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Oltre quello che vedi: I Fratelli Walsh Vol. 1
Oltre quello che vedi: I Fratelli Walsh Vol. 1
Oltre quello che vedi: I Fratelli Walsh Vol. 1
E-book363 pagine5 ore

Oltre quello che vedi: I Fratelli Walsh Vol. 1

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Info su questo ebook

Problema.
Lauren Halsted, insegnante, ha un sogno nel cassetto: aprire una scuola tutta sua.
Deve trovare però il luogo perfetto.
Soluzione.
Matthew Walsh, affascinante architetto, lavoro-dipendente.
Può aiutarla a trovare quel luogo.
Complicazioni.
E se il fato ci mettesse lo zampino?
Basta un incontro per creare scompiglio nelle vite di Lauren e Matthew. Sogni e ambizioni vengono travolti e rimessi in discussione e...
Sentiamo che dicono.
Lauren
Sono tutte quelle piccole cose, come i piani d’azione e le promesse a lungo termine, che hanno cominciato ad andare in pezzi, non appena la mia vita è scivolata in un caos controllato.
Proprio dopo essere finita dritta tra le braccia di Matthew Walsh.
Non riuscivo a decidermi se volevo fuggire urlando o strappargli i pantaloni... e quasi ogni giorno avrei voluto fare un po’ di entrambe le cose. Se fossi stata onesta con me stessa, gli avrei strappato via i pantaloni, l’avrei montato come un cavallo da lavoro e poi sarei scappata urlando.
***


Matthew
C’era un’aura di ribellione in Lauren Halsted. Impetuosa e di una bellezza che non faceva sconti, era complicata da innumerevoli strati da “brava ragazza”. E non permetteva che nessuno le dicesse cosa fare.
A meno che, è ovvio, non fosse nuda.
Lei non cercava uno come me e, sicuro come la morte, io non ero alla ricerca di una come lei. In ogni caso, ci siamo trovati e ora siamo incastrati in uno scontro di volontà, aspettando che l’altro faccia la prima mossa.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2019
ISBN9788831980951
Oltre quello che vedi: I Fratelli Walsh Vol. 1

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    Anteprima del libro

    Oltre quello che vedi - Kate Canterbary

    Kate Canterbary

    Oltre quello che vedi

    I Fratelli Walsh Vol. 1

    1

    Titolo: Oltre quello che vedi - I Fratelli Walsh Vol. 1

    Autrice: Kate Canterbary

    Copyright © 2019 Hope Edizioni

    Copyright © 2015 Kate Canterbary

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    Published by arrangement with Hershman Rights Management

    Progetto grafico di copertina: FranLu

    Immagini su licenza Bigstockphoto.com

    Fotografo: Ilolab | Cod. immagine: 14188478

    Fotografo: Tverdokhlib | Cod. immagine: 241993303

    Traduttore: Carmelo Massimo Tidona

    Editing: Antonella Monterisi

    Impaginazione digitale: Cristina Ciani

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale. 

    Questo libro è riservato a un pubblico adulto. Contiene linguaggio e scene di sesso espliciti. Non è adatto a lettori di età inferiore ai 18 anni. Ci si rimette alla discrezionalità del lettore.

    Tutti i diritti riservati.

    In questo libro appaiono marchi commerciali. Tali marchi sono utilizzati a scopo editoriale,

    senza alcuna intenzione di infrangere i diritti dei rispettivi detentori.

    Editing Testo Originale: Julia Ganis di JuliaEdits.

    Indice

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    Epilogo

    Su Kate

    Hope edizioni

    Per tutte le ragazze che sanno che la vita 

    non va mai secondo i piani.

    1

    1

    LAUREN

    Se avessi saputo che avrei avuto il cazzo di un architetto sexy dentro di me prima che il fine settimana fosse terminato, avrei trovato il tempo per una pedicure, oltre che per una chiacchieratina sul non perdere la testa nei momenti meno appropriati.

    Il senno di poi è uno stronzo, e il karma… be’, è un’altra storia.

    Ma invece di dare priorità alla pedicure, stavo singhiozzando nella tromba delle scale. Probabilmente aveva qualcosa a che fare con lo stress o le notti insonni o gli ormoni o il cavolo di ciclo lunare, fatto sta che ero lì, col mascara sbavato e il naso che gocciolava, a piangere come se non ci fosse un domani. Reagire così a una scadenza mancata era ridicolo e infantile, ma il numero di cose che mi stavano andando male quel giorno era indecente, e non era neanche mezzogiorno.

    Succedeva quasi tutti i giorni. Non il pianto, quello non era un evento regolare per me, ma il ritrovarmi davanti vicoli ciechi e a mura insormontabili, il dover fare i conti con il mio senso di inadeguatezza e con le cose che non andavano secondo i piani.

    Era iniziata in maniera abbastanza innocente, tutte le situazioni migliori lo fanno. Insegnavo in terza elementare e, anche se amavo il mio lavoro, avrei voluto dirigerla una scuola. Conquistare il mondo oltre la mia aula, fare qualcosa di incredibile, audace e innovativo.

    Per più tempo di quanto riuscissi a ricordare, mi ero gingillata con l’idea di far domanda per un corso biennale con borsa di studio, assurdamente competitivo, rivolto a chi voleva avviare una nuova scuola, e un giorno l’avevo fatta davvero. Nessuno era rimasto più sorpreso di me quando era arrivata la lettera di accettazione. All’epoca non mi era parso che mi stessi imbarcando nella corsa a ostacoli più lunga del mondo.

    Sapevo che essere stata accettata al corso era un enorme risultato e una conferma del duro lavoro svolto in classe, ma per la maggior parte del tempo mi sembrava di imbrogliare. Qualcuno avrebbe presto notato che non ero minimamente intelligente o talentuosa o motivata come li avevo portati a credere. Si sarebbero resi conto che me ne stavo seduta al tavolo della cucina all’una del mattino a cercare di dare un senso alle linee guida statali per i programmi di mensa scolastica o a lottare contro i budget operativi quinquennali, e mi avrebbero tolto da sotto i piedi il finanziamento per avviare la start-up.

    Non molto tempo prima, potevo dirmi brava in tutto. Non solo brava: favolosa. I genitori facevano carte false per inserire i figli nelle mie classi. I miei alunni superavano il livello dei loro coetanei in tutto lo Stato. Ero coinvolgente e creativa in aula, e gestivo da sola ogni comitato, evento e iniziativa della mia scuola. Cinque mele d’oro erano allineate sulla mia scrivania, una per ogni anno in cui avevo ricevuto il premio distrettuale Insegnante dell’Anno. La ricerca cognitiva che avevo condotto per la tesi del mio master era stata menzionata in riviste e blog importanti. Una ragazza si potrebbe abituare a essere considerata tanto grandiosa, e questo rendeva la situazione attuale ancora più cupa.

    Mi aspettavo che il corso fosse impegnativo, sapevo tutto sulle difficoltà. Ero la ragazza che insegnava alle classi più numerose e dalle maggiori necessità mentre, al tempo stesso, gestiva le fiere dei libri e della scienza e allenava la squadra delle cheerleader delle medie, il tutto mentre terminava il master in Istruzione e si preparava per l’esame da preside. Ma non mi sarei mai aspettata che potesse tanto difficile. Lavorare senza sosta, fine settimana e festività comprese, incatenata all’e-mail. Schiava del mio piano d’azione e con zero tempo da passare in aula. Mi ero aggrappata agli ultimi fili di salute mentale dopo aver trovato un ufficio statale inaspettatamente chiuso il giorno della scadenza per la presentazione di un modulo.

    Ma, come papà amava dire, c’erano tre scelte possibili nella vita: arrendersi, rinunciare o dare il meglio.

    Non mi sarei arresa e di sicuro non avrei rinunciato.

    Quella scuola era in parte sogno e in parte realtà, ed era tutta mia. Quindi che importava se non riuscivo a trovare il tempo per ritirare i vestiti dalla lavanderia a secco o per dormire più di qualche ora a notte? Avrei dormito una volta morta e, quando quel giorno sarebbe arrivato, non avrei pensato alle opportunità a cui avevo rinunciato a causa di qualche attimo di sconforto nella tromba delle scale.

    La giusta quantità di testarda resistenza mi aveva portato a passare del lucidalabbra color fragola sulle labbra e a raddrizzare la schiena. Le ore, gli ostacoli, le complicazioni non mi avrebbero fermato, non quando avevo ai piedi dieci centimetri di splendide Jimmy Choo, in saldo, con cui superarli.

    Un sorriso sincero mi comparve sul volto. Con qualche parolina gentile, convinsi gli impiegati a fare ciò che volevo. Quindici minuti e i miei documenti risultavano essere stati presentati entro la scadenza prevista. Mi lasciai quel fiasco alle spalle, e marciai fuori dagli uffici statali con un sorriso radioso. La soddisfazione di spuntare quella voce dal mio elenco fu ai limiti dell’orgasmo, il che la diceva lunga sulla mia etica lavorativa o sulla mia carenza di orgasmi. Non sapevo bene quale delle due.

    Le paroline dolci erano un’arma a doppio taglio nel mio mondo. Alcuni davano la colpa alla California che mi portavo dentro, altri dicevano che dipendeva dall’essere una maestra elementare, e una bizzarra minoranza pensava che stessi cercando di diventare una medium psichica, ma credo di essere sempre riuscita a vedere dietro le maschere indossate dalla gente, dove le persone sono reali e vulnerabili. Fissavo da vicino, guardavo, ma non mi ci voleva mai molto per capire cosa nascondevano. Le persone si svelavano in occhiate e visioni fugaci, e credevo che in genere volessero essere comprese.

    Ero brava a dire la cosa giusta nei momenti imbarazzanti, a interpretare il linguaggio del corpo e i sottili indizi, a capire di cosa avesse bisogno la gente e, questa, era la mia rovina. La mia tendenza a mettere le persone a proprio agio e a farle confidare mi aveva trasformata nella più grande discarica del mondo. A ciò va aggiunta l’inclinazione a fiondarmi in qualunque progetto e a risolvere qualsiasi problema incontrassi, e quello che ne consegue è che trascuravo me stessa. Come alle mie amiche Steph e Amanda piaceva ricordarmi, i problemi e i progetti occasionalmente prendevano il sopravvento, consumandomi del tutto.

    Perciò avevo rinunciato agli uomini. Non potevo più preoccuparmi di rimettere in sesto i ragazzi di Boston. C’erano scuole da aprire e saldi di scarpe da sfruttare e non avevo il tempo di occuparmi di uomini-bambini che possedevano un solo set di lenzuola e continuavano a chiamare il pediatra di famiglia per ogni mal di gola.

    Avevo un incredibile gruppo di amiche, e una quantità di vibratori abbastanza potenti da scheggiarti un dente se non li maneggiavi con cura. Non c’era spazio per gli uomini nella mia vita al momento, e nessun motivo per concederglielo.

    Con la crisi alle spalle e a due ore dall’appuntamento successivo, mi meritavo un premio, e il mio primo istinto fu di fiondarmi su cupcake e tequila. Anche se sembrava il riconoscimento appropriato per essere uscita indenne dalle idiozie burocratiche, di solito riservavo l’accoppiata dolci/alcolici per le occasioni speciali e le festività. Così, superai la mia pasticceria preferita e andai in cerca dell’altra mia debolezza: lingerie.

    Non ero particolarmente attenta alle mie misure né alla quantità di chili che volevo perdere, ma facevo il gioco del bastone e della carota, mantenendo premi e infrazioni alle regole in una qualche apparenza di equilibrio.

    Cornetto a colazione, niente alcolici la sera. Enchilada al formaggio a pranzo, niente cioccolata da sbocconcellare a mezzanotte.

    Ovviamente non funzionava sempre così.

    Mio padre era in marina e, dopo anni di servizio sul campo, era passato a occuparsi dell’addestramento dei nuovi SEALs. Ogni nuovo equipaggio sopportava mesi di condizionamento. La tortura di tipo buono, diceva mio padre, e le sue storie raccontate al tavolo da pranzo non sorvolavano mai sui dettagli violenti.

    Vale a dire i dettagli che il governo gli permetteva di condividere.

    Non sarei entrata nei SEALs nel prossimo futuro, e dovevo ringraziare il mio essere donna, ma mio padre non vedeva il mio genere come una ragione per escludermi dalle finte operazioni di addestramento che progettava per i miei fratelli più grandi. Mi aveva insegnato a usare il peso e il baricentro basso a mio vantaggio e, cosa più importante, mi aveva insegnato ad aver fiducia in me stessa.

    Più e più volte mi aveva ripetuto che non c’era niente che qualcuno potesse fare per me che non avrei potuto fare anche da sola. Lui e mia madre mi avevano cresciuta sulla base di quella filosofia, e ci credevo quando mettevo i suoi SEALs col culo per terra. Non si sentivano a loro agio a perpetrare crimini contro la figlia dell’ufficiale al comando, ma mi avevano fornito la conoscenza e le capacità necessarie per respingere aggressori, sfuggire a rapitori, creare armi da oggetti casuali e curare ogni genere di ferita con acqua salata e una cintura. Ma, più che le tecniche da dura, mi avevano instillato la fiducia in me stessa, le consapevolezza interiore di essere capace di qualunque cosa.

    Sapevo, per via degli infiniti esercizi di sopravvivenza, che i marinai spesso andavano in battaglia armati di poco più che del loro ingegno e, se avevano un’arma, doveva essere in grado di svolgere diverse funzioni. Mio padre si era assicurato che avessi un piccolo bunker con un equipaggiamento a mia disposizione, ma la mia armatura era più morbida di qualunque cosa il commodoro Halsted avrebbe raccomandato.

    Le strade di Boston non erano un campo di battaglia, e aprire una scuola non era un’operazione sotto copertura, ma le armi che avevo scelto erano tacchi devastanti e biancheria di pizzo. Non era questione di griffe o di bramare lo stile più in voga della stagione, né di essere ammirata da qualcun altro. No, il punto era il potere che sentivo di esercitare quando quel pizzo sontuoso mi risaliva lungo le cosce consapevole che solo io sapevo di quelle mutandine da gran signora che mi frusciavano sotto la gonna. Era infilarsi un paio di zeppe e guardare il mondo da un’altezza tutta nuova, da cui nessuno mi avrebbe scambiato per una ragazza del college o una stagista.

    Anche se la scuola mi pagava bene, non era bene al livello di Agent Provocateur o Christian Louboutin, perciò dovevo andare a caccia di saldi per appagare il mio vizio. Dopo quarantacinque minuti passati a sbavare su della lingerie incredibilmente costosa, avevo messo le mani sul più bel paio di mutandine in pizzo a maglia esistente.

    Ero una delle poche fortunate per cui la biancheria color carne corrispondeva quasi ai toni della pelle e, scegliendo quelle mutandine, sapevo che sarei sembrata nuda indossandole. Amavo quell’idea. Non riuscii a contenere la scossa di eccitazione che mi attraversò a quel pensiero, e un risolino mi sfuggì dalle labbra, suscitando un’occhiata in tralice da parte della commessa. Quando scorsi il reggiseno coordinato della mia taglia – trovare una 36DD a La Perla era come vedere il fantasma di Paul Revere attraversare il centro città a cavallo di un unicorno – seppi che era il premio perfetto per la vittoria di quella giornata.

    Forse non ero sulla lista nera del karma.

    Con i miei acquisti ben incartati e riposti nella sporta, mi diressi all’appuntamento successivo e, con un po’ di fortuna, verso un’overdose di buone notizie per la mia scuola.

    Di tutti i problemi che mi aspettavo di incontrare durante l’odissea per aprire la scuola, trovare un edificio o un lotto edificabile adeguato non era contemplato. Il corso stabiliva requisiti rigorosi di sostenibilità e ambientali, e gli architetti che accettavano di gestire quel genere di lavori erano pochi e lontani: per la precisione, sette con le corrette credenziali nello stato del Massachusetts. Due toccavano solo progetti residenziali multimilionari, altri due non accettavano nuovi incarichi, e i restanti tre appartenevano a un unico studio, la Walsh Associates, specializzato nella conservazione storica.

    Era affascinante, davvero: uno studio che si concentrava esclusivamente sul far sembrare nuovi, o giù di lì, i vecchi edifici di Boston. Era forse una cosa del New England. Sembrava inverosimile che un architetto di nicchia trovasse lavoro sufficiente per restare in affari nella mia città natale, San Diego.

    Si trovavano a pochi isolati dal mio appartamento e, senza saperlo, passavo davanti agli uffici della Walsh Associates ogni volta che visitavo la mia caffetteria preferita.

    Mi ci erano volute diverse telefonate e una scatola dei migliori prodotti della Pasticceria Mike per entrare nell’agenda di Matthew A. Walsh. La sua assistente aveva guardato la sfogliatella farcita di crema, mi aveva fatto promettere di smetterla di chiamare ogni dannato giorno, e aveva scribacchiato una data e un orario sul retro di un biglietto da visita del suo capo, che recuperai dalla tasca del cappotto elegante per esaminare la serie di lettere che seguivano il nome, indicandone le credenziali.

    Era architetto e ingegnere, esperto nella progettazione sostenibile e nella conservazione e, se fossi stata fortunata, sarebbe stata la soluzione a tutti i miei problemi.

    In caso contrario, avrei cercato il modo di gestire una scuola in un angolino tranquillo dello Starbucks del mio quartiere.

    2

    1

    MATTHEW

    «Vuoi sapere che altra stronzata si è inventato adesso Angus?», chiese Shannon.

    Alzai gli occhi al cielo quando la voce irruppe dall’altoparlante del telefono. Mia sorella maggiore, Shannon, si riferiva a nostro padre solo chiamandolo per nome. Lo facevamo tutti. Non saprei dire l’ultima volta che avevo sentito qualcuno chiamarlo papà e, alla fine, era sempre meglio che chiamarlo miserabile bastardo.

    Anche se sarebbe stata una definizione appropriata.

    Dopo un’orrenda mattinata piena zeppa di ispettori scontrosi e minacce di interruzione dei lavori, i problemi di Shannon erano nulla a confronto.

    «Spara pure», mormorai. Sbirciando oltre il volante, esaminai Neponset Avenue in cerca di una chiesa abbandonata e del mio appuntamento dell’una. «Non può essere peggio di cambiare i progetti di Belmont all’ultimo minuto. Di nuovo».

    «Credimi, Matt, è peggio», sibilò lei. «Ha preso quattro proprietà da riqualificare e restaurare su Bunker Hill. Apparentemente aveva voglia di farlo. Sai. Perché sì».

    Svoltai in una strada laterale e fermai la Range Rover. Le mie dita si strinsero attorno al volante. La tensione mi tirava tutti i muscoli della mano, su lungo il braccio, il collo e la mascella. Non mi servivano stronzate simili e non avevo bisogno di quattro progetti di merda a intasarmi le giornate.

    «Chi se ne occuperà? Si rende conto di quante cose stiamo già gestendo al momento? Io, Sam e Patrick siamo completamente pieni. Ho rinunciato a tre maratone negli ultimi mesi! Non ho tempo per niente, del tutto, e ora ci sono quattro proprietà che di sicuro mi ricadranno addosso perché Sam è occupato ad accettare stronzate a caso senza prima discuterne con noi, e Patrick lavora ventinove ore al giorno, e nessuno si ferma a dire che è una follia».

    «Esatto! Io, sto dicendo proprio adesso che questa è una follia». Ticchettii secchi punteggiavano i suoi furiosi sospiri, il suono dei tacchi a spillo che riverberava sul pavimento di legno mentre camminava avanti e indietro per l’ufficio. «Vuole solo farci sapere di avere ancora delle carte in mano e un mucchio di fiches».

    «Molte meno di quante tu creda, Shan».

    Nei nove anni passati da quando io, i miei fratelli – Patrick e Sam – e mia sorella Shannon avevamo puntato i piedi e lo avevamo relegato ai margini del nostro malandato studio di architettura di terza generazione, Angus non aveva mai smesso di inventarsi modi per ostacolarci. Odiava l’idea che stessimo avendo più successo di quanto fosse mai riuscito a ottenerne lui. E anche il polverone che stavamo sollevando nel mondo della progettazione sostenibile non incontrava i suoi favori. Rendeva chiara la sua disapprovazione ogni volta che interferiva coi progetti, o acquistava palazzi in rovina per aggiungerli alla nostra già traboccante programmazione.

    Dall’esterno, sembrava che il visionario architetto Angus Walsh si impegnasse ancora nel suo lavoro dopo il pensionamento. Che male ci poteva essere in un uomo anziano che voleva preservare le dimenticate gemme dell’architettura cittadina?

    E lui era brillante, quando si trattava di mantenere le apparenze. Solo poche persone selezionate al di fuori della famiglia sapevano la verità sul suo alcolismo, e su quanto fosse vendicativo e violento. Noi seguivamo la corrente, anche se questo significava addossarci progetti costosi e coprire le sue indiscrezioni pubbliche.

    Scossi la testa e finii il caffè che avevo comprato nella sosta pomeridiana da Dunkin. Io ero l’intermediario, quello costretto a ripulire i casini di Angus. Non sapevo quando mi fossi guadagnato quel ruolo ma, dato che non lasciavo che mi tangesse, me lo sarei tenuto.

    Sentii un barlume di triste sollievo per il fatto che Angus non si fosse presentato in una delle mie proprietà a portare di persona la notizia delle nuove acquisizioni. Faceva le sue apparizioni fuori dall’ambiente controllato dell’ufficio sempre più spesso. E, dopo il mio faccia a faccia con l’ispettore, una visita di Angus sarebbe stata difficile da digerire come un bicchiere di scotch e una manciata di chiodi.

    «Cazzo», sospirai. «Solo… cazzo».

    «Sai che non c’è niente che ami di più di Angus e delle sue visitine. Dobbiamo assumere un buttafuori».

    Per la maggior parte del tempo, Shannon era un rullo compressore, e questo per usare un eufemismo, ma quando Angus era in ufficio di solito la teneva sui carboni ardenti. La trattava con tale disprezzo e derisione che non potevo fare a meno di prendermi quei proiettili al posto suo. Lei si faceva carico di ben più della sua parte del lavoro e dei pesi della famiglia.

    «Probabilmente dovremmo», mormorai. «Shan, devo andare, sono in ritardo per una cliente e mi sono perso a Dorchester. Penserò a come occuparmene più tardi. Fai l’anatra. Fattelo scivolare addosso. Non ne vale la pena».

    «Non voglio sentir parlare delle tue cazzo di anatre, Matt».

    Dopo aver girato quindici minuti per le strade di Dorchester, e con l’aiuto di Siri, salii le scale di Saint Cosmas mentre indossavo il gilet di lana ricamato con il nuovo logo della Walsh Associates: l’ennesimo di una lunga serie di cambiamenti per rendere nostra la ditta.

    C’erano alte erbacce lungo il perimetro e rampicanti su una facciata che risalivano fino al tetto e scendevano dal lato opposto. Piccoli alberi crescevano nel parcheggio, le radici si lasciavano dietro eruzioni di asfalto. La terra stava riprendendo possesso di quella struttura. Un rapido inventario della chiesa e della sala attigua mi disse che il lavoro sarebbe stato catalogato con due D: dettagliato e dispendioso.

    «Oh, salve, di qua». Distolsi la mia attenzione dal tetto cadente e dalle colonne in pietra per rivolgerla a una voce femminile. «Salve, sono Lauren Halsted».

    Era venti, forse venticinque centimetri sotto il mio metro e novanta, anche se l’energia che proiettava compensava la statura contenuta. Nascosta in un completo gonna e giacca blu mare, con i voluminosi capelli biondi sciolti sulle spalle, mi rivolse un lento sorriso. Il tailleur professionale non faceva nulla per nascondere le sue curve e per un attimo rimasi a fissarla, chiedendomi cosa ci facesse una pin-up in una chiesa del Dorchester.

    Le mie aspettative si erano avvicinate più alla bibliotecaria incanutita o alla nonnina. Chi altro vorrebbe convertire una vecchia chiesa in una scuola elementare?

    «Miss Halsted, buongiorno, Matt Walsh. Mi scuso, non intendevo farla aspettare». Le strinsi la mano, ma furono i riflessi dorati nei suoi occhi verdi ad attirare la mia attenzione. Non avevo mai visto niente del genere prima, e non riuscivo a distogliere lo sguardo.

    «Oh, per favore, non ci pensi più. E mi chiami Lauren. Entriamo e le dirò quello che stavo pensando».

    Aprii la pesante porta deformata per Miss Halsted e mi ritrovai a fissare qualcosa di ancor più affascinante dei suoi occhi: il suo sedere. Era tondo e sodo, e il desiderio di palparlo, forte, mi fece prudere le dita. E poi le sue gambe. Abbronzatissime, al naturale e senza il minimo accenno di quelle strane merde di spray abbronzanti.

    Stava parlando, ma tra la sua voce dall’aroma caramellato e le lentiggini scure sui polpacci, il mio cervello non aveva banda a sufficienza per ascoltarla. Degli scricchiolii furenti echeggiavano dal pavimento, sbuffi di polvere le vorticavano attorno alle caviglie, e poi notai i tacchi leopardati da vieni e scopami.

    A lei stavano bene.

    Ritrovarmi ad ammirare l’accento di Lauren e i suoi lineamenti sensuali fu una sorpresa. Non era affatto il mio tipo. Neanche un po’.

    A me piacevano le bestie, donne nerborute e brutali, ingurgitatrici di fiocchi d’avena e proteine che preferivano guaine compressive e marsupi porta borraccia a gioielli e fiori. Mi piacevano le donne che progettavano le loro vite in base ai circuiti di Color Run, Tough Mudder e Ironman; quelle che potevano sollevare il mio peso, pochi centimetri più basse di me, e perfino quelle che avrebbero potuto spedirmi al tappeto. Mi piacevano le donne fissate con l’atletica, di solito quelle dei circoli di maratona e triathlon che frequentavo, e quelle che volevano solo sesso veloce e senza complicazioni.

    Forse ero irreversibilmente fuori di testa, ma la modalità bestia muscolosa con me funzionava.

    Lauren era bassa e morbida, con vere curve generose. Tutto in lei urlava sexy da morire, e al tempo stesso era calda e innocente. Non era neanche vicina a essere bestiale.

    E questo era un consulto di architettura, per l’amor di Dio. Non ero lì per pensare a lei o ai tipi di ragazza o alle lentiggini o alle scarpe sexy. E le donne come lei si sposavano giovani. Chiunque con un minimo di intelligenza se la sarebbe accaparrata non appena fosse stato legale farlo. Aveva maestrina monella scritto in quel sorriso solare, ed ero pronto a scommettere che se ne stava piegata sulle ginocchia di qualcuno ogni notte.

    Cliente, cliente, cliente.

    Cazzo, dovevo smetterla di pensare a sculacciare quella ragazza, e concentrarmi su quello che stavo facendo.

    Con uno sbuffo di frustrazione, mi voltai e iniziai a inventariare la struttura dell’edificio. Raggi di sole entravano dal soffitto e spifferi della fredda aria autunnale si insinuavano tra le vetrate rotte. Le assi erano inclinate in modo precario. Gli effetti dell’acqua e il legno marcio avevano da tempo distrutto qualunque cosa fosse valso la pena preservare. Era un disastro: il mio tipo di progetto preferito.

    «… quindi quest’area potrebbe essere suddivisa in quattro aule e quattro piccoli uffici laggiù. So che l’impianto idraulico va adeguato. Quanto ci vorrebbe per aggiungere un’altra serie di bagni lì?».

    L’app d’ingegneria strutturale prese vita sul telefono sotto le mie dita mentre esaminavo lo spazio. Forse disastro era un modo gentile per definirlo.

    Alzai gli occhi dal telefono e vidi Lauren percorrere le scale deteriorate fino a una piccola alcova. Quando allungò il braccio sinistro per sostenersi, vidi che non c’erano anelli su quelle dita.

    Cliente, cliente, cliente.

    Finisci il consulto, mi dissi. Avrai tutto il tempo per pensare a scoparti Miss Maestrina Monella quando non sarà più in vista.

    Passai le mani lungo i pilastri che contornavano la sala principale. La sensazione di una struttura portante instabile era inconfondibile e smisi di preoccuparmi di chi accogliesse Miss Halsted quando tornava a casa la sera. Attraversai a passo veloce l’ingresso, rallentando solo quando arrivai al suo fianco. «È il momento di andare».

    Occhi socchiusi, studiò la mia presa sul suo bicipite. «Mi scusi? Che sta succedendo?».

    La trascinai fuori e scossi la testa. «Miss Halsted, deve stare lontana da questo posto. Non è sicuro. Attraversi la strada. Ora».

    Le labbra di Lauren si strinsero in una linea sottile. Forse era lei quella che sculacciava. «Sto bene qui dove sono, grazie».

    Se quel posto non fosse stato a un soffio dal crollarci in testa, il mio uccello sarebbe scattato sull’attenti in attesa di ordini, e avrei potuto incolpare solo il suo sguardo e i suoi modi prepotenti.

    «Il carico su questa struttura», indicai il tetto, «sta causando stress e deformazioni eccessive nei supporti

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