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Shirley
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E-book827 pagine12 ore

Shirley

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Info su questo ebook

Traduzione di Fedora Dei
Edizione integrale

Pubblicato nel 1849, due anni dopo il clamoroso successo di Jane Eyre, Shirley è ambientato durante le guerre napoleoniche, nello Yorkshire del primo Ottocento, percorso dai fervori dell’industrializzazione e da profonde tensioni sociali. È la storia di due donne, Shirley Keeldar e Caroline Helstone. Ricca ereditiera la prima, orfana nullatenente la seconda: a legarle sono una profonda amicizia e un uomo, Robert Moore, spietato imprenditore tessile oberato dai debiti. Caroline lo ama, ricambiata; Shirley no, ma è a quest’ultima che Mr Moore chiede la mano, per salvarsi dalle difficoltà economiche. In uno straordinario intreccio di romanticismo e analisi delle lotte di classe, Charlotte Brontë delinea il ritratto preciso e particolareggiato di un mondo in drammatica mutazione, e lo fa attraverso gli occhi di una protagonista forte e orgogliosa: il risultato è una modernissima riflessione sulla condizione femminile, che ancora oggi non ha perso nulla della sua lucidità.
Charlotte Brontë
(Thornton 1816 - Haworth 1855) trascorse nello Yorkshire la propria vita funestata da malattie e disgrazie familiari. Fu autrice di romanzi che hanno per protagoniste delle drammatiche figure di donne: oltre a Villette (1853), scrisse Jane Eyre (1847), Shirley (1849) e Il professore (1857). La Newton Compton ha pubblicato Jane Eyre e Villette.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2016
ISBN9788854194069
Autore

Charlotte Brontë

Charlotte Brontë (1816-1855) was an English novelist and poet, and the eldest of the three Brontë sisters. Her experiences in boarding schools, as a governess and a teacher eventually became the basis of her novels. Under pseudonyms the sisters published their first novels; Charlotte's first published novel, Jane Eyre(1847), written under a non de plume, was an immediate literary success. During the writing of her second novel all of her siblings died. With the publication of Shirley (1849) her true identity as an author was revealed. She completed three novels in her lifetime and over 200 poems.

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    Anteprima del libro

    Shirley - Charlotte Brontë

    557

    Titolo originale: Shirley

    Traduzione di Fedora Dei

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9406-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Realizzazione: Paola Hage Chahine

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Immagine di copertina: © Mikel Casal

    Charlotte Brontë

    Shirley

    Edizione integrale

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. L’irlandese Patrick Brontë, diplomatosi in belle lettere al St John College di Cambridge, si stabilisce come pastore anglicano a Hartshead, nello Yorkshire, e sposa una giovane metodista di Penzance, Cornovaglia, Maria Branwell. A Thornton, presso Bradford, dove nel frattempo i Brontë si sono trasferiti, nasce la terza figlia, Charlotte.

    1817. Nasce Branwell (Patrick Branwell).

    1818. Nasce Emily (Emily Jane).

    1820. Nasce Anne. Accoglie i Brontë il presbiterio di pietra grigia a Haworth. Tra cimitero e brughiera.

    1821. Muore di cancro la signora Brontë. La sorella di lei, Elizabeth Branwell, accorsa da Penzance, si assumerà il compito di badare ai bambini e all’andamento della casa. Nel tranquillo presbiterio non mancano stimoli. Il reverendo è un uomo colto, autore di volumetti di poesia (Cottage Poems, The Rural Minstrel), e di pagine in prosa su questioni teologiche e politiche. I piccoli mostrano interesse per la storia, la politica, la letteratura. Più tardi da una donna anziana del villaggio assunta come domestica, Tabby (Tabitha Aykroyd), ascolteranno favole, leggende, tragedie locali, resoconti di eventi e costumi e superstizioni dello Yorkshire.

    1824-1830. Il collegio per le figlie degli ecclesiastici poveri a Cowan Bridge nel Lancashire (l’orfanotrofio di Jane Eyre, Lowood) ospita le sorelle maggiori e poco dopo anche Charlotte ed Emily. Nel 1825 le prime due vi contraggono la tisi e, riportate a casa, muoiono. Da quando, sul finire dell’autunno, Charlotte ed Emily lasciano Cowan Bridge definitivamente, inizia per i quattro bambini superstiti – sotto la guida del padre e della zia – un’intensa vita di studio alla quale si aggiungerà in segreto l’elaborazione di storie fantastiche: Charlotte e Branwell creeranno la saga di Angria, Emily e Anne quella di Gondal. Rimangono, testimonianza del misterioso fervore inventivo, minuscoli manoscritti formato francobollo.

    1831. Nell’istituto della signorina Wooler a Roe Head, non lontano da Haworth, Charlotte trascorre qualche mese e si lega d’amicizia a due allieve, Mary Taylor ed Ellen Nussey. Il rapporto con loro durerà fino alla morte di Charlotte. Nel 1835 Charlotte torna nella scuola della signorina Wooler con un incarico d’insegnamento.

    1842. Dopo brevi ma dolorose esperienze come istitutrice in case private, Charlotte si reca a Bruxelles con Emily per frequentare la scuola diretta dai coniugi Héger. Una pausa a Haworth dovuta alla morte della zia, ed ecco Charlotte di nuovo a Bruxelles nel gennaio 1843. Nel dicembre dello stesso anno il reverendo Brontë, sul punto di perdere la vista, richiama la figlia.

    1844-1845. Le tre ragazze progettano di aprire nel presbiterio un istituto per cinque o sei convittrici, ma tutto va a monte; le condizioni fisiche e morali di Branwell angosciano la famiglia; Charlotte decide una scelta di liriche sue e delle sorelle da dare alle stampe.

    1846. Con gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell (le ragazze serbano le loro iniziali) il libro esce ma passa inosservato.

    1847. Il primo romanzo di Charlotte, The Professor, non trova un editore mentre esce e riscuote un gran successo il secondo, Jane Eyre. An Autobiography, a cura di Currer Bell. Emily (Ellis) pubblica Wuthering Heights (Cime tempestose) e Anne (Acton) Agnes Grey.

    1848. Escono The Tenant of Wildfell Hall (L’inquilino di casa Wildfell), autrice Anne, e due nuove edizioni di Jane Eyre, la seconda con la dedica a Thackeray. Charlotte e Anne si recano a Londra e svelano la loro identità e quella di Emily agli editori che hanno lanciato Jane Eyre.

    1848-1849. Uno dopo l’altro muoiono Branwell (del quale ci rimane il bellissimo ritratto di Emily), Emily e Anne.

    1849. Pubblicazione di Shirley.

    1853. Esce Villette. Nel frattempo Charlotte incontra scrittori e letterati; stringe una salda amicizia con E. Gaskell, sua futura biografa.

    1854. Sposa il reverendo A.B. Nicholls, che da anni è l’assistente del padre e vive nel presbiterio.

    1855. Muore il 31 marzo, con un bimbo in grembo, dopo appena nove mesi di un matrimonio felice.

    1857. Escono la biografia della Gaskell e The Professor.

    1860. Viene pubblicato in aprile su «The Cornhill Magazine» il frammento Emma con una introduzione di Thackeray.

    1899. Inizia la Haworth Edition di tutte le opere delle Brontë, a cura di M. Ward.

    PRIME EDIZIONI

    Poems (di Currer, Ellis & Acton Bell), 1846

    Jane Eyre, An Autobiography ed. by Currer Bell, 1847

    Shirley, 1849

    Villette, 1853

    The Professor, 1857

    Emma, 1860

    Complete Poems, 1923

    Lettere: in C.K. Shorter, The Brontës: Life & Letters, 1908; M. Spark, The Brontë Letters, 1954

    The Glass Town Saga 1826-1832, 1987

    The Rise of Angria 1833-1835, 1991

    Shirley

    Capitolo

    I

    . Levitico

    Negli ultimi anni, sul Nord dell’Inghilterra si è abbattuta una pioggia di pastori d’anime: più fitti sulle colline, dove ogni parrocchia ne ha uno o più di uno, tutti abbastanza giovani per essere molto attivi e recar gran giovamento. Ma non di quegli anni parleremo, né degli attuali… che in effetti sono caldi, riarsi, bruciati dal sole del meriggio. Torneremo indietro, ai primi anni del secolo e, eludendo il meriggio, dimenticandolo nella siesta, passando il cuore della giornata nel torpore, sogneremo l’alba.

    Se da questo preludio, lettore, pensi che ti si ammannisca qualcosa di romantico… ebbene, non ti sei sbagliato di più! Pregusti sentimentalismo, poesia, sogni a occhi aperti? Ti vai immaginando passione, emozione e melodramma? Calmati e riporta le tue speranze a un livello inferiore. Ti sta davanti qualcosa di assai concreto, di freddo e solido. E di così poco romantico come può esserlo un lunedì mattina per chi va a lavorare e si sveglia con la coscienza di dover uscir dal letto e per giunta anche di casa. Non si afferma qui, perentoriamente, che non avrai un assaggino eccitante, almeno verso la metà o la fine del pranzo… ma sia ben chiaro che il primo a venir in tavola sarà un piatto che un cattolico (sì, perfino un cattolico anglicano) potrebbe mangiare anche nella Settimana Santa, il Venerdì di Passione. Saranno lenticchie fredde, niente olio e solo aceto; saranno radici amare e pane azzimo e niente agnello arrosto.

    Negli ultimi anni, dicevo, un’abbondante pioggia di curatori d’anime (i curati) si è abbattuta sull’Inghilterra del Nord. Ma intorno al 1811-12 quella benefica pioggia non era ancora venuta: i curati erano scarsi, né esisteva ancora il Pastoral Aid o l’Additional Curates’ Society¹ che allungasse una mano in aiuto dei vecchi parroci sfiniti, offrendo loro di che pagarsi un giovane collega vigoroso, proveniente da Oxford o da Cambridge. Gli attuali successori degli apostoli, seguaci del dottor Pusey e strumenti della Propaganda Divina², a quel tempo stavano ancora in cova, tra le copertine della culla, o sottoposti a rigenerazione battesimale nel bagnetto della stanza dei bambini. Al vederne uno, mai avresti immaginato che la doppia gala arricciata all’italiana della sua cuffietta in tulle circondasse la fronte di un successore di san Pietro, san Paolo e san Giovanni, già a tanto predestinato e specificatamente consacrato. Né mai avresti prefigurato nelle lunghe pieghe della sua camicia da notte la bianca cotta in cui egli avrebbe poi crudamente rampognato le anime dei suoi parrocchiani, sorprendendo – con quel suo bizzarro gesticolar di lassù, dal pulpito – perfino il vecchio vicario che mai aveva alzato le mani più in alto del comune leggio.

    Eppure, anche in quei giorni di penuria, i curati non mancavano: la pianta preziosa era rara, ma si trovava ancora. Un certo distretto dello Yorkshire aveva il privilegio di poter vantare ben tre verghe d’Aronne, fiorenti nel raggio di venti miglia. Ora li vedrai, amico. Entra con me in questa linda casuccia alla periferia di Whinbury e prosegui fino alla saletta del primo piano: eccoli là, a pranzo. Permetti che te li presenti: Mr Donne, curato di Whinbury; Mr Malone, curato di Briarfield; Mr Sweeting, curato di Nunnely. Gli ultimi due sono ospiti di Mr Donne che occupa alcune stanze in casa di un certo John Gale, un umile sarto. E Mr Donne ha gentilmente invitato a banchetto i suoi confratelli. Ci uniremo alla compagnia, vedremo quanto c’è da vedere, ascolteremo quanto c’è da ascoltare. Per il momento essi stanno mangiando, e noi ci faremo da parte, a parlar di loro. Questi signori sono nel fior degli anni, in possesso di tutto il vigore proprio di quella interessante età. Un vigore che i vecchi parroci attoniti ben vorrebbero incanalare verso i doveri pastorali, spesso esprimendo il desiderio di vederlo speso in accurate ispezioni scolastiche e frequenti visite agli ammalati delle rispettive parrocchie. Ma questi giovani leviti intuiscono che si tratta di compiti noiosi: preferiscono dissipare le loro energie in una serie di occupazioni che agli altri potrebbero apparire afflitte dalla noia e maledette dalla monotonia più di quanto non lo sia la fatica del povero tessitore al suo telaio, e che a quei tre invece elargiscono, a quanto pare, un’immancabile riserva di interesse e divertimento.

    Alludo a quel loro continuo correre avanti e indietro, dall’alloggio dell’uno verso quello dell’altro, e viceversa, per ritrovarsi sempre assieme. Non un giro, ma un triangolo di visite che essi mandano avanti per tutto l’anno, primavera, estate, autunno o inverno che sia. La stagione e le condizioni del tempo non hanno importanza: con incomprensibile zelo essi sfidano neve e grandine, pioggia e vento, fango e polverone, soltanto per pranzare, prendere il tè o cenare in compagnia. Che cosa li attragga è difficile dire! Non è amicizia, perché litigano ogni volta che si incontrano; non è la religione, perché l’argomento non viene mai sfiorato: di teologia di tanto in tanto discutono, di pietà cristiana no, mai; non è neppure il gusto di mangiare e bere, perché ognuno dei tre potrebbe avere a casa propria un trancio d’arrosto o uno sformato tale e quale gli viene servito alla tavola del collega, o un tè altrettanto robusto e crostini altrettanto gustosi. Le rispettive padrone di casa – le signore Gale, Hogg e Whipp – sostengono che è solo per «voglia di dar fastidio alla gente», e con gente alludono a loro stesse, perché quel sistema di invasioni reciproche non fa che tenerle «sulle spine».

    Mr Donne e i suoi ospiti sono dunque a pranzo. La padrona di casa, Mrs Gale, serve a tavola: ma con negli occhi una scintilla del fuoco che arde giù in cucina. A parer suo, il privilegio di invitare saltuariamente un amico senza sovrapprezzo (un privilegio compreso nelle clausole del contratto) ultimamente viene esercitato più che a sufficienza. Nella settimana in corso, e siamo solo a giovedì, Mr Malone, il curato di Briarfield, è già stato a colazione lunedì, rimanendo poi a pranzo; martedì è tornato con Mr Sweeting, il curato di Nunnely, sia per il tè sia per la cena, poi si sono fermati entrambi a dormire e quindi l’hanno favorita della loro presenza anche alla colazione di mercoledì mattina; oggi, giovedì appunto, eccoli di nuovo a casa e sicuramente si fermeranno anche per la notte. "C’en est trop!"³, direbbe la buona signora, se parlasse francese.

    Mr Sweeting sta tagliando la fetta di roast beef che ha nel piatto e si lagna che la carne è tigliosa. Mr Donne aggiunge che la birra è insipida, perché svampita. Questo è il brutto! Se i tre curati si comportassero da persone civili, Mrs Gale non se la prenderebbe troppo. Se solo si mostrassero soddisfatti di quello che ricevono, lei non farebbe caso a tutto il resto. «Ma questi giovani curati sono così altezzosi! Così sprezzanti! Si mettono tutti sotto i piedi». Inoltre la trattano con poco riguardo e «solo perché non ho una serva e sbrigo da me tutte le faccende di casa, come faceva mia madre. E poi parlano sempre male dello Yorkshire, degli usi e della gente dello Yorkshire!». Ed è questa, secondo Mrs Gale, la riprova che nessuno dei tre è un vero gentiluomo, né proviene da nobile schiatta. «Uno solo dei vecchi parroci ne vale un mazzo di questi giovanotti che han fatto l’università. I vecchi sì che lo sanno dove stanno di casa le buone maniere. Loro sì che son gentili con quelli che stanno in alto come con quelli che stanno in basso!».

    «Dell’altro pane!», grida Mr Malone, con quella sua pronuncia strascicata che, anche solo in due o tre parole, lo rivela come nativo dell’isola del trifoglio e delle patate. Mrs Gale ce l’ha in uggia più degli altri due, ma ne ha anche un po’ di soggezione: perché è un pezzo d’uomo, grande e grosso, con braccia e gambe imponenti, da vero irlandese. E ha la faccia tipica della sua nazionalità: non milesiana e neppure nello stile di O’Connell⁴, bensì una faccia fortemente modellata, quasi da indiano del Nord America, che caratterizza una certa classe di proprietari terrieri irlandesi. Un viso impietrito e orgoglioso, più adatto a un padrone di schiavi che al signore di una tenuta coltivata da uomini liberi. Il padre di Mr Malone si autodefiniva un gentiluomo: era povero e indebitato, ma scioccamente arrogante. Suo figlio è come lui.

    Mrs Gale portò la pagnotta.

    «Tagliatela, buona donna», disse l’ospite, e dunque la buona donna affettò il pane: ma se avesse seguito la propria inclinazione, avrebbe tagliato a fette anche il curato. A quei modi imperiosi, la sua fiera anima dello Yorkshire si ribellava tutta.

    I tre curati avevano un robusto appetito. Sebbene il roast beef fosse tiglioso, ne divorarono una gran quantità e tracannarono anche una passabile quantità di quella birra svampita, più uno sformato all’uso dello Yorkshire e due terrine di verdura che sparirono come foglie davanti alle locuste. Dedicarono quindi ragguardevole attenzione al formaggio e a una torta speziata che seguì a mo’ di dessert e che svanì senza lasciar traccia, come neve al sole. In cucina ne cantò l’elogio funebre il piccolo Abraham, di sole sei primavere, figlio ed erede dei coniugi Gale. Aveva fatto assegnamento sul vassoio di ritorno e, quando la mamma lo riportò giù, vuoto, il bambino protestò a gran voce e pianse amaramente.

    I curati, intanto, sorseggiavano il loro Porto, di modesta annata e quindi modicamente apprezzato. Mr Malone avrebbe preferito comunque del whisky, ma Mr Donne – da quel buon inglese che era – non reggeva quel tipo di bevanda. Sorseggiavano, dunque, e discutevano: non di politica, di filosofia o di letteratura, essendo questi argomenti per loro del tutto privi di interesse, neppure di teologia dottrinaria o pratica, bensì di certe minuzie della disciplina ecclesiastica, frivolezze che sarebbero apparse vuote bolle di sapone a chiunque, ma non a loro tre. Malone, dato che i suoi confratelli s’erano accontentati di un solo bicchiere di Porto, riuscì a versarsene due e a poco a poco divenne allegro a modo suo, divenne cioè alquanto insolente, prese a dire cose villane in tono spavaldo, ridendo poi fragorosamente alle proprie espressioni brillanti.

    Ognuno dei suoi compagni si trasformò, a turno, nel suo zimbello. Per loro Malone aveva in serbo una serie di facezie che tirava fuori immancabilmente a ogni occasione conviviale, come appunto era questa, e ben di rado ne variava lo spirito: della qual cosa, in verità, non c’era bisogno alcuno, perché lui non si trovava mai monotono e di quel che ne pensavano gli altri non gliene importava affatto. Gratificò Donne con accenni alla sua eccessiva magrezza, allusioni al suo naso rincagnato e feroci sarcasmi su un certo soprabito assai liso e color cioccolata che quel gentiluomo sfoggiava se pioveva o minacciava di piovere. Aggiunse poi acute critiche su una serie di frasi dialettali, tipiche di Donne anche nella pronuncia, e che certo erano degne di nota perché gli conferivano uno stile elegante e raffinato!

    Sweeting, invece, fu preso in giro per la sua corporatura – era un omettino, davvero un ragazzo sia in altezza sia in peso, specie se visto accanto all’atletico Malone – e inoltre fu beffato per il suo talento musicale, giacché suonava il flauto e cantava gli inni sacri come un serafino (a detta di alcune damigelle della parrocchia) e quindi deriso quale beniamino delle signore; fu inoltre punzecchiato a proposito della mamma e delle sorelle, per le quali il povero Sweeting conservava un residuo di attaccamento, ma era tanto sciocco da parlarne talvolta in presenza di quel pretone irlandese dalla cui anatomia dovevano in qualche modo essere state omesse le viscere degli affetti naturali.

    Le vittime subivano quegli attacchi in modo diverso. Donne, con una specie di ampolloso autocompiacimento e una flemma semiastiosa, quali unici puntelli di un’altrimenti troppo traballante dignità; Sweeting, con l’indifferenza e con la disposizione d’animo placida e disarmante di chi non ha mai preteso di avere una gran dignità da difendere.

    Quando però i motteggi di Malone si fecero troppo pesanti, la qual cosa invero accadeva assai presto, i due si riunirono nel tentativo di rendergli pan per focaccia. Gli chiesero quanti ragazzini quel giorno gli avessero gridato dietro «Peter l’Irlandese!», (il nome di Malone era Peter: reverendo Peter Augustus Malone) e se era d’abitudine, in Irlanda, che un ecclesiastico portasse in tasca la pistola carica e impugnasse un nodoso randello anche nel corso delle visite pastorali. Poi gli chiesero il significato di certe parole che, storpiate come usava fare Malone, risultavano incomprensibili; insomma ricorsero a tutti i mezzi di rappresaglia che la loro innata raffinatezza mentale andava via via suggerendo.

    Tutto ciò, naturalmente, non garbava affatto a Malone. Ma non essendo egli né flemmatico né di buon carattere, si lasciò andare alla collera. Alzò la voce, gesticolando: Donne e Sweeting gli risero in faccia. Lui li insultò, chiamandoli sassoni e snob, con tutto il volume della sua robusta voce celtica; loro gli rinfacciarono di esser nato in un paese schiavo. Lui, in nome del suo popolo, minacciò la ribellione, sfogando un amaro odio contro il dominio britannico; loro parlarono di gente stracciona, di miseria e di pestilenze. La saletta era tutta un tumulto; si sarebbe detto che a tali virulente ingiurie dovesse seguire per lo meno un duello. Faceva anzi meraviglia che i coniugi Gale, allarmati per tanto baccano, non chiamassero un agente a mettere pace. Ma essi erano abituati a tali esibizioni; sapevano che i tre curati non si riunivano mai per desinare o prendere il tè, senza avere poi un piccolo esercizio del genere; sapevano che quelle liti pretesche erano tanto rumorose quanto innocue e finivano in un nulla di fatto; sapevano che, non importa in quali termini i tre si fossero lasciati la sera prima, al mattino seguente si sarebbero tornati a incontrare come i migliori amici del mondo.

    I bravi coniugi Gale, dunque, sedevano tranquilli accanto al fuoco, in cucina, prestando ascolto ai ripetuti e sonori contatti del pugno di Malone con il piano di mogano della tavola da pranzo e il conseguente sobbalzare e tintinnare di bicchieri e caraffe che si verificava a ogni assalto, nonché alle beffarde risate dei due alleati inglesi e alle stentoree declamazioni dell’isolato irlandese. E mentre così stavano, udirono un passo sui gradini della porta d’ingresso, poi il batacchio vibrò a lungo, per una vivace scossa.

    Andò ad aprire John Gale.

    «Chi avete nella saletta di sopra?», chiese una voce. Era una voce piuttosto ragguardevole nel suo tono nasale e nella brusca pronuncia.

    «Oh, siete voi, Mr Helstone! Quasi non riesco a vedervi, signore, con questo buio. Fa notte presto, ormai. Non entrate?»

    «Voglio prima sapere se ne vale la pena. Chi c’è di sopra?»

    «I curati, signore».

    «Cosa? Tutti e tre?»

    «Sì, signore».

    «Cenano qui?»

    «Sì, signore».

    «Allora ci sto».

    Con queste parole, la persona entrò: un uomo di mezza età, tutto in nero. Attraversò la cucina, andò dritto a una porta interna, l’aprì, sporse la testa in avanti e rimase in ascolto: e da ascoltare ce n’era, in quel momento, con un baccano più forte che mai.

    «Ehm, ehm…», borbottò l’uomo tra sé e sé. Poi si rivolse a John Gale: «E questo capita spesso?»

    «Sono giovani, sapete… sono giovani!», rispose l’altro in tono deprecatorio. Era stato sagrestano, aveva indulgenza verso il clero.

    «Giovani! Ci vuole il bastone con loro… Ragazzacci! Ragazzacci! E farebbero lo stesso anche se voi foste un dissidente, anziché un buon anglicano! Si comprometterebbero. Ma io…».

    Invece di finir la frase, l’uomo oltrepassò la soglia, si tirò dietro la porta e infilò subito le scale. Arrivato di sopra si fermò di nuovo qualche attimo, in ascolto, poi – senza alcun preavviso – fece il suo ingresso e fu davanti ai curati.

    Ammutolirono. Restarono come paralizzati. E così pure colui che era entrato. Lui: un individuo di bassa statura ma ben eretto nel portamento, con sulle ampie spalle una testa da falco, dagli occhi al becco, e sul tutto un roboamo nero, cioè un cappello a larghe tese che in quel momento egli non trovò necessario togliersi o sollevare in segno di saluto a coloro che gli stavano davanti. Lui incrociò le braccia e squadrò a lungo quei suoi giovani amici… se pur si trattava di amici.

    «Ebbene», cominciò con una voce non più nasale, bensì cupa, anzi, più che cupa, una voce volutamente cavernosa e rimbombante. «Ebbene? Si è dunque rinnovato il miracolo della Pentecoste? Le doppie lingue di fuoco sono discese nuovamente? E dove sono? Fino a un momento fa il loro suono riempiva tutta la casa. Ho udito i diciassette linguaggi, in piena azione. Qui c’erano parti e medi, elamiti e gente di Mesopotamia, Giudea e Cappadocia, del Ponto e dell’Asia Minore, della Frigia, della Panfilia e dell’Egitto e dei paesi della Libia intorno a Cirene, ebrei e proseliti stranieri di Roma, arabi e cretesi… ognuno di questi popoli doveva averci un rappresentante, in questa stanza, meno di due minuti fa»⁵.

    «Vi chiedo scusa, Mr Helstone», cominciò Donne. «Vogliate accomodarvi, prego. Gradite un bicchiere di Porto?».

    La sua gentilezza non ricevette risposta alcuna. Il falcone in nero continuò: «Ma che sto a parlare del dono delle lingue? Bel dono, infatti! Ho sbagliato capitolo, libro e Testamento. Ho scambiato l’Antico per il Nuovo, la Genesi per gli Atti degli Apostoli, la pianura di Shinar per la città di Gerusalemme. Qui non c’era il dono bensì la confusione delle lingue! Ne sono rimasto assordato. Apostoli, voi tre? Certo che no! Tre presuntuosi muratori della Torre di Babele… né più né meno!».

    «Si stava conversando, ve l’assicuro… due chiacchiere, dopo una cenetta amichevole, con un bicchiere di vino. Stavamo sistemando i dissidenti, signore…».

    «Ah! Sistemando i dissidenti… ma davvero? Malone faceva questo? M’è parso invece che stesse mettendo a posto i suoi colleghi in apostolato! Qui si stava litigando. Che baccano voi tre da soli… quasi quanto ne stanno facendo Moses Barraclough e tutti i suoi accoliti che sono là… lui il sarto-predicatore e quelli che gli vanno dietro… sono alla cappella metodista, in pieno risveglio religioso. Ma io so di chi è la colpa, per quel che succede qui. È vostra, Malone!».

    «Mia, signore?»

    «Vostra, signore! Prima che arrivaste voi, Donne e Sweeting erano tranquilli, e lo sarebbero di nuovo, se voi ve ne andaste. Peccato che, attraversando il Canal d’Irlanda, non vi siete lasciato dietro le spalle le usanze nazionali. I modi degli studenti di Dublino, qui, non vanno bene. Il comportamento che passerebbe forse inosservato in una landa selvaggia o tra i monti del Connaught, in una dignitosa parrocchia inglese diventa disdicevole e reca, appunto, gran disdoro a chi vi indulge… ma quel che è peggio, reca disdoro alle sacre istituzioni delle quali noi siamo le umili appendici».

    La rampogna dell’attempato signore a quei tre giovani non mancava di una sua dignità, anche se veniva posta in un modo che non era il più adatto all’occasione. Mr Helstone era là, dritto come un fuso e con lo sguardo penetrante, da nibbio; e aveva – nonostante il copricapo clericale, il mantello nero e le ghette nere anch’esse – più l’aspetto di un vecchio ufficiale intento a richiamare all’ordine i suoi subalterni, che quello di un venerabile ecclesiastico intento a esortare i suoi figli in Cristo.

    Sembrava che la mitezza evangelica e l’apostolica benevolenza non avessero mai fatto giungere l’alito della loro influenza su quel volto bruno e acuto: la risolutezza ne aveva fissato i lineamenti, e la sagacia vi aveva impresso le rughe.

    «Ho incontrato Supplehough», egli continuò, «che, in una serataccia come questa, sguazzava nel fango per andare a far la sua predica a Milldean. E, ve l’ho già detto, ho sentito laggiù, alla cappella metodista, quel Barraclough che muggiva come un toro assatanato. E trovo qui voi, miei signori, che indugiate sulla vostra mezza pinta di torbido Porto, berciando come vecchie litigiose. Non fa meraviglia che Supplehough abbia adescato ben sedici adulti convertiti in un giorno solo… come appunto gli capitò un paio di settimane or sono. Non fa meraviglia che Barraclough, mascalzone e ipocrita com’è attragga tutte le giovani tessitrici, con i loro fiori e i loro nastri, a constatare quanto le sue nocche siano più resistenti del bordo di legno di quella tinozza del suo pulpito e ben poca meraviglia fa che voi, quando siete lasciati a voi stessi, intendo senza un rettore che vi sorregga, come facciamo noi… io e Hall e Boultby… troppo spesso vi troviate a celebrare il santo servizio alle nude mura della chiesa e a recitare il vostro arido sermoncino al chierico, al sagrestano e all’organista soltanto! Ma non parliamone più. Sono qui per Malone. Ho un incarico per voi, giovanotto!».

    «Di cosa si tratta?», chiese questi con aria scontenta. «Non ci sono funerali da accompagnare, a quest’ora».

    «Avete armi con voi?»

    «Armi, signore? Ho le braccia e le gambe», e mostrò le membra possenti.

    «Armi da fuoco, intendo».

    «Le pistole che mi avete dato voi, signore. Non me ne separo mai, nemmeno alla notte: le metto su una seggiola là pronte, accanto al letto. E poi ho il mio randello».

    «Benissimo. Volete andare a Hollow’s Mill?»

    «Cosa sta succedendo a Hollow’s Mill?»

    «Niente, per ora. E forse mai. Però Moore è là da solo. Ha mandato a Stilbro’ tutti gli operai di cui poteva fidarsi e sul posto non sono rimaste che due donne. Questa è una buona occasione perché i suoi sostenitori gli facciano visita, specie sapendo come sarà facile entrare».

    «Non sono un sostenitore di Moore… non mi sono mai interessato a lui».

    «Suvvia, Malone! Voi avete paura».

    «Sapete bene che non è così, signore. Se davvero ci fosse il rischio di qualche tafferuglio, ci andrei… anche se Moore è un tipo strano, molto riservato, che non ho mai avuto la pretesa di capire a fondo. Per il solo gusto della sua compagnia, non muoverei un passo».

    «Ma esiste la possibilità di disordini, Malone. Non scoppierà una rivolta, perché in effetti non ne vedo i segni premonitori, ma è assai improbabile che la notte trascorra nella massima calma. Lo sapete bene che Moore ha deciso di acquisire nuovi macchinari, si aspetta che gli arrivino due carichi di telai stasera, da Stilbro’. Perciò ha mandato laggiù Scott, il sovraintendente, e due carri, con alcuni uomini scelti a prelevarli».

    «E basteranno loro a mettere al sicuro le macchine, in tutta calma».

    «Lo sostiene anche Moore. E non vuole nessuno. Invece qualcuno deve esserci, là, con lui. Se non altro per far da testimone, dovesse accadere qualcosa. Moore è molto imprudente, gliel’ho fatto notare. Ma lui continua a starsene in ufficio con le finestre spalancate, e di notte va in giro da solo, vaga su per la valle, lungo Fieldhead Lane e di qua e di là per le piantagioni; come se fosse il beniamino di tutti – non già l’oggetto di odio da parte di molti – e avesse il mantello incantato, come si dice nelle favole. La sorte toccata a Pearson e ad Armitage non gli serve da ammonimento. Presi a fucilate, tutti e due: uno se ne stava in casa e l’altro in giro per la brughiera».

    «Dovrebbe prender delle precauzioni, invece», intervenne Sweeting. «E starebbe bene in guardia, se avesse sentito quel che ho sentito io, l’altro giorno».

    «Che cosa, Davy?»

    «Conoscete Mike Hartley, signore?»

    «Il tessitore? Quello che è antinomista?»

    «Sì. Quando gli capita di bere per qualche settimana di seguito, Mike viene al vicariato di Nunnely, per una visitina al reverendo Hall. E gli dice tutto quel che pensa dei suoi sermoni e della dottrina basata sulle buone opere, poi finisce coll’ammonirlo duramente che lui e tutti i suoi parrocchiani sono in effetti già immersi nelle tenebre eterne».

    «Ma questo non ha niente a che vedere con Moore».

    «No, ma quel Mike, oltre che un antinomista, è anche un giacobino arrabbiato e fautore dell’uguaglianza sociale: è un livellista!».

    «Lo so. Quando è ben bene ubriaco, va farneticando sul regicidio. Non è del tutto digiuno di storia, e c’è da divertirsi a sentirlo che recita la lista dei tiranni sui quali, come dice lui, il vendicator del sangue ha avuto soddisfazione. È un tipo che si esalta a veder cadere una testa coronata, intendo, o anche una testa qualsiasi, purché sia per motivi politici! E a proposito di Moore ho già sentito dire che Mike Hartley avrebbe un suo bizzarro capriccio riguardo Moore. Volevate alludere a questo, Sweeting?»

    «Sì, e voi avete usato la parola più appropriata: un bizzarro capriccio. Nessun rancore personale, sostiene il reverendo Hall: anzi, pare che a Mike piaccia chiacchierare con Moore, ma ha il capriccio di fare di lui un esempio, lo considera l’industriale più intelligente di tutto lo Yorkshire. Lo esaltava proprio così, l’altro giorno, parlandone con il reverendo Hall. E diceva che appunto Moore avrebbe dovuto essere la vittima prescelta, un olocausto dal prelibato aroma. Ma è sano di cervello, quel Mike», concluse Sweeting, ingenuamente.

    «Non so dirtelo, Davy. Può darsi che sia pazzo o solo un chiacchierone… o un po’ dell’uno e un po’ dell’altro».

    «Dice di aver delle visioni».

    «Già! In quanto a visioni Mike è un vero Ezechiele o addirittura un Daniele! Venerdì scorso è venuto da me, quando stavo per coricarmi, e solo per riferirmi di aver avuto una visione, quel pomeriggio, nel parco di Nunnely».

    «Quale visione? Dite, signore».

    «Oh Davy! Dentro a quel tuo cranio c’è un enorme organo della Curiosità. Malone, invece, non ne ha affatto! A lui non interessano né i regicidi né le visioni. Guardalo! Non sembra un grosso Saph distratto?»

    «Saph? E chi era, signore?»

    «Immaginavo che non l’avessi mai sentito nominare! Un giorno o l’altro lo scoverai anche tu. È un personaggio biblico. Non so niente di lui tranne il nome e la razza, ma fin da giovanetto, io gli ho attribuito una certa personalità. Credimi: era onesto, forte e sfortunato. Incontrò la sua fine a Gob, per mano di Sibbechai».

    «E la visione?»

    «Te la dirò, Davy. Donne si sta rosicchiando le unghie, Malone sbadiglia; quindi la racconterò soltanto a te. Dunque, come sai, Mike Hartley è disoccupato. Lui e tanti altri, disgraziatamente. Mr Grame, il castaldo di Sir Philip Nunnely, gli ha affidato un lavoretto, dalle parti del priorato. Ebbene, stando alla sua versione, lui era là, venerdì scorso, nel tardo pomeriggio, ma non aveva fatto ancora buio. Mike stava sistemando certe siepi, quando sentì una musica di corni, pifferi, e il suono di una tromba. La musica veniva dal bosco, e Mike si chiese chi mai poteva esserci, laggiù, a suonare a quel modo. Alzò gli occhi e vide di tra gli alberi una gran quantità di cose che si muovevano… oggetti, rossi come papaveri e bianchi come il fior del biancospino. Riempivano il bosco e poi si riversarono nel parco. Allora egli riconobbe che erano soldati… migliaia, decine di migliaia di soldati! Non facevano alcun rumore, non più di uno sciame di moscerini in una sera d’estate. Si disposero in ranghi e così sfilarono, un reggimento dopo l’altro, attraverso il parco, fino a raggiungere il pascolo demaniale. La musica continuava a suonare con toni morbidi in lontananza. Si misero a fare delle evoluzioni; un tizio, tutto vestito di scarlatto, stava in mezzo e dava gli ordini. Erano tanti che, secondo Mike, coprivano più di cinquanta acri di terreno. Rimasero là per una mezz’ora, poi si allontanarono piano, piano. Per tutto il tempo non si udirono rumori di voci né scalpiccii. Soltanto la musica, quella marcia militare, solenne ma come attutita».

    «Dove andarono i soldati?»

    «Verso Briarfield. Mike li seguì con lo sguardo fin dopo Fieldhead. E qui si levò una gran nube di fumo, una colonna di fumo quale potrebbe vomitarla un intero parco di artiglieria. Dilagò, blu e fioca, sui campi, sullo stradone, sul pascolo, fino ai piedi dello stesso Mike. Quando il fumo si diradò, i soldati non c’erano più. Svaniti. Non lo rivide più. Ora, questo Mike non si limita ad aver delle visioni. Da quel saggio Daniele che è, non soltanto ha raccontato la visione, ma l’ha interpretata! Secondo lui, significa spargimento di sangue e guerra civile».

    «Gli prestate fede, signore?»

    «E voi? Suvvia, Malone! Perché non siete già fuori?»

    «Mi stupisce, signore, che non siate rimasto voi con Moore. È il genere di cose che vi piace».

    «Lo avrei certo fatto, se non avessi un impegno con Boultby. È a una riunione presso la Bible Society, a Nunnely, e gli ho detto io di fermarsi a cena da me, tornando a casa. Perciò ho promesso di mandar voi, Malone, come mio sostituto; e adesso che ci penso, Moore non mi ha nemmeno ringraziato, per questo. Certo che preferiva me a voi, ma vi raggiungerò, se ci sarà bisogno: la campana della fabbrica suonerà l’allarme. Andate voi, intanto», volgendosi improvvisamente agli altri due, «a meno che non preferisca andarci David Sweeting, oppure Joseph Donne. Che ne dite, signori miei? Si tratta di un nobile incarico, con in più un pizzico di rischio, a dargli maggior sapore. In paese c’è tensione, lo sapete. Moore, la sua fabbrica, le sue macchine sono abbastanza in odio alla gente. Ma nei vostri petti, signori, albergano sentimenti cavallereschi, non ne dubito! Sotto quei vostri panciotti pulsa un indomito coraggio. Forse sono stato troppo parziale con Malone, il mio favorito. L’eroe potrebbe esser il piccolo David, oppure Joseph, il campione senza macchia! Dopotutto, Malone, voi non siete che un povero Saul, buono soltanto a prestare le armi agli altri. Suvvia, date le pistole ai vostri colleghi e voi prendete il randello che è laggiù, in quell’angolo».

    Con un sogghigno significativo Malone estrasse le pistole e ne porse una a ciascuno dei suoi confratelli. Ma l’arma prontamente offerta non fu prontamente afferrata: entrambi quei gentiluomini si ritrassero con graziosa ritrosia.

    «Non ho mai toccato nulla del genere, né mai lo farò», disse Donne.

    «Io sono quasi un estraneo per Moore», mormorò Sweeting. «Gran Satrapo d’Egitto! Se non avete mai toccato una pistola, provateci ora! In quanto al nostro piccolo menestrello, forse lui preferisce sfidare i filistei armato soltanto del suo flauto! Verranno tutti e due con voi, Peter. Su, prendete i cappelli e via!».

    «No, signore. No, Mr Helstone, a mia madre non piacerebbe», supplicò Sweeting.

    «Mi sono dato la regola di non immischiarmi mai in cose del genere», aggiunse Donne.

    Helstone fece un sorriso sardonico; Malone fece una risata cavallina. Si rimise in tasca le due pistole, prese soprabito, cappello e bastone, dicendo che non si era mai sentito, in vita sua, così «in vena di un po’ di baraonda», e che «magari venisse una ventina di quei sudici tessitori proprio stanotte a dar l’assalto ai quartieri di Moore!», uscì, scese le scale in un paio di balzi e fece tremare tutta la casa sbattendosi il portone alle spalle.

    Capitolo

    II

    . I carri

    La notte era color pece, con luna e stelle spente da grigie nuvole gravide di pioggia che di giorno sarebbero apparse davvero grigie, ma ora sembravano nere. Malone non era uomo dedito all’attenta osservazione della natura, dei cui mutamenti mai si avvedeva. Poteva camminare per miglia e miglia, nel più variabile giorno d’aprile, e non accorgersi dei leggiadri giochi della terra e del cielo. Mai che notasse quando il sole baciava le cime delle colline, a renderle chiare di verde luce e sorridenti; o quando vi piangeva un acquazzone, a nasconderne le dolci creste con le trecce scarmigliate di una nuvola a bassa quota. Né Malone badava perciò a raffrontare il cielo come ora gli appariva – un’effusa volta tutta nera, salvo verso est dove le fornaci delle ferriere di Stilbro’ gettavano un tremulo riflesso cupreo sull’orizzonte – con quello stesso firmamento quale sarebbe apparso in una limpida notte di gelo. Né si affliggeva a chiedersi di costellazioni e pianeti, o a rimpiangere la serenità neroazzurra dell’oceano d’aria che quelle fulgide isolette sogliono ingemmare; un altro oceano, di più fosco elemento, ora vi si agitava sotto e le nascondeva. E Malone proseguiva il suo cammino, ostinatamente, un po’ curvo in avanti e con il cappello calcato sulla nuca, all’uso irlandese. Tonf, tonf, e via lungo il marciapiede, là dove la strada godeva il privilegio di tale comodità; e poi sciac, sciac, lungo i solchi dei carri, là dove il selciato lasciava il posto a un molle pantano di fango. Malone si preoccupava soltanto di ben localizzare alcuni punti di riferimento: la cuspide del campanile di Briarfield e, più avanti, le luci della Red House. Era questa una taverna: dalle finestre, con tendine a metà sollevate, trapelava lo splendore di un bel fuoco che a sua volta rivelava una gran tavola di quercia con su molti bicchieri e intorno i bevitori, seduti su una panca di legno. Per un momento si lasciò sviare da quella visione: con bramosia si figurò un bel gotto di whisky allungato con acqua. In un luogo che gli fosse stato estraneo, Malone avrebbe subito realizzato quel sogno, ma nella compagnia là radunata c’erano alcuni parrocchiani del reverendo Helstone: lo conoscevano tutti. Sospirò e tirò dritto.

    Ora doveva abbandonare la strada maestra per una scorciatoia tra i campi, la quale di molto diminuiva la distanza per Hollow’s Mill. Ed erano campi uguali e pianeggianti che Malone prese ad attraversare fuori del sentiero, scavalcando siepi e staccionate. Raggiunse così un edificio che, pur nelle sue linee irregolari, aveva tuttavia l’aspetto di una dimora signorile; con un’ampia facciata sormontata da un gran frontone, un timpano minore, una fitta selva di camini e, dietro la casa, alcuni alberi.

    Era tutta buia: nemmeno una candela che brillasse a una finestra qualsiasi. E assolutamente silenziosa: uniche voci, il ruscellare della pioggia dalle grondaie e, basso ma impetuoso, il vento che fischiava tra i cespugli circostanti e i comignoli.

    Al di là dell’edificio i campi, fin a quel punto piatti, declinavano verso una ripida discesa; più sotto si apriva una valle attraversata da un corso d’acqua del quale si udiva il mormorio. Nelle tenebre, ecco una luce: Malone piegò subito verso quel segnale di vita.

    Giunse a una casetta bianca – che fosse bianca lo si vedeva anche in quel buio fitto – e bussò alla porta. Gli aprì una servetta dal fresco faccino. La luce della candela che la ragazza reggeva in mano mostrò uno stretto corridoio e in fondo un’angusta rampa di scale. Due porte foderate di panno cremisi e la passatoia dello stesso colore, lungo tutti i gradini, contrastavano con le pareti tinteggiate di chiaro e con il pavimento immacolato: quello scorcio d’interno appariva impeccabile, come rinnovato di fresco.

    «Mr Moore è qui, vero?»

    «Sì, ma non è in casa».

    «Non è in casa? E dove, allora?»

    «In fabbrica. Negli uffici».

    A questo punto una delle porte cremisi si aprì.

    «Sono arrivati i carri, Sarah?», chiese una voce femminile e una testa di donna apparve nello spiraglio dell’uscio. Non era forse la testa di una dea (a escludere tale ipotesi bastavano i bigodini avvitati in due bande, una per ogni tempia) ma non era neppure la testa di una Gorgone. Tale, invece, sembrò giudicarla Malone che, grande e grosso com’era, si fece indietro, quasi impaurito, e tornò di fuori, sotto la pioggia.

    «Andrò a cercarlo», e si affrettò per un breve sentiero che attraversava un buio giardino, raggiungendo un enorme capannone tutto scuro.

    Finito il lavoro, uscita la manodopera, le macchine riposavano nell’opificio chiuso. Malone ne fece il giro e da qualche parte, lungo la grande fiancata fuligginosa, scoprì uno spiraglio di luce, quindi una porta alla quale bussò con la pesante impugnatura del suo randello, in una specie di eccitante tamburellio. Una chiave girò nella toppa, la porta si aprì.

    «Sei tu, Joe Scott? Quali notizie dei carri?»

    «No… sono io. Mi manda il reverendo Helstone».

    «Oh, Mr Malone!», e nel pronunciare quel nome la voce che parlava ebbe un piccolissimo accento di disappunto. Un attimo di pausa, poi l’uomo riprese, con gentilezza formale: «Prego, Mr Malone, entrate. Mi spiace che il reverendo Helstone vi abbia disturbato. Non era affatto necessario, gliel’avevo detto… E in una serataccia simile, poi… Ma, prego, accomodatevi».

    Attraverso una stanza buia, d’aspetto indistinguibile, Malone passò in un’altra, luminosa e accogliente: così infatti poteva sembrare agli occhi di uno che per tutta un’ora si era sforzato di penetrare la doppia oscurità della notte e della nebbia. Ma, tranne che per il bel fuoco e la lampada dalla linea elegante che splendeva su un tavolo, si trattava di una stanza modesta. Il pavimento di assi non aveva tappeto; le tre o quattro seggiole, a schienale rigido e dipinte in verde, sembravano provenire dalla cucina di una casa di contadini; una scrivania di solida e massiccia struttura, e il tavolo già detto, completavano l’arredamento, più alcuni fogli incorniciati e appesi alle pareti, con progetti di edifici, planimetrie di terreni, disegni di macchine.

    L’ambiente, pur così modesto, sembrò soddisfare pienamente Malone: si tolse di dosso il soprabito umido di pioggia e il cappello, li appese e subito tirò accanto al camino una di quelle seggiole dall’aspetto anchilosato, e si piazzò con le ginocchia quasi a ridosso della grata rovente.

    «Avete un bel quartierino, qui, Mr Moore. Comodo, tranquillo, tutto per voi».

    «Sì. Mia sorella sarebbe tuttavia molto lieta di vedervi, se preferite accomodarvi in casa».

    «Oh, no! Le signore stanno meglio da sole. Non sono mai stato un damerino, io. Non mi confondete con il mio amico Sweeting, vero, Mr Moore?»

    «Sweeting? Qual è… dei due? Quello dal soprabito color cioccolata o il piccoletto?»

    «Il piccoletto. Curato di Nunnely e… cavalier servente delle signorine Sykes… innamorato di tutte e sei! Ah! Ah!».

    «Meglio esser innamorato genericamente di tutte che specificatamente di una sola, direi, in questo caso».

    «Ma di una è innamorato in modo particolare! Quando Donne e io abbiamo insistito perché si pronunciasse, dichiarando la preferita in quella bella nidiata, ebbene… secondo voi… chi pensate che abbia detto?»

    «Dora, naturalmente. Oppure Harriet», rispose Moore con un sorriso strano e sereno.

    «Ah! Ah! Avete un intuito eccellente! Avete colpito giusto nel segno. Come mai, proprio quelle due?»

    «Perché sono le più alte, le più formose. Dora è anche la più vigorosa. E siccome il vostro amico Sweeting è un tipetto basso e snello, ho immaginato che preferisse una che è l’opposto di lui, secondo una regola ben nota, in casi simili».

    «Giusto: è Dora. Ma Sweeting non ha nessuna possibilità, vero?»

    «Che cosa possiede, oltre al beneficio che gli viene dalla parrocchia?».

    A quella domanda Malone parve immensamente divertito. Rise per tre minuti buoni, prima di rispondere: «Cosa possiede? Be’, David ha la sua arpa, cioè un flauto… ma fa lo stesso. Ha un orologio di similoro, un anello idem e idem per la montatura degli occhiali. Ecco tutto!».

    «E come pensa di mantenere la moglie, anche solo di vestirla?»

    «Ah! Ah! Bellissima, questa! Glielo chiederò la prima volta che lo vedo. Me lo voglio cucinare a fuoco lento, per la sua presunzione! Ma lui è sicuro che ci penserà il padre della ragazza. Il vecchio Christopher Sykes è un uomo ricco, vero? So che abita in una grande casa».

    «Sykes manda avanti una grossa azienda».

    «Perciò sarà ricco, eh?»

    «Perciò avrà un bel po’ di cose cui destinare i suoi soldi. In tempi come questi, stornare risorse dagli affari per costituire la dote alle figlie è tanto probabile quanto che a me venga in mente di buttar giù il villino dove abito per costruire sulle sue rovine una casa grande come Fieldhead!».

    «Lo sapete cosa ho sentito dire l’altro giorno?»

    «No. Forse che voglio davvero fare qualcosa del genere. Ci sono dei pettegoli, a Briarfield, capaci di dire una tale sciocchezza, e anche di peggio».

    «Che prenderete in affitto Fieldhead, infatti! A proposito, passandoci davanti stasera, mi è sembrato un posto tristissimo… e che ci porterete dentro una padrona di casa; che vi sposate, insomma, e proprio con una delle signorine Sykes! Quale delle sei? Dora, naturalmente. L’avete detto voi che è la più formosa».

    «Mi piacerebbe sapere quante volte hanno deciso che sto per sposarmi, da quando sono venuto ad abitare a Briarfield! Una alla volta, mi hanno affibbiato tutte le ragazze da marito della zona. Le due signorine Wynns, per esempio: prima la bruna e poi la bionda. Quindi Miss Armitage che è rossa di capelli, poi Ann Pearson che è un po’ maturotta, e adesso voi mi buttate sulle spalle tutta la tribù delle signorine Sykes! Su quali basi si fondano questi pettegolezzi, lo sa Iddio! Non vado da nessuna parte, frequento la compagnia femminile quasi quanto potreste frequentarla voi, Mr Malone, e se vado a Whinbury è solo per fare una capatina in ufficio da Sykes o da Pearson. Le nostre discussioni si aggirano su ben altri argomenti che il matrimonio, la dote delle ragazze o il far la corte a questa o a quella. Parliamo delle stoffe che non riusciamo a vendere, della manodopera che non riusciamo ad assumere, delle fabbriche che sono ferme, di come vadano male le cose in genere, che non siamo noi a poter correggere… Ecco cosa ci preoccupa, in questo momento, e credo ce ne sia abbastanza per escludere del tutto certe fantasie come amori e fidanzamenti».

    «Sono completamente d’accordo con voi, Moore. Se c’è un argomento che odio più di ogni altro è quello del matrimonio, inteso nel suo senso più comune e inconsistente… una questione di sentimentalismo… due poveracci che scioccamente decidono di unire la loro miseria per via di non so quale immaginario vincolo d’amore! Stupidaggini! Ma un accordo vantaggioso, quale si può stringere in conformità a un dignitoso intento e sulla base di solidi e duraturi interessi… non è poi tanto male, eh?»

    «No», rispose Moore con aria distratta. Sembrava che l’argomento non avesse più alcun interesse, per lui. Lo lasciò cadere e rimase a lungo a fissare il fuoco, con espressione preoccupata. Improvvisamente voltò il capo: «Ascoltate!», esclamò. «È un rumore di ruote?».

    Si alzò per aprire la finestra, rimase in ascolto e richiuse quasi subito. «È solo il vento, si fa più forte», dichiarò. «E il ruscello che corre via veloce, gonfio d’acqua. Aspettavo quei carri per le sei e sono già le nove».

    «Temete davvero che l’installazione di quelle nuove macchine vi possa esporre a pericoli?», chiese Malone. «Helstone la pensa così, a quanto pare».

    «Mi basta che telai meccanici e garzatrici siano al sicuro, dentro le mura della mia fabbrica. Quando saranno installate quelle mie nuove macchine, sfido qualsiasi sabotatore a metterci su le mani! Che vengano! Se ne accorgeranno. La fabbrica è la mia rocca».

    «Spregevoli furfanti!», disse Malone, in vena di osservazioni profonde. «Quasi mi piacerebbe che un gruppetto di loro si facesse avanti, proprio stanotte. Strada facendo, però, tutto mi è sembrato assolutamente tranquillo. Nessun movimento in giro».

    «Siete venuto dalla Red House?»

    «Sì».

    «Non ci dovrebbe essere nessun pericolo, da quella parte. Il rischio semmai è in direzione di Stilbro’».

    «Ci credete davvero a un rischio?»

    «Ciò che hanno fatto agli altri, ora possono farlo a me. C’è solo una differenza, se non mi sbaglio: gli altri, quando vengono aggrediti, restano per lo più come paralizzati. Sykes, ad esempio… gli hanno dato fuoco al magazzino, gli hanno strappato le stoffe dagli stenditoi, lasciandogliele a brandelli sul prato… e lui non ha fatto nulla per scoprire e punire i colpevoli. Ha rinunciato, inerte come un coniglio nelle grinfie del furetto! Ma io mi conosco! Saprei difendere la mia fabbrica, la mia roba, le mie macchine».

    «Helstone dice che queste tre cose sono il vostro dio; che il controblocco⁶ è per voi come i sette peccati capitali; che Castlereagh è un vero anticristo e il partito della guerra la sua legione infernale».

    «Sì. Odio tutto questo perché mi rovina, mi sbarra la strada. Non riesco ad attuare i miei programmi per colpa di queste cose, io. E mi sento frustrato dai loro funesti effetti a ogni piè sospinto».

    «Ma siete un uomo ricco e di successo, vero, Moore?»

    «Ricchissimo di stoffe invendute! Dovreste andare nel mio magazzino e lo trovereste pieno di pezze, impilate su su, fino al soffitto. Roakes e Pearson sono nelle mie stesse condizioni. Il mercato buono era l’America, ma il controblocco lo ha tagliato fuori del tutto!».

    Malone non sembrava preparato a sostenere attivamente una conversazione di quella sorta: cominciò a sbattere l’uno contro l’altro i tacchi degli stivali e a sbadigliare.

    «E pensare», continuò invece Moore, che sembrava talmente preso dal flusso dei suoi pensieri da non accorgersi dei sintomi di ennui del suo ospite, «e pensare che questi pettegoli ridicoli di Briarfield e di Whinbury continuano a tormentarmi con la storia di un qualche matrimonio! Come se nella vita non ci fosse altro da fare che occuparsi di una signorina, andarsene in chiesa con lei e poi in viaggio di nozze e poi correr di qua e di là per far visita a tutti e infine, così immagino, metter su famiglia! Oh, que le diable emporte!». Moore disse in francese quest’ultima frase e così interruppe la tirata cui si era lasciato andare con una certa energia, aggiungendo con più calma: «Credo che le donne pensino e parlino soltanto di queste cose e, naturalmente, immaginano che la mente degli uomini sia occupata allo stesso modo».

    «Già… già…», assentì Malone. «Ma non curiamoci di loro», e prese a fischiettare, girando intorno lo sguardo come se cercasse qualcosa. Stavolta Moore si accorse di quel comportamento e ne afferrò il significato.

    «Mr Malone, io sto dimenticando i doveri dell’ospitalità!», esclamò. «Dopo la lunga camminata che avete fatto sotto la pioggia, avrete bisogno di un po’ di ristoro».

    «Oh, no… prego!», replicò Malone, ma la sua espressione parve dire invece che finalmente era stata detta la cosa giusta.

    Moore si alzò e aprì una credenza.

    «Mi piace», disse, «aver sottomano quanto serve alle mie comodità e non dover dipendere dalle donne di casa per ogni boccone o bicchiere che mi va di buttar giù. Spesso resto qui fino a tardi, ceno da solo e talvolta dormo in fabbrica, come Joe Scott. Nelle notti serene, faccio il guardiano di me stesso perché mi piace vagare nella valle per un paio d’ore, con il mio moschetto a tracolla. Non ho bisogno di dormire molto. Sapete cuocere le costolette di montone, voi?»

    «Mettetemi alla prova. Da studente ne ho preparate a centinaia!».

    «Qui ce n’è un piatto pieno e là c’è la graticola. Sapete il segreto perché non perdano il grasso, vero?»

    «Fidatevi di me e sarete contento. Un coltello e una forchetta, per favore».

    Il curato si rivoltò il bordo delle maniche e si dedicò con entusiasmo a quell’operazione di alta cucina. L’industriale mise sulla tavola una pagnotta, una bottiglia scura e due bicchieri; poi, sempre dai recessi della sua ben fornita credenza, tirò fuori un piccolo bricco di rame che riempì d’acqua da una giara di coccio che stava in un angolo, mise il bricco sul fuoco, accanto alla graticola sfrigolante, e infine prese lo zucchero, dei limoni e una tazza da punch. Mentre stava preparando il punch, fu interrotto da un colpetto alla porta.

    «Sei tu, Sarah?»

    «Sì, signore. Favorite la cena, signore?»

    «No, stasera resto qui e dormo in fabbrica. Di’ alla tua padrona di andare pure a letto e chiudi bene le porte», rispose.

    «A casa vostra ognuno deve stare al proprio posto, eh!», osservò Malone in tono di approvazione mentre, con il viso rosso quasi quanto le braci sulle quali stava chino, voltava e rivoltava assiduamente le costolette. «Non siete sotto il governo delle donne come il povero Sweeting… ohi, come schizza questo grasso… mi ha scottato la mano!… Un uomo, quello, destinato a farsi dominare dalle sottane. Voi e io, invece… ecco qua, Moore, eccone una ben dorata e piena di sugo… voi e io, quando ci sposeremo, non ci troveremo una cavalla storna in scuderia!»⁷.

    «Non so, non ci ho mai pensato… Ma se la cavalla è bella arrendevole, perché no?»

    «Le costolette sono cotte. È pronto il punch?»

    «Ce n’è un bicchiere pieno. Assaggiatelo. Quando torneranno Joe Scott e i suoi fidi, ce ne sarà anche per loro, purché mi portino a casa le macchine intatte».

    Durante la cena, Malone fu assai ilare: scoppiava a ridere fragorosamente per ogni nonnulla, diceva stupide facezie e si applaudiva da solo, facendosi via via più chiassoso, inutilmente chiassoso. Il suo ospite, invece, si mantenne tranquillo come prima. Ed è tempo, lettore, che tu abbia un’idea dell’aspetto di questo signore. Mi sforzerò di fartene un rapido ritratto adesso, mentre siede a tavola.

    Probabilmente è quel che a prima vista definiresti subito un uomo singolare: perché è magro, bruno, olivastro, dall’aspetto chiaramente straniero. I capelli che gli ricadono scompostamente sulla fronte, a rigarla d’ombre, dicono quanto poco tempo egli dedichi alla propria toilette, altrimenti li arrangerebbe con più garbo. Infatti, sembra del tutto ignaro di avere bei lineamenti: di quella finezza di cesellatura, quella simmetria, regolarità e purezza che si riscontrano nella gente del sud. Ma di questa sua qualità non si accorge neppure chi lo guarda, almeno finché non lo ha attentamente osservato, perché un’espressione preoccupata, un che di umbratile e cupo, offusca in quel volto l’idea di bellezza con quella di inquietudine. Gli occhi sono grandi, gravi e grigi, dallo sguardo attento e pensoso, non amabile ma piuttosto indagatore, riguardoso ma non socievole. Quando schiude le labbra in un sorriso, ha una fisionomia piacevole; neanche allora appare schiettamente allegro o sereno, eppure si percepisce un certo pacato fascino che – vero o illusorio – è suggestivo di una natura riservata e rispettosa dell’altrui, nonché suggestivo di sentimenti che possono aver gran valore nell’ambito familiare quali la pazienza, l’indulgenza e forse anche la fedeltà. È ancora giovane, non più che trentenne: alto e snello. Il suo modo di parlare non è gradevole; ha un accento straniero che, nonostante la studiata trascuratezza della dizione e della pronuncia, stride un poco all’orecchio di un inglese, specie a un orecchio dello Yorkshire.

    Mr Robert Gérard Moore, infatti, è britannico solo a metà o meno ancora. È forestiero per parte di madre; è nato e in parte è stato allevato in terra straniera. È un ibrido, dunque, e probabilmente lo sono anche i suoi sentimenti in parecchi punti, nel senso di appartenenza a una patria, tanto per citarne uno. Probabilmente è incapace di aderire a partiti, sette, usanze, forse anche a climi; è possibile che tenda a isolare la propria individualità dall’ambiente umano in cui il destino lo ha temporaneamente gettato. Ed è anche probabile che giudichi cosa saggia il badare esclusivamente agli interessi di Robert Gérard Moore, senza troppe filantropiche considerazioni riguardo agli interessi della comunità, nei cui confronti il suddetto Gérard Moore si sente estraneo, e in gran misura. Per lui il commercio è vocazione ereditaria. I Gérard di Anversa erano ricchi mercanti già due secoli prima che, per le ambiguità e complessità di certi affari e per certe speculazioni sfortunate, il loro credito cominciasse a declinare. Si tennero a galla, pur su basi traballanti, per un’altra dozzina d’anni, ma non ressero all’urto della Rivoluzione francese. La rovina della ditta di Anversa coinvolse anche le ditte di Moore in Inghilterra e nello Yorkshire, intimamente legate alla casa ora fallita. Robert Moore, infatti, aveva sposato Hortense Gérard, figlia di Constantine Gérard, uno dei soci della casa di Anversa, nella previsione che la moglie ereditasse la quota di partecipazione agli affari che era del padre. Ed ella ereditò ma, come abbiamo visto, soltanto le passività della ditta. Le quali passività, quantunque dapprima convenientemente accantonate grazie a un concordato con i creditori, furono accettate dal figlio per riscattarne il buon nome. Si diceva che intendesse farvi fronte e ricostruire l’antica ditta Gérard & Moore su scala pari al passato splendore. Sembrava, infatti, che tutte le circostanze di quel passato gli stessero molto a cuore; se l’infanzia trascorsa al fianco di una madre incupita dal presentimento di un male futuro, e in più la giovinezza travolta dalla bufera che impietosamente si abbatte, possono imprimersi per sempre e con dolore in una mente, allora nella sua mente quello che vi è impresso non è a caratteri d’oro.

    Se davvero inseguiva un grande progetto di restaurazione, tuttavia non aveva i mezzi sufficienti a conseguire presto quel fine, ed era costretto ad accontentarsi del passo a passo. Arrivando nello Yorkshire – dove i suoi avi avevano posseduto grandi magazzini nel porto e fabbriche nel retroterra, avevano avuto la loro gran casa in città e gran villa in campagna – non poté far altro che affittare un vecchio opificio, in una località fuori mano e in un distretto fuori mano; abitare in una vicina casetta e aggiungere a tutto questo alcuni acri di terreno scabro e arido, ai bordi della valle in cui rumoreggia il fiumiciattolo della fabbrica, e su quel terreno fare posto agli stenditoi e al pascolo per il suo cavallo. E tutto questo affittato piuttosto a caro prezzo (perché era tempo di guerra e ogni cosa rincarava), essendo inoltre quel prezzo fissato dai curatori della tenuta Fieldhead che all’epoca apparteneva a persona in età minorile.

    Al momento in cui inizia questa storia, Robert Moore era in quel luogo da non più di due anni, ma già aveva dato prova per lo meno di una gran voglia di fare. Aveva trasformato la squallida casetta in una residenza graziosa, arredata con gusto; aveva piantato a giardino una parte del terreno attiguo, curandolo con la meticolosità e la perizia di un fiammingo; in quanto alla fabbrica – una vecchia struttura, dotata di macchinari obsoleti e inefficienti – Moore aveva subito concepito una forte avversione per come era amministrata e attrezzata. Il suo scopo era una riforma radicale e rapida, che aveva effettuato con la velocità permessagli dallo scarso capitale. L’esiguità del capitale poneva un freno al suo procedere, era una restrizione che lo irritava acerbamente fin nel profondo. Moore aveva bisogno di fare in fretta: Sempre avanti era il motto impresso nel suo spirito, ma la povertà dei mezzi gli metteva il morso e talvolta, quando le redini erano troppo tese, egli si sentiva, per così dire, la schiuma in bocca.

    Dato il suo stato d’animo, non ci si poteva aspettare che egli ponderasse se la propria avanzata intralciasse gli altri. Non era nato in quei luoghi, né vi risiedeva da lungo tempo, quindi non valutava abbastanza il fatto che le nuove invenzioni gettavano sul lastrico molti lavoratori; non si chiedeva dove avrebbero trovato il pane quotidiano quelli cui lui non dava più un salario settimanale. Ma in questa sua negligenza egli era come mille altri nella sua stessa posizione, verso i quali gli affamati lavoratori dello Yorkshire avrebbero dovuto avanzare maggiori diritti.

    Il periodo di cui scrivo fu una fase di eclissi nella storia britannica, specie nella storia delle province settentrionali. La guerra era al suo culmine. Tutta l’Europa ne era coinvolta. Se non già esausta, l’Inghilterra era logorata dalla lunga resistenza… e, sì!, almeno metà della sua popolazione era sfinita, reclamava la pace a qualsiasi condizione. L’onore nazionale era diventato un nome vuoto, di nessun valore agli occhi di molti, perché annebbiati dalla fame, e per un tozzo di pane avrebbero venduto i diritti di primogenitura.

    Il blocco continentale proclamato da Napoleone con i decreti di Berlino e di Milano aveva provocato, da parte inglese, il controblocco, cioè la proibizione a tutte le potenze

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