dopo una breve permanenza in Utopian Fruitland, una comunità agricola ispirata a principi naturalistici fondata dal padre, gli Alcott si trasferiscono definitivamente a Orchard House, la casa di Concord, nel Massachusetts, nel cui retro Bronson aprirà una scuola basata sui principi del trascendentalismo e del naturalismo.

    Le difficili condizioni economiche in cui versa la famiglia e le alterne vicissitudini professionali del padre, molto avversato anche per l’accoglienza che la sua scuola offre agli allievi di colore, costringono le sorelle Alcott a lavorare sin da giovanissime. Anche Louisa, prima di raggiungere la notorietà come scrittrice, dovrà ricoprire vari impieghi, spesso molto gravosi, come governante, sarta, colf e insegnante privata. Continua comunque ad approfondire la sua formazione attraverso lo studio delle opere di Goethe e delle sorelle Brontë, alle quali sono ispirati i suoi primi scritti.

    Il suo impegno civile, che è fortemente influenzato dagli ideali progressisti dei genitori, trova un importante punto di svolta nel 1848, in seguito alla lettura de La dichiarazione dei sentimenti, manifesto inaugurale della Seneca Falls Convention, la conferenza sui diritti civili femminili tenutasi per la prima volta negli Stati Uniti in quell’anno. Si impegna inoltre con i suoi familiari nella Underground Railroad, la rete clandestina di sostegno agli schiavi di colore. A quegli anni risalgono anche le iniziali sperimentazioni come scrittrice e le pubblicazioni delle sue prime novelle.

    Il faticoso e impegnativo primo decennio a Concord culmina con due avvenimenti che saranno il fulcro della successiva stesura di Piccole Donne: la sorella Lizzie muore di scarlattina e la maggiore, Anna, si sposa con il collega di teatro John Pratt, di cui resterà vedova dieci anni dopo e da cui avrà due figli.

    Così come bene enucleato anche nel romanzo, sebbene su un differente piano temporale, il matrimonio della sorella maggiore è un trauma che va ad aggiungersi a quello per la morte di Elizabeth: la scrittrice vive l’allontanamento di Anna come un ulteriore lutto, segno definitivo di rottura di quella dimensione emotiva della sorellanza che diventerà elemento centrale della sua narrazione.

    Nel 1862, durante la guerra di secessione, Louisa si arruola come infermiera a Georgetown e lì contrae il tifo. Le cure a base di mercurio alle quali viene sottoposta le provocano un’intossicazione cronica che in seguito sarà annoverata tra le probabili cause della sua morte. Legato all’esperienza della guerra è il suo scritto Hospital Sketches ( Racconti dall’Ospedale), che ottiene un buon successo di critica. A questo seguono la novella Mood e una serie di opere minori di carattere sensazionalista (allora denominate lurid stories) che pubblica sotto lo pseudonimo di A. M. Barnard e che per il loro stile popolare le valgono un ampio favore di pubblico e un buon riscontro economico.

    Piccole Donne

    La carriera letteraria e la situazione finanziaria di Louisa si stabilizzano definitivamente nel 1868, grazie al rapido ed eclatante successo di Piccole Donne ( Little Women: or Meg, Jo, Beth and Amy). Nel celebre romanzo di formazione la vita degli Alcott a Orchard House, il legame tra le quattro sorelle, le difficoltà del crescere, l’intimità familiare sullo sfondo della guerra e la povertà come valore sono trasfigurati nelle vicende della famiglia March, in una narrazione che prende molti spunti dalla vita della scrittrice, la cui figura viene rappresentata dalla secondogenita Jo.

    Il rimando autobiografico è coerente soprattutto nella caratterizzazione delle personalità delle quattro sorelle. Mentre Jo è impegnata sulla difficile strada dell’emancipazione femminile, la maggiore Meg incarna ancora gli aspetti tipici dell’ideale di donna vittoriano: dolce e remissiva, insofferente al lavoro, vedrà infatti nel matrimonio e nella maternità il compimento del suo destino.

    Il personaggio di Amy assume invece una funzione parzialmente speculare, rispetto alla figura di Jo. La sorella minore condivide con quest’ultima alcuni aspetti più immediatamente evidenti del carattere, spesso anche causa di conflitto tra le due: l’orgoglio, l’ambizione, la fiducia nelle proprie capacità e la determinazione a costruirsi un futuro migliore esercitando il proprio talento.

    L’artista Amy tuttavia vive in una dimensione prettamente estetica, che nulla ha a che fare con le inquietudini della sorella. Anche nell’impeto dello slancio verso il futuro, in lei l’etica del bello è preponderante e mantiene una funzione di limite rassicurante, di steccato entro il quale la piccola di casa costruirà man mano una personale sintesi del sistema di valori appresi in famiglia.

    La fragile Beth si pone infine come preziosa ed eterea compensazione della ribelle e mascolina Jo, sebbene la sua funzione sia quella di complice, fiducioso e costante aggiustamento delle scontrosità della sorella prediletta, piuttosto che di opposizione stridente.

    La calma e l’abnegazione del carattere di Beth non hanno nulla della remissività tipicamente legata ai costrutti dell’epoca. La sua introversione è semmai legata al suo essere ancorata al circoscritto universo dei valori e degli affetti familiari, in un orizzonte rassicurante che nella gioia delle piccole cose racchiude tutto il senso della sua esistenza. In lei tuttavia la spinta verso il trascendente è attiva e potente, sempre più evocata man mano che la morte diventa ipotesi concreta e imminente, da affrontare con coraggio e in solitudine, in una incessante ricerca di senso. La vaga intuizione del suo destino, in qualche modo già presente anche nella prima parte del romanzo (si veda ad esempio nel tredicesimo capitolo, Castelli in aria) la induce a vivere con intensità crescente nel suo limitato orizzonte temporale. Nella seconda parte del romanzo la tensione di Beth si risolverà in uno stato di piena consapevolezza e di serena accettazione, in cui tutto troverà una collocazione precisa, in un fiducioso sentimento di certezza rispetto ai valori in cui è vissuta, all’affetto dato e ricevuto, alla sacralità degli oggetti del suo quotidiano.

    Mentre Beth sa bene chi è, cosa sta lasciando e verso cosa è diretta, nel momento in cui va consapevolmente incontro al suo destino, l’inquietudine con cui Jo guarda al futuro è invece del tutto mondana, piuttosto legata all’incertezza del sé, alla difficoltà di definirsi nel ruolo che il tempo in cui vive vorrebbe attribuirle. Jo è alla ricerca di un’identità che è ancora in divenire e tutta da definirsi, poiché lei si rifiuta di fondarla sulle aspettative della sua epoca.

    Secondaria è invece la figura del padre, che nella traposizione letteraria assume un ruolo più sfumato, quasi a voler liberare le vicende di casa March da una presenza che nella realtà di Orchard House è centrale ed emotivamente pregnante. Il padre è un’immagine spesso evocata, sebbene quasi del tutto estranea alla trama; un riferimento affettivo importante, che l’espediente della guerra tiene lontano e che farà il suo esordio solo alla fine della prima parte del romanzo, a sancire l’ormai avvenuto processo di trasformazione e di crescita delle ragazze March.

    È probabile che questa particolare disposizione della trama sia stata anche il risultato di una precisa indicazione, legata ai dubbi che l’editore Thomas Niles nutriva nei confronti della controversa e scomoda figura del padre di Louisa, spesso al centro di numerose critiche. Le idee di Bronson Alcott sono tuttavia pienamente presenti nell’impostazione pedagogica evocata nel romanzo della figlia, e certo per molti aspetti possono risultare al lettore contemporaneo eccessivamente pedanti e moralistiche. È necessario in effetti procedere con un continuo sforzo di contestualizzazione, rispetto all’epoca in cui sono state concepite, per poterne cogliere in pieno l’aspetto innovativo.

    I riferimenti alla pedagogia di impronta trascendentalista, nel loro richiamo a una concezione non coercitiva dell’educazione, emergeranno soprattutto nei successivi volumi, e in Piccoli Uomini, la terza parte della serie, l’autrice farà un esplicito omaggio alle sperimentazioni educative del padre.

    Le fasi di avvio in Piccole Donne ruotano invece sulla centralità e sul concreto apporto educativo della figura materna, più ancorato alla dimensione affettiva della vita familiare, a un realismo pedagogico molto funzionale ai processi di formazione al femminile e alla mistica del lavoro e del sacrificio, che l’autrice riesce però a stemperare riassumendoli in una descrizione accalorata, intimista e a tratti molto rasserenante del quotidiano.

    A seguito del grande successo di Piccole Donne, Thomas Niles commissiona ad Alcott la seconda parte del romanzo, pubblicata nel 1869 con il titolo di Good Wives (tradotto in Italia con Piccole donne crescono). Nel 1880 i due scritti verranno poi definitivamente riuniti in un unico volume, che manterrà da allora il titolo di Little Women.

    Con la nuova edizione vengono anche apportate alcune modifiche stilistiche, con lo scopo di armonizzare una scrittura appesantita dall’uso dell’american idiom. La revisione grafica vede invece l’inserimento delle nuove illustrazioni di Frank T. Merrill, molto apprezzate dalla Alcott, che sostituiscono quelle che la sorella May aveva disegnato per la prima versione e che sono quelle proposte anche nella presente edizione. In Italia e in altri paesi europei verrà invece mantenuta l’originale distinzione tra i due volumi.

    Fanno parte della serie di Piccole Donne anche i seguenti Piccoli Uomini, in cui le esperienze e gli ideali educativi di Bronson Alcott vengono trasposti nella descrizione della scuola che l’ormai adulta Jo apre insieme al marito, e il quarto volume dal titolo I ragazzi di Jo. Nella realtà invece la scrittrice non si sposò mai, e poco si sa della sua vita sentimentale.

    La madre di Louisa muore nel 1879 e poco tempo dopo anche la sorella minore, May, muore a Parigi, dove si era trasferita con il marito e dove aveva ottenuto un buon riconoscimento come pittrice. Louisa ne adotta la figlia, Louisa May Nieriker, che da allora vivrà sempre con la zia.

    La sorella maggiore, Anna, si trasferisce con i due figli in una casa a Concord, che riesce ad acquistare grazie all’aiuto di Louisa, e lì vivrà fino alla morte, avvenuta nel 1893.

    La scrittrice muore a Concord il 6 marzo 1888, nello stesso giorno in cui vengono celebrate le esequie del padre.

    PICCOLE DONNE

    1. Giocando al pellegrino

    Un Natale senza doni non è un vero Natale - brontolò Jo, sdraiata sul tappeto.

    - Essere poveri è una vera disgrazia! - sussurrò tristemente Meg, con lo sguardo chino verso il suo abitino logoro.

    - Non è giusto che alcune ragazze abbiano tante cose belle e altre nulla - aggiunse la piccola Amy piagnucolando.

    - Noi però abbiamo mamma e papà, e siamo una famiglia unita e affettuosa - osservò Beth tranquilla dal suo angolino.

    Il pensiero dei genitori sembrò illuminare i quattro giovani visi, immersi nel tremolante riflesso della luce del caminetto. Presto tuttavia le ombre tornarono, accompagnate dalle tristi parole di Jo:

    - Intanto, papà non è con noi. E chissà quando lo rivedremo.

    Non pronunciò le parole forse mai, ma tutte le scandirono silenziosamente, pensando al padre lontano da loro, in guerra.

    Per qualche istante nessuna fiatò; poi Meg ruppe il silenzio, improvvisamente animata:

    - Conoscete bene il motivo per cui mamma ha proposto di non acquistare regali per questo Natale. Si prospetta un inverno molto duro per tutti, e lei pensa che non sia giusto sprecare il denaro in cose futili, quando i nostri cari in guerra devono affrontare tante privazioni. Noi non possiamo fare molto, ma certo qualche piccolo sacrificio lo si può sopportare, anzi dovremmo farlo con piacere… anche se temo che mi costerà tanta fatica - e scosse tristemente il capo, pensando a tutto ciò che desiderava da tempo.

    - Ma il nostro sacrificio potrà davvero contribuire ad alleviare il destino di chi soffre? Quale differenza potrebbe fare, il misero dollaro che ciascuna di noi possiede, anche se lo offrissimo all’esercito? Non mi aspetto alcun regalo, né dalla mamma né da voi, ma con i miei pochi risparmi vorrei comprarmi Undine e Sintram. È da tanto che lo desidero! - disse Jo, che era una lettrice appassionata.

    - Io avrei voluto qualche spartito - sussurrò Beth con un sospiro così delicato che si perse nell’aria.

    - E io una bella scatola di matite Faber. Ne ho davvero bisogno - affermò Amy in tono perentorio.

    - Mamma non si è pronunciata, riguardo ai nostri piccoli risparmi, e credo che non sarebbe contenta se rinunciassimo proprio a tutto. Compriamoci almeno quello che desideriamo da tempo, togliamoci qualche piccolo capriccio; abbiamo lavorato abbastanza per meritarcelo - esclamò Jo, guardandosi i tacchi delle scarpe in una posa vagamente maschile.

    - Ne so qualcosa, io, che quasi tutti i giorni devo occuparmi di quei terribili ragazzini, quando farei qualunque cosa per poter restare tranquillamente a casa - riprese Meg ancora con voce afflitta.

    - Lamentati quanto vuoi, ma non puoi certo paragonare la tua vita alla mia - la interruppe Jo. - Ti piacerebbe passare tutto il giorno con una vecchia stizzosa e antipatica, che trova sempre un motivo per farti correre su e giù, che non è mai soddisfatta e che ti tormenta tanto da portarti ogni volta sull’orlo del pianto, se non a desiderare di buttarti dalla finestra?

    - Forse non è giusto che ci lamentiamo ma, credetemi, lavare i piatti e mantenere la casa in ordine è il peggior lavoro del mondo. Le mie dita sono così rovinate che non posso più suonare una nota - aggiunse Beth, guardandosi le mani e sospirando così forte che, questa volta, tutte la poterono sentire.

    - Credo che nessuna di voi soffra quanto me - esclamò Amy. - Voi almeno non andate a scuola e non dovete frequentare ragazze maleducate, che vi prendono in giro se non ricordate la lezione o se non avete un bel vestito, e scremano vostro padre perché non è ricco o vi insultano perché non avete un naso sottile.

    - Forse intendevi dire screditano, Amy, e non scremano, come se papà fosse un bidone di latte! - e Jo scoppiò in una sonora risata

    - So io quello che dico, e tu smettila di prendermi in giro. Avere un vocabulario ricco e usare parole difficili e ricercate è un segno di grande distinzione - replicò Amy cercando di darsi un contegno.

    - Ragazze, non litigate come al solito - intervenne Meg, pensando ai tempi in cui le cose in famiglia andavano decisamente meglio, e che lei poteva ricordare bene. - Se avessimo ancora il denaro che papà perdette quando eravamo piccole! Che bella cosa sarebbe, eh, Jo? Come ci sembrerebbe più facile, essere miti e ubbidienti, se non avessimo altro a cui pensare.

    - Ma se l’altro giorno sei stata proprio tu a dire che ti ritenevi molto più fortunata dei ragazzi King, che sono ricchissimi ma litigano dal mattino alla sera.

    - Certo, Beth. E penso davvero che noi siamo molto più fortunate di loro; dobbiamo lavorare, è vero, ma ci vogliamo bene e siamo una bella cricca, come direbbe Jo.

    - Jo usa sempre dei termini così volgari! - osservò Amy, rivolgendo uno sguardo di rimprovero alla lunga figura sdraiata della sorella.

    A queste parole, Jo si mise a sedere di scatto, infilò le mani nelle tasche del grembiule e cominciò a fischiettare.

    - Non dovresti fischiare, Jo, è un’abitudine da maschiacci.

    - È appunto per questo che lo faccio.

    - Non sopporto le ragazze maleducate e poco eleganti!

    - E io non sopporto le bambine altezzose e sdolcinate! - rispose Jo.

    - Gli uccellini dello stesso nido vanno d’accordo… - canticchiò Beth cercando come sempre di mettere pace, con una smorfia così buffa che le due sorelle scoppiarono a ridere e il battibecco cessò, almeno per quella volta.

    - Comunque sbagliate entrambe - sentenziò Meg dall’alto del suo ruolo di sorella maggiore. - Tu ormai sei abbastanza grande per smetterla con questi atteggiamenti sbarazzini e comportarti meglio, Josephine. Poteva andare bene quando eri piccola ma, adesso che sei così alta e che da tempo non porti più i capelli sciolti, dovresti ricordarti di essere ormai una giovane donna.

    - Invece non lo sono affatto! E se raccogliermi i capelli mi trasformerà in una gattamorta, allora porterò la treccia giù fino a venti anni! - gridò Jo, strappandosi la reticella e liberando sulle spalle una foltissima chioma di capelli castani. - Mi fa orrore sapere che un giorno diventerò comunque la signorina March, che dovrò portare le sottane lunghe e comportarmi come se fossi più delicata di un giglio. È già abbastanza insopportabile essere una donna, quando darei qualunque cosa per giocare, lavorare e comportarmi come un uomo. Non riesco ad accettare il fatto di non essere un maschio, soprattutto adesso che fremo dalla voglia di raggiungere papà e combattere al suo fianco, mentre invece mi tocca stare qui a sferruzzare come una vecchia di cent’anni! - E Jo, furiosa, gettò a terra la calza a cui stava lavorando, così rabbiosamente che i ferri tintinnarono come nacchere e il gomitolo di lana rotolò fino al lato opposto della stanza.

    - Che ingiustizia, mia povera Jo. Ma temo tu non abbia scelta, perciò ti dovrai accontentare del fatto che il tuo nome sembri quello di un ragazzo. Intanto ti puoi divertire a fare il fratello con noi - osservò Beth, mentre le sue mani, che nessun lavoro casalingo avrebbe potuto rendere meno lievi e delicate, accarezzavano la testa spettinata che la sorella aveva appoggiata sulle sue ginocchia.

    - E per quanto riguarda te, Amy, - continuò Meg - sei comunque esagerata. Adesso che sei piccola, i tuoi modi gentili e le tue espressioni ricercate possono anche risultare graziosi, ma quando sarai più grande rischierai davvero di renderti ridicola, proprio come succede a Jo con i suoi attegiamenti da maschiaccio.

    - Se Jo è un maschiaccio e Amy è ridicola, che cosa sono io? - domandò Beth, pronta a sorbirsi la sua parte di predica.

    - Tu sei cara e niente altro - rispose Meg abbracciandola, e nessuno la contraddisse, perché topino era la cocca della famiglia.

    Poiché i giovani amano avere immagini dettagliate dei personaggi delle loro letture, coglieremo questo istante per tracciare un piccolo quadretto descrittivo delle quattro giovani sorelle, che sferruzzano alla luce del tramonto, mentre dentro il fuoco scoppietta allegramente nel camino e fuori tutto è immerso nel placido, ovattato silenzio della neve.

    Siamo in una vecchia e comoda stanza. I mobili sono modesti e il tappeto è logoro, ma l’ambiente è reso molto confortevole da un paio di buoni quadri appesi al muro, dagli scaffali pieni di libri, dai crisantemi e dalle rose di Natale che fioriscono alle finestre. La pace casalinga pervade ogni cosa.

    Margaret, la maggiore delle sorelle, è una bellissima ragazza di sedici anni, chiara e paffuta. Ha grandi occhi celesti e una folta capigliatura di un bel castano chiaro, la bocca dai tratti delicati e bianchissime mani di cui è molto orgogliosa.

    Josephine o Jo, come la chiamano in famiglia, è alta, snella e scura. È a tratti selvaggia e impacciata, come un puledro non ancora domato che non sappia bene dove appoggiare le lunge membra che sono di intralcio. Ha una bocca dal taglio deciso e risoluto, il naso bizzarro e occhi ce sembrano spesso scrutare lontano, e che variano di volta in volta dal severo all’ironico o al pensieroso. I lunghi e folti capelli sono la sua unica bellezza, ma lei li porta quasi sempre legati, perché non le siano di impiccio. Spalle un po’ curve, piedi grossi e mani lunghe, non si cura molto nel vestire e ha l’espressione di chi sta rapidamente crescendo ma vorrebbe restare per sempre bambina.

    Elisabeth, Beth, è una rosea ragazzina di tredici anni, dagli occhi limpidi e i capelli folti, pacifica e timida. Il padre la chiama la mia piccola tranquillità e il soprannome le si adatta a pennello, perché sembra vivere beata in un mondo tutto suo, da cui non esce se non per stare con le poche persone che ama.

    Amy, la più piccola, è un personaggio davvero importante, almeno secondo la sua opinione. La pelle bianca come la neve, gli occhi celesti e i folti boccoli biondi che le cadono sulle spalle, è pallida e magra, ma fa del suo meglio per avere sempre un portamento elegante.

    Quali siano i caratteri delle quattro sorelle, lasceremo che lo si scopra man mano, proseguendo nella lettura.

    L’orologio a pendolo scandì le sei e Beth, dopo aver pulito il braciere, prese un paio di pantofole per tenerle al caldo accanto al caminetto.

    La vista delle vecchie pantofole parve scaldare i loro cuori; la mamma sarebbe stata a casa presto, e tutte e quattro si prepararono ad accoglierla. Meg smise di pontificare e accese il lume, Amy si alzò dalla poltrona senza aspettare che qualcuno la esortasse a farlo, Jo dimenticò la stanchezza e tolse dalle mani di Beth le pantofole per tenerle vicino al fuoco.

    - Sono logore. Mamma dovrebbe averne un paio nuovo - sussurrò dopo un po’.

    - Avevo pensato di comprargliele con il mio dollaro - rispose Beth. - No, le voglio prendere io! - strillò Amy.

    - Io sono la maggiore... - cominciò Meg, ma fu interrotta da Jo, che tagliò corto decisa:

    - Sono io l’uomo di casa, ora che papà non c’è. Se ricordate, prima di partire papà ha affidato a me il compito di badare alla mamma.

    - Sapete cosa faremo? - disse Beth - Compreremo tutte qualcosa per la mamma e nulla per noi.

    - Brava Beth! Proprio quello che volevo proporre io. Ma che cosa prenderemo? - chiese Jo.

    Rifletterono assorte per qualche istante, poi Meg esclamò, prendendo spunto dalle sue belle mani:

    - Io le regalerò un bel paio di guanti.

    - Io le pantofole, le migliori che ci siano - confermò Jo.

    - Io una dozzina di fazzoletti, ricamati tutti da me - disse Beth.

    - E io una bottiglia di Acqua di Colonia; le piace tanto e non costa molto, così avanzerò anche qualche soldo per le mie matite - aggiunse Amy.

    - Ma come glieli offriremo? - chiese Meg.

    - Metteremo tutto sul tavolo, poi la chiameremo e le faremo una sorpresa, come accadeva ai nostri compleanni - rispose Jo.

    Beth si lasciò andare ai ricordi, mentre, assieme alla sua faccia, abbrustoliva al fuoco del camino anche qualche fetta di pane per il tè:

    - Ero così spaventata, quando toccava a me; stavo seduta sulla grande poltrona e vi guardavo, mentre mi giravate attorno per consegnarmi i doni e baciarmi. Adoravo i baci e i regali, ma mi intimidiva avervi tutti addosso mentre li scartavo!

    - Facciamole credere che vogliamo comprare qualcosa per noi e facciamole una sorpresa. Dovremo trovare il tempo per fare tutte le commissioni domani, Meg; ora c’è tanto da fare per la recita di Natale. - disse Jo, camminando avanti e

    indietro per la stanza con le mani dietro la schiena e il naso per aria.

    - Questa è l’ultima volta che recito, ormai sono troppo grande - disse Meg, che in realtà quando si trattava di mettersi in costume era più giocherellona delle altre.

    - Tu non smetterai mai! Ti piace troppo indossare il lungo vestito bianco con lo strascico, portare i capelli sciolti sulle spalle e metterti tutti quei gioielli di carta argentata e dorata. Sei la migliore attrice della compagnia, senza di te che cosa faremmo? Se il capitano abbandona la nave dovremo rinunciare anche noi - esclamò Jo. - A proposito, questa sera dobbiamo provare. Coraggio Amy, riprendi dalla scena dello svenimento; hai proprio bisogno di esercitarti, stai sempre rigida come un pezzo di legno.

    - Non riesco a fare meglio di così; non ho mai visto nessuno svenire e non voglio riempirmi di lividi come fai tu quando ti butti per terra, come se non avessi ossa e non sentissi nulla. Se posso cadere adagio, senza farmi male, allora reciterò la scena come dici tu, altrimenti mi abbandonerò con molta grazia su una sedia, e non mi importa se Hugo mi minaccia con una pistola! - rispose Amy, che non aveva un particolare talento per il teatro, ma che era stata scelta per quella parte perché era esile e leggera e l’eroe del dramma poteva trasportarla in braccio fuori della scena senza troppa fatica.

    - Fai così, congiungi le mani e trascinati per la stanza, gridando terrorizzata: Roderigo, salvami, salvami! - e Jo attraversò barcollando la stanza, cacciando un urlo da far venire i brividi.

    Amy cercò di imitarla, ma congiunse le mani e si spinse in avanti muovendosi come un automa, mentre il suo ooh stizzito sembrava più il grido di una persona punta da uno spillo, che non un urlo di terrore e di raccapriccio.

    Jo, sconsolata, emise un gemito di disapprovazione; Meg scoppiò a ridere e Beth, distratta nel seguire la buffa scena, lasciò bruciare il pane che aveva dimenticato sulla griglia.

    - Non va, non la risolveremo mai. Sai cosa ti dico? Il giorno della recita fa’ quello che puoi, e se gli spettatori fischieranno non dire che è colpa mia. Vieni Meg.

    Il seguito andò decisamente meglio: don Pedro sfidò il mondo intero con un discorso di due pagine fitte, che declamò senza un solo errore; la strega Hagar pronunciò uno spaventoso incantesimo, ritta davanti a una pentola colma di rospi messi a bollire; Roderigo si liberò dalle catene e Hugo morì, devastato dai rimorsi e dall’arsenico, lanciando un ultimo urlo selvaggio.

    - È la migliore di tutte quelle che abbiamo provato - affermò Meg, mentre il morto si rialzava e si massaggiava i gomiti.

    - Non so come fai a recitare e a scrivere delle cose tanto belle, Jo. Sei davvero un secondo Shakespeare - esclamò Beth, che nutriva una fede assoluta sulla genialità delle sue sorelle.

    - Ma no, cosa dici - si schernì Jo. - Credo anch’io che La Maledizione della strega sia uno dei miei migliori scritti, ma mi piacerebbe tanto recitare il Macbeth, se solo avessimo una botola per Banquo. È da tanto che desidero fare la parte dell’assassino! È proprio un pugnale, quello che vedo innanzi a me? - mormorò strabuzzando gli occhi e annaspando nel vuoto, come aveva visto fare a un celebre attore.

    - Beth, hai infilato nella forchetta la pantofola di mamma invece del pane! - gridò Meg, mettendo fine alla prova tra l’ilarità generale.

    - Sono lieta di vedervi così allegre, bambine - esclamò una voce armoniosa che proveniva dall’ingresso, e attori e pubblico accorsero a dare il benvenuto a una signora distinta e dall’espressione affabile e premurosa. Non era vestita in modo elegante, ma aveva un portamento molto signorile, e le ragazze credevano davvero che il vecchio mantello grigio e il cappellino nero, da un bel pezzo passati di moda, celassero la migliore mamma del mondo.

    - Ebbene, bimbe care, come avete passato la giornata? Ho avuto tanto da fare per la spedizione dei pacchi di domani che non sono potuta tornare neanche a pranzo. È venuto nessuno, Beth? Come va il tuo raffreddore Meg? Jo, mi sembri stanca morta. Dammi un bacio, piccolina.

    Così dicendo, la signora March si era tolta il mantello bagnato, si era infilata le pantofole calde e, accomodatasi sulla poltrona, aveva fatto sedere Amy sulle ginocchia, pronta a gustarsi l’ora più piacevole e rilassante della sua impegnativa giornata. Le ragazze intanto cercavano di rendersi utili, ciascuna come poteva; Meg apparecchiò la tavola per il tè, Jo andò a prendere la legna e mise a posto le sedie, urtando e rovesciando tutto ciò che toccava, Beth trotterellava avanti e indietro dal salottino alla cucina, lavorando silenziosamente, mentre Amy dirigeva il movimento generale standosene comodamente seduta sulle ginocchia della madre, con le mani in mano.

    Quando furono a tavola, la signora March le guardò con un sorriso compiaciuto:

    - Cè una sorpresa per voi. La vedremo dopo cena.

    I volti delle ragazze si illuminarono di gioia. Beth applaudì, lasciando cadere il biscotto che teneva in mano, e Jo gettò per aria il tovagliolo, gridando: - Una lettera, una lettera! Tre urrà per papà!

    - Sì, una lunga e bella lettera. Dice che sta bene, che l’inverno si prospetta migliore di quello che si aspettava e manda tanti auguri per Natale. Inoltre c’è un messaggio speciale per voi ragazze - disse la signora March, battendo leggermente la mano sulla tasca come se vi fosse custodito un tesoro.

    Facciamo presto, allora! Amy, non ti incantare come una marmotta!

    Jo era agitatissima, e mentre urlava il tè le andò di traverso quasi soffocandola e il pane imburrato le cadde di mano rotolando sul tappeto.

    Beth smise di mangiare e si ritirò nell’ombra del suo angolino ad aspettare, pregustando la gioia delle notizie che aveva tanto attese.

    - Papà era davvero troppo anziano e debole per fare il soldato, ma trovo meraviglioso che si sia unito all’esercito come cappellano - disse Meg calorosamente.

    - Come mi piacerebbe essere un tamburino, una vivan... come si chiamano? Oppure un’infermiera, per potergli essere vicina e aiutarlo - esclamò Jo con un profondo sospiro.

    - Deve essere davvero molto dura dormire dentro una tenda, mangiare cose disgustose e bere da una tazza di stagno - aggiunse tristemente Amy.

    - Quando tornerà, mamma? - domandò Beth con un leggero tremito nella voce.

    - Dovrà stare laggiù ancora alcuni mesi, se la sua salute reggerà. Vorrà fare il suo dovere fino in fondo e noi certamente non gli saremo d’ostacolo. Ora venite qui, vicino a me, così vi leggo la lettera.

    Le ragazze si avvicinarono al fuoco. La mamma era seduta sulla poltrona, Beth ai suoi piedi, Amy e Meg appollaiate sui due braccioli e Jo appoggiata alla spalliera, con il viso nascosto a celare le eventuali lacrime.

    Le lettere scritte in quei tempi difficili suscitavano spesso grande preoccupazione, specialmente quelle inviate dai padri alle loro famiglie. Questa però non faceva alcun accenno alle fatiche, ai pericoli corsi e al desiderio di tornare a casa; era piuttosto uno scritto pieno di consolazione, di speranza, di aneddoti sulla vita militare e sulle marce, di notizie sulla guerra. Solo in ultimo il padre parlava del gran desiderio che aveva di rivedere e riabbracciare le persone che amava:

    … da’ loro tutto il mio amore e baciale da parte mia. Le penso di giorno e prego per loro la notte, e la mia più grande consolazione è il pensiero del loro affetto. Un anno passato lontano dai propri cari sembra molto lungo, ma ricorda loro che, aspettando, si può e si deve lavorare, per dare un senso a questi tristi giorni e per non farli passare inutilmente. So che le bimbe ricorderanno tutto ciò di cui mi sono raccomandato prima di partire e che saranno affettuose e buone con te; che faranno il loro dovere senza lagnarsi, combatteranno i loro demoni interiori e sapranno regolarsi così bene da rendermi, al mio ritorno, sempre più orgoglioso e soddisfatto delle mie piccole donne.

    Tutte erano profondamente commosse. Jo non si vergognò della grossa lacrima che le scivolò dalla punta del naso e a Amy poco importò che i suoi riccioli biondi si spettinassero, mentre abbracciava la madre esclamando: - Farò di tutto perché papà sia contento di me, quando torna.

    - Faremo tutto il possibile per migliorarci - aggiunse Meg. - Io sono vanitosa e non amo il lavoro, ma cambierò, se posso.

    - Io voglio diventare una buona piccola donna, come dice lui; non voglio più comportarmi da selvaggia e mi sforzerò davvero di compiere il mio dovere qui, invece di sognare di essere altrove - continuò Jo, che era fermamente convinta che tenere sotto controllo il suo carattere impetuoso fosse molto più difficile che combattere contro un paio di ribelli del Sud.

    Beth non disse nulla, ma si asciugò gli occhi con la calza azzurra da soldato e si mise a lavorare a maglia con foga, concentrandosi senza indugi sul lavoro che più aveva a portata di mano, con il fermo proposito di fare tutto il possibile per corrispondere alle speranze del padre.

    La signora March ruppe infine il silenzio che era seguito alle parole di Jo:

    - Vi ricordate - esclamò con il suo solito tono allegro - quando da piccole giocavate al Pellegrino? Come vi piaceva legarvi addosso il sacco, prendere cappello, bastone e un rotolo di carta e passeggiare per tutta la casa, dalla cantina, che chiamavate la Città di Dite, su fino al terrazzo, dove tenevate tutti i vostri tesori e che per voi rappresentava la Città Celeste!

    - Ah, sì, era davvero divertente! Specialmente quando passavo vicino ai leoni, combattevo il demone Apollion e poi mi perdevo nella Valle dei Maghi e delle Streghe - disse Jo.

    - A me piaceva quando si posavano i fardelli e si lasciavano finalmente ruzzolare fino in fondo alle scale - aggiunse Meg.

    - Per me il momento più bello era quando arrivavamo in cima al terrazzo, tra i fiori, il verde e i nostri tesori, e cantavamo felici al sole - sussurrò Beth.

    - Io veramente ne ho un ricordo molto confuso; so soltanto che avevo una gran paura della cantina e dello stanzino buio, e che ero molto contenta quando si mangiava la torta e si beveva il latte. Se ormai non fossi troppo grande per questi giochi, quasi quasi mi piacerebbe ricominciare - affermò Amy dall’alto della sua maturità di dodicenne.

    - Non siamo mai troppo vecchi per questo gioco, bambina mia, perché è più o meno quello che facciamo per tutta la vita. Tutti abbiamo i nostri fardelli. La strada si stende davanti a noi, e il desiderio di essere felici ci guida e ci aiuta a non perderci tra le tante difficoltà che troviamo prima di raggiungere la pace, che è la nostra Città Celeste. Care le mie pellegrine, non sarebbe forse il caso di riprendere il vostro antico gioco, non per svago, ma come un vero impegno, e vedere quale parte della strada avrete percorso quando sarà tornato vostro padre?

    - Sì, certo mamma, ma dove sono i nostri fardelli? - domandò Amy, che tendeva a prendere tutto un po’ troppo alla lettera.

    - Tutte voi ne avete appena parlato, eccetto Beth, che credo non ne abbia affatto.

    - Oh, eccome se ne ho. Ne ho tanti, anzi. La mia timidezza, le stoviglie e gli strofinacci. E tutti i pianoforti che invidio alle altre ragazze.

    L’elenco di Beth era così tenero e buffo che tutte avevano una gran voglia di ridere; ma non lo fecero, attente a non offendere i suoi delicati sentimenti.

    - Sì, proviamoci - disse Meg assorta. - È un gioco che ci insegnerà a mantenere la rotta e ci potrà aiutare a crescere. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio, mamma, ma è molto difficile e qualche volta ce ne dimentichiamo.

    - Questa sera abbiamo rischiato di cadere nella Palude della Disperazione, ma la mamma ci ha aiutate a uscirne, come Soccorso fece nel libro. Ci servirà anche il Rotolo delle Istruzioni, come quello che aveva Christian. Come faremo a trovarlo? - domandò Jo, felice di intravvedere un po’ di romanzo anche sulla difficile e noiosa strada del dovere.

    - Cercate sotto il vostro cuscino, la mattina di Natale, e troverete la vostra guida - rispose la signora March.

    Continuarono a parlare dei loro nuovi progetti, mentre Hannah, l’anziana domestica, sparecchiava; poi presero al volo i cestini del cucito e si misero a ricamare le lenzuola per la zia March.

    Si trattava di un lavoro molto noioso, ma quella sera nessuna osò fiatare. Fu adottato lo stratagemma di Jo di dividere le lunghe cuciture in quattro sezioni, che vennero nominate Europa, Asia, Africa e America, e così procedettero veloci, distraendosi discutendo dei differenti paesi, man mano che questi si succedevano.

    Alle nove finirono di lavorare e, come al solito, prima di andare a dormire cantarono un po’. Soltanto Beth riusciva a trarre qualche suono dal pianoforte di casa, vecchio e scordato; aveva un tocco dolce e leggero, molto piacevole da ascoltare mentre accompagnava le canzoni del loro semplice repertorio.

    Meg aveva una bella voce intonata, e dirigeva insieme alla mamma il piccolo coro. Amy friniva come un grillo, mentre Jo amava improvvisare, con dei gorgheggi che variavano dal grave all’acuto, e non c’era melodia che lei non riuscisse a finire prima del tempo o a rovinare con una stecca.

    Il canto serale era un’abitudine consolidata, sin dal periodo in cui, da piccole, avevano imparato a balbettare Brilla, brilla piccola stella, ed era ormai diventato un’irrinunciabile tradizione di famiglia. La madre era un’ottima cantante, e la sua voce era il primo suono che udivano al mattino, mentre si aggirava per la casa cantando, e l’ultimo ad accompagnarle nella sera, poiché le ragazze sembravano non essere mai cresciute abbastanza da risolversi a rinunciare alle sue ninnenanne.

    Il canto serale era un’abitudine consolidata

    2. Un felice Natale

    Jo fu la prima a svegliarsi, nella fredda e grigia mattina di Natale.

    Vedendo che il camino era vuoto, provò la stessa delusione della volta che, anni addietro, la sua piccola calza era caduta poiché stracolma di dolci. Infine si ricordò della promessa della mamma e cercò sotto il cuscino, dove trovò un piccolo libro rilegato in rosso. Lo riconobbe subito, perché era la storia bella e antica del più grande uomo che abbia mai attraversato questa terra, e capì perché la mamma avesse detto che quel libro si sarebbe rivelato la migliore guida per il suo lungo viaggio di pellegrina. Svegliò Meg augurandole il Buon Natale e la esortò a cercare sotto il cuscino. Meg trovò un libretto uguale, ma rilegato di verde, e anche lei come Jo trovò sulla prima pagina alcune affettuose parole scritte dalla mamma, cosa che rendeva quell’unico dono ancora più prezioso. Poco dopo, Beth e Amy trovarono, l’una, un libretto color cenere, l’altra uno blu. Si sedettero tutte assieme sui letti e si misero a chiacchierare tra loro, mentre la luce dell’alba tingeva di rosa il cielo d’oriente e il giorno nasceva.

    Nonostante le sue piccole vanità, Meg era di indole molto dolce e aveva un inconsapevole ascendente sulle sorelle, specialmente su Jo, che l’amava teneramente e che teneva in grande considerazione i suoi consigli, offerti in modo sempre pacato e tranquillo.

    - Ragazze, - disse con enfasi, spostando lo sguardo dalla testa spettinata che le stava di fianco alle due cuffiette che si scorgevano nella stanza accanto - mamma desidera che ci affidiamo a questo libro per trovarvi un aiuto, e io credo che dovremmo incominciare subito. Una volta lo leggevamo sempre, ma da quando questa orribile guerra è incominciata e papà è andato via abbiamo tralasciato molte delle nostre buone abitudini. Voi fate pure come credete, ma io voglio tenere il mio libretto qui, accanto a me, per poterne leggere qualche pagina ogni mattina. Mi farà bene e mi aiuterà a percorrere la mia strada senza lamentarmi troppo.

    Poi aprì il suo libretto e cominciò a leggere. Jo le passò un braccio attorno al collo e, guancia a guancia con la sorella, con quell’espressione seria e tranquilla che si vedeva tanto raramente sul suo volto, fece altrettanto.

    - Brava Meg, ha proprio ragione; vieni, Amy, facciamo lo stesso anche noi. Ti posso spiegare le parole più difficili, e se non capiremo qualche frase domanderemo a loro - sussurrò Beth, che era rimasta molto impressionata dal regalo della mamma e dalle parole di Meg.

    - Sono contenta che il mio sia blu - disse Amy, e dopo questo non si udì che il lieve rumore delle pagine che venivano voltate, mentre il sole invernale illuminava con i suoi raggi dorati le quattro testoline e i loro visetti seri e concentrati, come un augurio di Buon Natale.

    - Dov’è la mamma? - domandò Meg quando, mezz’ora dopo, scese con Jo per ringraziarla del bel regalo.

    - Non lo so davvero! Qualche povero diavolo è venuto a chiedere l’elemosina, e senza dire una parola vostra madre si è messa il mantello ed è uscita con lui. In vita mia non ho mai conosciuto una donna così generosa - rispose Hannah, che essendo con la famiglia sin dalla nascita di Meg era considerata più un’amica che una domestica.

    - Suppongo che rientrerà presto. Finisci pure con le frittelle, Hannah, e tieni tutto pronto per la colazione - disse Meg, dando un’ultima occhiata ai regali che per il momento erano stati nascosti in un cestino sotto il divano. - Ma dov’è la bottiglia di Acqua di Colonia? - domandò, non trovando più la boccetta.

    - L’ha portata via Amy poco fa; sarà andata a metterci un nastrino o qualcosa di simile - rispose Jo, che intanto si era infilata le pantofole ricamate della mamma e saltellava per la stanza per renderle più morbide.

    - Come sono belli, i miei fazzoletti. Hannah li ha lavati e stirati, ma le cifre le ho cucite tutte da sola - disse Beth, contemplando le lettere ricamate con tanto impegno, anche se in modo leggermente irregolare.

    - Che buffo, benedetta figliola! - esclamò Jo prendendone uno - Hai cucito la scritta mamma invece di M. March!

    - Non va bene? Pensavo che fosse meglio così, perché sono le stesse iniziali del nome di Meg, e io desidero che questi fazzoletti siano utilizzati solo dalla mamma - disse Beth in tono esitante.

    - Va bene così, cara; anzi hai avuto un’ottima idea. Molto ragionevole, direi, perché in questo modo nessuno potrà confonderli. Sono certa che alla mamma farà molto piacere - e Meg rivolse un sorriso rassicurante a Beth e un’occhiataccia a Jo. - Ecco la mamma! Presto, nascondete il cestino! - gridò, sentendo dei rumori provenire dall’ingresso.

    Ma non era la madre, era Amy che, entrata nella stanza, si fermò imbarazzata nel constatare che le sorelle avevano notato la sua assenza.

    - Dove sei stata e che cosa nascondi? - chiese Meg, stupita nel vedere la pigra Amy già di ritorno da un’uscita di primo mattino.

    - Non ridere, Jo; speravo che non ve ne accorgeste. Sono soltanto andata a cambiare la bottiglia piccola e ne ho presa una più grande. Ho usato tutti i miei soldi, sto tentando davvero di diventare più altruista!

    E Amy mostrò una bella bottiglia di Acqua di Colonia, assumendo un’espressione allo stesso tempo così fiera e così mesta che Meg l’abbracciò teneramente e Jo si congratulò con lei, mentre Beth correva a cogliere una delle sue rose per adornarla.

    - Questa mattina, dopo aver letto e parlato con voi, mi sono vergognata del mio misero regalino; così appena vestita sono corsa giù alla bottega per cambiarlo. Ora però il mio è il più bello di tutti - aggiunse orgogliosa.

    Un altro rumore all’ingresso fece sparire al volo il cestino sotto il divano, mentre le ragazze si avvicinavano alla tavola apparecchiata.

    - Buon Natale, mamma! Grazie tanto per i regali; ne abbiamo già letta qualche pagina e vogliamo leggerne un po’ tutte le mattine - gridarono in coro le quattro ragazze.

    - Buon Natale, figliole care. Sono molto contenta che abbiate incominciato subito, e spero che continuerete. A proposito, prima di metterci a mangiare vorrei parlarvi di una cosa. Ho conosciuto delle persone che abitano poco lontano da qui, una povera donna e i suoi sette bambini, uno dei quali di appena un mese. Non hanno niente da mangiare e nella casa non c’è una sola scintilla di fuoco, tanto che i bambini più grandi, per ripararsi dal freddo, se ne stanno tutto il giorno rannicchiati sul letto, abbracciati l’uno all’altro. Un’ora fa il maggiore dei ragazzi è venuto qui a chiedere aiuto, perché morivano di fame e di freddo. Vogliamo offrire la nostra colazione a queste povere persone, come regalo di Natale?

    Le ragazze ne furono tutto subito sconcertate. Era mattino inoltrato e avevano una gran fame, perché da oltre un’ora aspettavano di fare colazione; ma l’indecisione non durò che un istante, finché Jo esclamò entusiasta: - Mamma, sono tanto contenta che tu sia tornata prima che avessimo incominciato a mangiare!

    - Posso venire anch’io da quei poveri bambini? - chiese Beth.

    - Io porterò la crema e i dolci - aggiunse Amy, rinunciando eroicamente a ciò che le piaceva di più.

    Meg intanto, senza parlare, aveva incominciato a coprire le torte e a raccogliere le pagnotte in un grande cestino.

    - Ne ero sicura - disse la signora March sorridendo compiaciuta. - Mi aiuterete tutte, e quando saremo di ritorno mangeremo un po’ di pane e latte. Ci rifaremo a pranzo, del resto! - aggiunse ridendo.

    In pochi minuti tutto fu pronto e la brigata si mosse. Fortunatamente a quell’ora del mattino le strade erano quasi deserte, perché molti avrebbero forse riso di quella strana processione.

    La casa in cui abitava la povera famiglia era davvero un triste rudere. Le finestre rotte, il caminetto spento, le coperte del letto strappate. In un angolo della stanza, una donna dallo sguardo triste e affaticato teneva in braccio un neonato sofferente, mentre dall’altro lato sedevano sul letto sei bambini, avvinghiati uno all’altro per ripararsi dal freddo che la logora trapunta che li copriva non riusciva a placare. All’apparire delle quattro ragazze, i bambini spalancarono gli occhi e le loro labbra livide si aprirono in un sorriso.

    - Ach! mein Gott! Gli angeli vengono ad aiutarci! - esclamò la povera madre piangendo di gioia.

    - Strani angeli, con cappelli e guanti - disse Jo, facendo ridere tutti.

    Pochi minuti dopo, la stanza era irriconoscibile. Sembrava davvero che degli angeli fossero discesi a confortare quelle povere persone. Hannah, che aveva portato la legna, accese un bel fuoco; poi, vedendo che i vetri della finestra erano tutti rotti, li aggiustò alla meglio usando vecchi cappelli e perfino il suo scialle.

    La signora March, intanto, aveva preparato un po’ di tè e di minestra d’avena, e mentre rivestiva il bambino più piccolo, con la stessa attenzione che avrebbe avuto se fosse stato suo, ne consolava la madre, promettendole che non l’avrebbe abbandonata e che avrebbe fatto in modo che ricevesse un aiuto più stabile. Le ragazze, chiacchierando e ridendo, avevano apparecchiato la tavola e, avvicinati gli altri bambini al fuoco, li imboccavano come uccellini affamati, tentando anche di capire le loro parole, pronunciate con un buffo inglese dal forte accento tedesco.

    - Das ist gut! Ah die Engel-kinder! - dicevano i poverini mentre mangiavano scaldandosi le manine paonazze al tepore del fuoco. Le ragazze non si erano mai sentite definire angeli, prima di allora, e ne erano molto compiaciute; specialmente Jo, che era stata semmai considerata un diavoletto fin dal giorno della sua venuta al mondo.

    Quella colazione, benché non ne avessero toccato un solo boccone, regalò loro un gran senso di benessere e quando partirono, lasciando nella povera casa un po’ di gioia e di allegria, non c’erano in tutta la città ragazze più felici e contente delle nostre quattro giovani amiche.

    Al ritorno a casa, stanche e soddisfatte, le aspettava una colazione natalizia a base di pane e latte.

    - Ecco cosa significa davvero amare il prossimo più di noi stessi, e mi piace - disse Meg alle sorelle mentre toglieva i pacchetti dal cestino e li appoggiava sulla tavola, approfittando della momentanea assenza della mamma, in camera a scegliere dei vecchi abiti per gli Hummel.

    Non erano certo regali preziosi, ma erano stati scelti con cura e con amore, e il centrotavola pieno di rose rosse, di crisantemi e di edera contribuiva a rendere davvero grazioso tutto l’insieme.

    - Eccola, eccola! Suona, Beth; apri la porta, Amy! - gridò Jo correndo e saltando per la stanza, mentre Meg guidava la mamma al posto d’onore, Beth suonava un’allegra marcetta e Amy spalancava la porta.

    La signora March si fermò sorpresa; poi sorrise commossa, mentre scartava i regali e leggeva gli auguri che li accompagnavano.

    Le pantofole entrarono subito in funzione; uno dei fazzoletti, ben profumato di Acqua di Colonia, le fu messo nella tasca del vestito; la rosa le fu appuntata sul petto e i guanti vennero provati, calzando alla perfezione.

    Dopo una breve festa di famiglia, fatta di baci, carezze, risate e misteri svelati, nella semplice e affettuosa atmosfera che rende questi momenti intimi piacevoli da vivere nel presente e teneri da ricordare nel futuro, si misero tutte al lavoro.

    Era giorno inoltrato, e dedicarono il resto del tempo ai preparativi per la recita della sera.

    Ancora troppo giovani per andare a teatro, e non potendosi permettere i costumi necessari a una recita casalinga, le ragazze dovevano ricorrere a tutta la loro immaginazione, confezionando e costruendo loro stesse quello che serviva.

    Alcuni dei loro manufatti erano davvero ingegnosi; chitarre di carta pesta, lampade antiche costruite con pezzi di stagno rivestiti di carta argentata, splendidi costumi scintillanti ricavati da vecchie vestaglie di cotone e ornati con lustrini di latta (residui del taglio dei coperchi di una vicina fabbrica di conserve) armature coperte da diamanti di vetro. Anche i mobili erano messi tutti sottosopra, cambiando per l’occasione forma e colore, e il salone era ormai da tempo il muto testimone di tali innocenti baldorie.

    Gli uomini non erano ammessi, perciò Jo con suo enorme piacere interpretava sempre le parti maschili, indossando orgogliosa un paio di magnifici stivaloni, regalo di una sua amica che conosceva una signora che conosceva un vero attore.

    Un fioretto e una giacca riadattata completavano il prezioso armamentario teatrale di Jo, che veniva adattato a tutte le occasioni.

    Le ridotte dimensioni della compagnia obbligavano gli attori principali a interpretare più ruoli. Erano davvero tutte meritevoli di elogio per l’abilità che mostravano nell’imparare a memoria parti diverse, nel cambiarsi velocemente i costumi e nel muoversi dietro le quinte in perfetta sincronia.

    Il tutto costituiva inoltre un eccellente esercizio per la memoria, un divertimento innocuo e un modo per impiegare il tempo libero scongiurando l’ozio, la solitudine o le compagnie deleterie.

    La sera di Natale le spettatrici si raggrupparono sul letto che, in quell’occasione, fungeva da poltrone, palchi e posti distinti, aspettando con grande impazienza che la tenda gialla e blu si sollevasse. Si udivano voci sommesse, fruscii dietro il tendone, un diffuso odore di candele e, ogni tanto, una risatina di Amy, che al momento decisivo diventava sempre un po’ nervosa. Infine, preceduta dal suono di un campanellino, la tenda si aprì e lo spettacolo ebbe inizio.

    Il bosco oscuro descritto nel programma di invito consisteva in qualche pianta, un pezzo di fodera verde messa per terra e una grotta in fondo alla scena, formata da un paravento che fungeva da tetto e un paio di cassettoni come pareti; nel mezzo della grotta era sistemata una piccola fornace accesa su cui borbottava una pentola, sopra la quale svettava il ghigno mostruoso della strega.

    La scena era buia e la luce che emanava dalla fornace contribuiva a rendere molto suggestiva l’atmosfera, soprattutto quando dalla pentola, che la strega apriva di tanto in tanto per rimestare la sua pozione, si sprigionava del vero fumo.

    Vi fu un momento di pausa, per lasciare al pubblico il tempo di ammirare la scena, poi apparve il traditore Hugo, con una lunga spada al fianco, la barba nera, il cappello messo sulle ventitré, i famosi stivaloni e un mantello nero che lo avvolgeva completamente. Dopo aver camminato un paio di volte su e giù per la stanza, in preda a grande agitazione, si batté la fronte con una mano confessando tutto il suo odio per Roderigo, il suo amore per Zara e la ferma determinazione a uccidere l’uno e farsi amare dall’altra.

    La voce bassa di Hugo, appena più acuta quando veniva sopraffatto dalla violenza delle sue emozioni, impressionò moltissimo l’uditorio che, appena vi fu un momento di silenzio, applaudì entusiasta.

    Salutando il pubblico con la disinvoltura dell’artista abituato agli applausi, Hugo si avvicinò alla caverna e ordinò a Hagar di uscire.

    - Schiava, ho bisogno di te!

    Ed ecco apparire Meg, con una lunga coda di cavallo grigia che le cadeva giù per le spalle e le incorniciava il viso, un vestito nero e rosso, un bastone e un lungo mantello su cui erano ricamati dei simboli arcani.

    Hugo le domandò una pozione che avesse il potere di farlo amare da Zara e un veleno per uccidere Roderigo, e Hagar, intonando una drammatica melodia, gli promise ciò che voleva, invocando uno spirito per la pozione d’amore.

    Subito accorri, o spirito immortale

    dalla tua casa celestiale.

    Fatto di rose, di stille nutrito,

    in filtri e pozioni tu sei erudito.

    Su portami dunque, qual vento irruente,

    un filtro odoroso dal gusto struggente,

    un dolce, prezioso, liquido incanto;

    Oh spirito accorri, presto, al mio canto!

    Nell’aria si diffuse una dolce melodia, e una piccola figura vestita di bianco, con le alette d’oro, i capelli biondi e una corona di rose in capo uscì dalla caverna, cantando:

    Eccomi sono arrivato

    a te dalla luna d'argento,

    la mia casa nel vento.

    Da lì il mio filtro proviene

    Ma, bada, usalo bene,

    o il suo potere sarà modesto

    e svanirà presto!

    Poi uscì di scena, lasciando una bottiglietta ai piedi della strega. Un nuovo canto di Hagar fece apparire un secondo spirito, un demone nero, brutto e deforme, che irruppe con fragore per scomparire quasi subito, dopo aver gettato una fialetta verso Hugo, che ringraziò la strega per il suo aiuto e se ne andò con le preziose bottigliette nascoste negli stivali.

    Rimasta sola, Hagar rivelò all’uditorio di odiare in realtà il tiranno Hugo, colpevole in passato dell’uccisione dei suoi amici, e di avere intenzione di compiere finalmente la sua vendetta.

    Calò il sipario, e gli spettatori commentarono il primo atto sgranocchiando canditi. Ci fu un gran battere di martelli, prima che la tenda si rialzasse, ma, quando si vide quale stupenda scenografia era stata allestita, nessuno osò più lamentarsi per la lunghezza dell’intervallo. Apparve un’altissima torre che svettava fino al soffitto, a metà della quale si apriva una piccola finestra illuminata, dietro cui si poteva scorgere Zara, in un magnifico abito celeste decorato d’argento, che aspettava Roderigo. Finalmente l’amato arrivò, con un cappello piumato, il mantello rosso, i lunghi riccioli, una chitarra e gli immancabili stivaloni. Inginocchiatosi ai piedi della torre, cantò una canzone d’amore. Zara rispose e, dopo un duetto, accettò di fuggire con lui.

    Al punto culminante del dramma, Roderigo si diresse in un angolo della scena dove, entrando, aveva appoggiato una scala a corda, la afferrò, ne gettò uno dei capi a Zara e la invitò a scendere. Timidamente lei si sporse, appoggiò una mano sulla spalla di Roderigo e si lanciò, dimenticandosi però del lungo strascico, che rimase impigliato alla finestra. La torre traballò e crollando con un terribile frastuono trascinò gli infelici amanti sotto le sue rovine.

    Tra le urla generali si videro gli stivaloni che si agitavano furiosamente nell’aria e una testa bionda che emergeva dalle macerie gridando: - L’avevo detto, io! L’avevo detto!

    Con grandissima presenza di spirito Don Pedro, il re crudele, accorse dal palazzo, riuscì a liberare la figlia e, dicendo a bassa voce a Roderigo: - Non ridere; fa’ come se la trama fosse veramente così! - indignato lo scacciò dal suo regno.

    Benché un po’confuso dalla caduta della torre, Roderigo rifiutava strenuamente di muoversi. Il suo esempio animò Zara: anche lei si oppose al padre che, fuori di sé dalla collera, ordinò che i due venissero condotti nelle più oscure prigioni del castello. Entrò un soldatino con delle lunghe catene in mano e li condusse via, dimenticando nella confusione il discorso che doveva fare.

    L’atto terzo si svolgeva nella sala del Castello. Hagar, rientrata in scena per compiere la sua vendetta su Hugo e per liberare Zara e Roderigo, vedendo arrivare Hugo, lo spiò mentre questi versava le pozioni in due bicchieri di vino, per poi ordinare al timido soldato:

    - Portali ai prigionieri e di’ loro che fra poco anch’io andrò a trovarli.

    Il servo chiamò Hugo in disparte per comunicargli una notizia importante e Hagar ne approfittò per scambiare i bicchieri con altri due in cui aveva versato una bevanda innocua. Obbedendo agli ordini, Ferdinando portò la bevanda ai prigionieri e Hagar, nel momento in cui Hugo era voltato verso il pubblico, pose sulla tavola il bicchiere contenente il veleno. Hugo, dopo un lungo monologo, sentendosi la gola secca, ne bevve un sorso, ma subito si sentì male e cadde in preda a una atroce agonia, mentre Hagar, trionfante, lo informava di essere l’artefice delle sue sofferenze.

    Fu un momento davvero drammatico, anche se si sarebbe potuto eccepire che la vista di una gran massa di capelli, scioltisi improvvisamente sulle spalle del moribondo, mal si adattasse all’enfasi della scena.

    Il protagonista fu comunque chiamato alla ribalta, dove si presentò con gran dignità tenendo per mano Hagar, la cui splendida voce aveva dato un decisivo contributo al buon esito dello spettacolo.

    Nell’atto quarto Roderigo, roso dal sospetto circa l’infedeltà di Zara, era sul punto di togliersi la vita. Aveva già il coltello alla gola, quando una dolcissima melodia lo rassicurò sull’onestà della sua amata, informandolo tuttavia che la ragazza era in pericolo e non poteva essere salvata che da lui. Una chiave cadde mirabilmente dall’alto e Roderigo esultando strappò le catene che lo tenevano legato e corse a salvare Zara.

    L’atto quinto prese avvio con un terribile scontro tra Zara e Don Pedro, che intimò alla figlia di ritirarsi in un convento. Apparve Roderigo, che chiese a don Pedro la mano dell’amata. Don Pedro rifiutò, perché il pretendente non era ricco, e Roderigo era sul punto di trascinare a peso Zara, mezza svenuta, quando entrò il timido servitore, portando una lettera e un sacco che Hagar aveva lasciato per Roderigo, prima di sparire misteriosamente.

    Letta la missiva, Roderigo informò Don Pedro di essere il ricco erede dei beni di Hagar e a conferma di ciò aprì il sacco,

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