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Le catene dell'animo
Le catene dell'animo
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E-book349 pagine5 ore

Le catene dell'animo

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Info su questo ebook

La risposta alla recondita domanda al perché dell'esistenza umana è racchiusa tra le intricate strade di Fallentown, la decadente città post-apocalitica confinante con una delle strutture più misteriose della terra, il Sephirot.
Al suo interno giovani allievi geneticamente modificati vengono addestrati nelle arti da combattimento al solo scopo di proteggere la città dalla malavita che povertà e crisi hanno fatto germogliare. Uno di loro dovrà scontrarsi con la cruda verità che lo circonda, divagando tra relazioni proibite, scontri e verità nascoste.
Un viaggio attraverso una società in regresso che ha smarrito la conoscienze acquisite nei secoli di storia umana. Scienze dimenticate e religioni arcaiche porteranno a compimento un'antica profezia da cui dipenderanno migliaia di vite. L'umanità è la chiave.
Lei è la salvezza. Lui è la profezia, Platonico è il suo nome.
Non farsi notare era la sua specialità.
Non far rumore era diventato uno stile di vita; il silenzio un compagno con cui chiacchierare durante l'attesa. Addestrato solo per fare una cosa, che non era quella stava per compiere.
Platonico, quello era il suo nome, distava Nathalie di pochi metri ...
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2012
ISBN9788897982241
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    Anteprima del libro

    Le catene dell'animo - Manuel Nolan

    stessa.

    Capitolo I

    "C’è stato un tempo in cui ero forma, in cui ero materia, ma non tutto è composto della stessa materia dei sogni.

    Non potevo essere a conoscenza di quel segreto, tanto ovvio, che giace nei secoli della storia dell’umanità; per lo meno credevo di non poterlo comprendere. Realizzando quello che lo scorrere dei flussi temporali ha radicato in me non posso che continuare a rimanere qui, immobile, su quest’onda che avanza al posto mio, portando quello che la mia decisione di essere vivente, non consapevole delle conseguenze, ha voluto che proseguisse nel viaggio. Ma se davvero tale è il corso degli eventi, non può che essere destino un simile traguardo; sempre si possa chiamare davvero traguardo.

    Quel giorno, quando rifiutati la parola, - fui costretto- conobbi il mio futuro. Ora, per mettere a conoscenza dei fatti quello che rimarrà della terra, prima che io compia il mio volere, inciderò su questi fogli l’ultima parte utile ai fini dell’esistenza di esseri che, come me, hanno intrapreso la via degli uomini.

    Non ancora chiaro è il motivo per il quale sto agendo in questa maniera. A nulla servirà ricordare gli errori, ma il tempo a me concesso è breve -in realtà è infinito - e devo agire senza indugiare. Posso percepire il freddo immenso dell’acciaio che si adagia sul mio cuore che batte a ritmo costante. I lucchetti verranno chiusi a momenti e, quando il mondo là fuori si sarà svegliato, allora tutti tremeranno, perché l’ultimo dei sigilli che attanaglierà la mia essenza sarà serrato e la fine sarà inevitabile. Ed io giuro che non ho mai voluto che ciò accadesse, perché nemmeno era nella mia prospettiva di vita.

    Lentamente mi sto liberando dei miei indumenti che tanto fiero indosso tra la gente, ma devo ricordare chi ho davanti a questo immenso specchio che riflette ciò che diverrò. Beato sarà colui che leggerà con il cuore."

    Capitolo II

    Le strade di Here, il quartiere dell’angolo orientale di Fallentown si divincolavano come i rami degli alberi che si allungano verso il cielo per cercare di esser baciati dai raggi solari. Here era uno dei tanti quartieri della Metropoli dove i grattacieli non erano ancora riusciti ad elevarsi verso la Luna. Composto da tante piccole ville accostate l’una all’altra sembrava un vero e proprio labirinto di strade che si incrociavano tra loro e, per chi non era pratico della zona, era sconsigliato aggirarsi nei dintorni verso l’ora del crepuscolo per non perdere l’orientamento. A questo proposito si era pensato di dipingere le facciate delle piccole villette di colori diversi e contrastanti tra loro ma la giunta comunale non era riuscita ancora a convincere il consiglio ad approvare la legge.

    Mentre il moto terrestre continuava il giro su se stesso, i colori caldi del tramonto su Fallen si spargevano artisticamente sugli edifici e sulle vie, contornandoli di un aura dorata. Le persone stavano rincasando per la cena e l’odore della tipica minestra in brodo aleggiava nell’aria, nonostante la quiete della città fosse altamente scossa. Nathalie Ocland sapeva che non sarebbe dovuta essere lì, sapeva che non avrebbe dovuto in nessun caso ritornare in quel luogo, non tanto per il male che qualcuno avrebbe potuto arrecarle, in quanto era uno dei quartieri più sicuri della città, ma perché si sarebbe uccisa con le proprie mani. Infilò il cappuccio grigio, che contrastava i suoi capelli rossi, lisci come la seta, e si strinse tra le proprie braccia per vincere il freddo, che per lo più proveniva dal suo cuore. Cercava di tenere la testa alta mentre percorreva la via parallela a quella principale, ma ad ogni passo il dolore aumentava. Una lacrima. Poi due. La terza venne bloccata sul nascere grazie alla forte determinazione. Si stava auto-convincendo di voler vedere per l’ultima volta il tramonto in quel luogo dove tutto ebbe inizio, per puro caso. O forse no. Ai confini di Here si ergeva una vecchia torre dalla quale era possibile vedere l’inizio della grande radura su cui era stato edificato il centro di addestramento per coloro che erano orfani di madre e di padre. Sebbene non fosse per vedere tale struttura che si stava inoltrando fino alla torre, era conscia del fatto che il tramonto più inebriante si poteva osservare dalla cima della torre in pietra e che lì, come spesso accadeva, sarebbe arrivato lui per osservare a sua volta quello spettacolo naturale, ma non oggi, né domani.

    Senza perdere l’orientamento, Nathalie Ocland stava scavalcando un piccolo muretto in mattoni che ostruiva il sentiero in terra battuta verso la torre. Ancora qualche altra casetta dispersa nella periferia di Fallen e sarebbe arrivata in cima all’edificio antico, che resisteva al passare dei secoli. Stretta a sé teneva la reliquia sacra con cui tutto sarebbe dovuto finire, ma la pace era ben lontana. Almeno poteva contare sulla sua luce, che divinamente non smetteva mai di risplendere nell’oscurità più infinita.

    Non farsi notare era la sua specialità. Non far rumore era diventato uno stile di vita; il silenzio un compagno con cui chiacchierare durante l’attesa. Addestrato solo per fare una cosa, che non era quella che stava per fare. Platonico, quello era il suo nome, distanziava Nathalie di pochi metri. Operare per lui in quel quartiere era un gioco da ragazzi, quasi banale. Con un balzo felino saltò dal tetto di cemento di una delle villette e si aggrappò alle inferriate della casa accanto. Tutto il suo peso veniva sorretto dai suoi possenti tricipiti e i muscoli dorsali, coperti dalla tuta nera, che aderiva perfettamente al suo corpo scolpito. Sospeso a mezz’aria appoggiò rapidamente un piede al muro e si diede la spinta per lanciarsi verso la finestra circolare della soffitta proprio sopra la sua testa. In pochi secondi si trovò sul tetto di una delle case più alte di Here, ma non certo di Fallentown dove il grattacielo più alto veniva chiamato il punto di non ritorno poiché si narrava che chiunque salisse fino in cima e uscisse dall’edificio sarebbe stato spazzato via da una raffica improvvisa di vento, data l’altitudine della struttura.

    Si calò il cappuccio grigio sulla testa come aveva imparato a fare prima di mietere una vittima e si appostò mentre osservava con il cuore in gola Nathalie che camminava verso la torre. Agli occhi dei corvi che scrutavano dall’alto della cattedrale nelle vicinanze, Platonico appariva come un Gargoyle, immobile, che aspettava di essere liberato dalla maledizione della pietra. La lunga tunica grigia, insudiciata di sangue, che copriva il giubbotto antiproiettile di cui era sempre provvisto lo avvolgeva nell’oscurità dell’ombra che il tetto della villa offriva, mentre la terra continuava imperterrita il suo moto su se stessa rendendo ancora più scuro il crepuscolo. Il suo sguardo era impassibile ma non riusciva a celare l’agonia che cresceva, come un fuoco dall’ardore eterno, ad ogni passo che avvicinava Nathalie a lui. Gemiti di dolore muti risalivano dallo stomaco fino al cuore come in un tunnel che non sembrava avere via d’uscita. Esitava, ma qualcosa gli diceva di farlo. Lui stesso. Dalla tasca del cinturone estrasse due piccoli coltelli da lancio e, specchiandosi nella lama, li ripose da dove li aveva presi. Non era il caso di usarli. Il vento soffiava su di lui come per minacciarlo di non compiere quel gesto folle che era stato costretto a metter in atto. Prima una folata poi un’altra. L’ultima era stata violentissima e quasi lo aveva distolto dalla sua posizione china, rischiando di farlo cadere dal tetto su cui stava osservando Nathalie. Ripreso l’equilibrio si focalizzò su quella sagoma che passo dopo passo si avvicinava lenta a lui, stretta dal calore delle sue braccia, con la testa china verso il suolo, lei, che si spegneva mano a mano che il sole calava. Platonico si strinse all’avambraccio il bracciale che conteneva la lama retrattile ad impulsi, ormai aveva perso il conto di quante volte l’avesse usata. Raramente per uccidere. Ma quella sera era diverso. Regolò l’uscita della lama, ma ebbe un ripensamento. Strinse i pugni, chiuse gli occhi per trattenere quell’onda di dolore che lo stava sbaragliando e ritornò in sé. Fermo e deciso come un’aquila che dall’alto osserva la sua preda. Nathalie lo aveva superato di una decina di metri.

    Lentamente si alzò e di soppiatto prese la rincorsa per lanciarsi sul tetto della casa vicina, leggermente più basso. Atterrò compiendo una capriola, senza traccia di rumore alcuno, anzi, quel movimento elegante sembrava una lenta armonia che suonava nel cielo. Nathalie non si era accorta di niente. Era troppo occupata a soffrire e resistere al dolore che non le dava tregua. Cedette e lasciò per la strada una scia di lacrime, che brillarono sotto la luce del sole calante mentre morivano al suolo, bevute dall’asfalto caldo.

    Era il momento. Platonico lasciò da parte la sua lama retrattile e sfilò il pugnale dalla fodera in cuoio ricamato con filo dorato rappresentante un cuore sorretto da due mani e una corona sopra di esso.

    Ancora un passo e lui si sarebbe buttato sopra di lei. Era abituato anche ad altezze più alte, fino a 15 metri di caduta nel vuoto. A dire il vero solo un paio di volte era atterrato da quella altezza e per miracolo, per lui era solo merito suo e della sua dinamicità, ne era uscito inerme. Sbagliare un salto nel suo lavoro era ordinaria amministrazione quando si è alle prime armi.

    Nathalie era lì, stupenda come sempre, e aveva appoggiato il piede a terra continuando la camminata. Un secondo di esitazione mentre ogni parte del corpo si rifiutava di balzare su di lei e affondare la lama dritta al cuore. Il sole era finalmente calato e il cielo sfumava da azzurro a viola mentre le prime stelle erano quasi visibili.

    Con tutta la forza che aveva nelle gambe Platonico fece un salto verso Nathalie, la sua tunica si alzò in aria come le grandi ali di un rapace oscuro che si spalancano mentre scende in picchiata verso il suo bersaglio. Per evitare di ferirla e infliggerle dolore evitò di caderle sopra, come invece era abituato a fare con le altre persone di cui si occupava. Piombò a terra aggraziatamente, senza emettere alcun gemito di sforzo e Nathalie si girò di scatto facendo scivolare all’indietro il cappuccio, mostrando così il suo volto in lacrime che in quell’istante si era fatto travolgere dallo stupore e dalla paura che quella figura minacciosa le aveva fatto scoppiare dentro.

    Come un fulmine che trapassa il corpo di un uomo, il senso di malessere che si scatenò nel profondo di Platonico espugnò il suo cuore rendendolo meno reattivo di quanto lui stesso si aspettasse, facendo si che Nathalie potesse intravedere sotto il suo cappuccio il viso dell’uomo che aveva amato e molto probabilmente amava ancora. Gli occhi gialli sembravano brillare fino a diventare oro e la pelle bronzea risaltava da sotto il vestito che la copriva. Il tempo attorno a loro sembrava essersi fermato. Dalle sue mani scivolò la reliquia che cadde per terra emettendo un suono vuoto misto a ferraglia che si scontra contro altra ferraglia. Nathalie fece un passo indietro anche se si sentiva impietrita e ancorata in terra dall’immenso tormento che aveva dentro.

    Platonico strinse il pugno della mano sinistra per vincere quell’improvviso ma previsto blocco mentale e fisico e trovò lo slancio per caricarla. Lei rimase impassibile, come rassegnata a quell’orribile scena che sembrava surreale, ma di cui se ne poteva testare l’amarezza.

    Lui le afferrò un braccio e le poggiò dietro il suo piede per farle perdere l’equilibrio, ma non cadde perché lui la accompagnò delicatamente a terra, cercando di non farle sbattere la testa e non ferirla. Una volta immobilizzata, lui si sfilò il cappuccio grigio e la fissò mentre lei, terrorizzata, cercava di capire che cosa stesse succedendo. Senza mai staccare gli occhi da lei, Platonico, con le lacrime agli occhi, alzò il pugnale verso il cielo, in modo che lei si potesse accorgere di quello che stava per capitarle. Un terrore mai provato prima si impadronì di lei e le parole per gridare aiuto non volevano uscire, era paralizzata. Avrebbe voluto dirgli :<> ma si sentiva completamente bloccata.

    <>

    <> Con tutta la forza che aveva nel corpo Nathalie sussurrò quelle parole, conscia che quello sarebbe stato il suo destino, inevitabilmente legato a quello dell’umanità intera.

    La mano sinistra di Platonico strinse il pugnale più forte che poteva, ignorando quelle ultime parole che in quel momento non avevano significato. Alzò la punta verso l’alto come se volesse toccare il cielo e ferirlo con quella lama …

    I corvi si sollevarono in volo dalla Cattedrale, avvolgendola in una danza macabra.

    Capitolo III

    molto tempo prima …

    Oltre i confini delimitati dalla grande radura che si espandeva al di fuori del quartiere Here di Fallentown, protetta da una folta linea frontale di boscaglia, era stata edificata la più misteriosa e affascinante struttura che la città potesse offrire. Non si trattava di un monumento né di arte contemporanea. Si trattava del più importante centro di addestramento della metropoli ed offriva ai suoi studenti un’unica via da poter percorrere nella vita. Vista dal satellite, Sephirot, questo era il nome del centro, appariva come il diagramma dell’albero della vita ebraico. Un diagramma astratto e simbolico costituito da dieci entità che sono raffigurate come cerchi al cui interno vi è un nome, e che sono disposte lungo tre pilastri paralleli verticali: tre a sinistra, tre a destra e quattro al centro. Ogni cerchio che componeva il diagramma, ovvero i Sephirot, faceva parte del percorso di addestramento di ogni singolo studente. Veri e propri edifici in cui ci si svolgevano lezioni teoriche e pratiche su come affrontare il proprio mestiere ogni giorno. Altri Sephirot erano adibiti a dormitorio e mensa, per rendere forti e vigorosi gli iscritti. Nessuno era a conoscenza del vero motivo per cui si fosse scelta proprio quella forma per un fabbricato del genere, dato che non aveva nulla a che fare con le storie millenarie raccontate da vecchi rabbini nei secoli. Si pensava che il fondatore fosse uno dei pochi adepti rimasti di quella religione, ma non esistevano prove che potessero dimostrarlo. Tuttavia quella strana forma non sembrava affatto arrecare dei problemi a chi viveva al suo interno. Anzi, il più delle volte, nelle poche ore di tempo libero a disposizione, i ragazzi si inoltravano sulla cima delle grandi montagne che confinavano con la città per ammirare la perfezione architettonica della loro dimora.

    Nathan stava, come ogni giorno, trascorrendo il suo intervallo nel punto più alto della struttura. Il Sephirot centrale era un’altissima costruzione cilindrica che si estendeva verso il cielo e fungeva come torre di guardia durante la giornata. Di notte, grazie al potente faro che vi era installato in cima, si poteva illuminare a 360 gradi l’intera area.

    Nathan non aveva cognome, come praticamente tutti i sorveglianti che si addestravano nel Sephirot per diventare infine dei veri e propri guardiani. I guardiani della città di Fallen.

    Nathan era chino su se stesso con le mani che toccavano a terra tra le gambe e sorreggevano gran parte del suo peso, evitando che cadesse in avanti verso una morte certa. Dall’alto scrutava il posto in cui era praticamente nato, vissuto e cresciuto fino ai suoi 16 anni, età nella quale si comincia il primo corso sull’utilizzo del proprio equipaggiamento che in tutti quegli anni aveva intravisto solo ai ragazzi più grandi o nel vestiario da missione dei guardiani, i superiori del centro di addestramento. Strinse gli occhi per mettere a fuoco la vista da quell’altitudine ed osservare i suoi compagni che stavano per entrare nel Sephirot ad est. Se non fosse stato per le piccole modifiche genetiche, che i guardiani addetti alla continua ricerca di potenti cellule staminali e particelle subatomiche apportavano, nel Sephirot, ai bambini che venivano portati, o il più delle volte trovati per strada, Nathan non avrebbe mai potuto osservare così tanti particolari da quell’altitudine. Anni di ricerche e di esperimenti falliti avevano finalmente portato alla luce piccole mutazioni genetiche che non compromettevano le capacità neurali delle cavie. Questa grande innovazione aveva permesso ai sorveglianti e ai guardiani di avere una muscolatura più elastica ed esplosiva ed una vista da aquila. Purtroppo tali esperimenti non potevano essere applicati ai bambini al di sopra dei 5 anni, per tale ragione coloro che non potevano essere sottoposti a queste migliorie, venivano impiegati per le aree amministrative e d’ufficio. L’azione era per coloro che ne avevano le doti fisiche e mentali. Nathan aveva tutti i requisiti per essere un sorvegliante e, come tutti i cadetti, si allenava tutti i giorni per implementare le sue abilità e raggiungere il grado di guardiano, destinato per meritocrazia a chi, con le sue opere, aveva dimostrato saggezza e maestria sul luogo di lavoro.

    <> Domandò in tono rassegnato Liberato, chiamato così poiché strappato di mano ad una zingara che stava scappando dopo averlo sottratto neonato alla madre. La madre ebbe un incidente proprio mentre rincorreva il piccolo e quel giorno le venne strappata anche la vita, oltre che il figlio.

    <> così lo chiamava Nathan, <> Replicò ridendo il ragazzino.

    Liberato lasciò il fucile alla tracolla e si diresse verso Nathan che si stava preparando per scendere dalla torre. A quarantasette anni, Liberato non aveva più interesse a cercare di essere promosso a guardiano e aveva chiesto a Siegfried, uno dei tre pilastri che gestivano l’intera organizzazione all’interno del Sephirot, di poter passare ad una mansione meno frenetica, magari un ruolo di guardia. Siegfried, gestore del personale, aveva accolto con piacere quella scelta e in breve tempo Liberato fu introdotto tra i custodi, coloro che dovevano gestire la sicurezza all’interno del Sephirot.

    Dopo aver dato un colpetto sulla testa di Nathan, Liberato gli diede un calcio nel sedere per rispedirlo a lezione con i suoi compagni. Gli stivali pesanti che indossavano i custodi differivano parecchio da quelli indossati dai sorveglianti, che erano molto più leggeri e confortevoli, con cuscinetti d’aria che ammortizzavano le cadute, e Nathan sentì tutta la pesantezza di quello scarpone dritto sul suo osso sacro.

    <>

    <>

    <> Nathan si fiondò in fretta, con un potente balzo, nella botola che permetteva l’accesso al grande faro e, senza nemmeno usare la scala, cadde per terra ammortizzando con le gambe e le braccia – sbattendole contro il terreno- da una distanza di circa tre metri. Liberato scosse la testa in segno di disapprovazione ma il giovane non poteva vederlo.

    Mentre scendeva i piani in fretta e furia per arrivare puntuale alla prima lezione sul corretto utilizzo dell’equipaggiamento, non tanto perché aveva smania di testare le armi in dotazione, ma piuttosto per apparire preciso e puntuale, Nathan pensava a quale fortuna era stata aver avuto come insegnate di scienza motoria Liberato, che, nonostante non fosse un vero e proprio membro del copro insegnanti, aveva molta esperienza da elargire a chi aveva un briciolo di tempo per ascoltarlo.

    Un pensiero gli tornò alla memoria:

    Nathan aveva circa una decina di anni e, come ogni sera, prima di andare a riposare nei dormitori, doveva allenarsi per superare la preparazione atletica degli altri. Lui doveva prevalere sempre sul suo prossimo, ma senza creare attriti o divergenze. L’unico modo era assumere il ruolo di più bravo della classe per poter essere ammirato, rispettato e preso come punto di riferimento creando meno problemi possibili agli allievi più invidiosi. E quelli ci sono in tutto il mondo. Erano passate circa due ore e mezzo dalla cena, in cui aveva mangiato la metà dei suoi compagni affamati proprio per digerire meglio e poter allenarsi anche durante le ore di pausa pre riposo. Le soste erano variabili durante la giornata a seconda delle attività che venivano svolte dagli allievi. Il gruppo di Nathan disponeva, oltre che i momenti in cui fare colazione, pranzare, cenare all’interno della mensa, di altre tre pause di un’ora, quando l’intera giornata era dedicata a sviluppare le potenzialità fisiche degli individui. Le pause venivano incrementate a quattro quando gli allievi dovevano arricchire le loro conoscenze geografiche, matematiche, letterarie, storiche, fisiche e molte altre... Il tempo libero era poco ma gli allievi non ne sentivano la mancanza poiché non sapevano in realtà cosa fosse avere del tempo a disposizione. Tutti i ragazzi che venivano portati presso il Sephirot erano orfani, bambini perduti o rubati, bambini i cui genitori erano morti oppure bambini abbandonati per strada e poi trovati dai sorveglianti. A Fallen la percentuale di poveri aumentava ogni anno e ormai il quaranta percento della popolazione aveva difficoltà a sopravvivere. I problemi erano molteplici, tuttavia le persone cercavano sempre di aiutarsi tra loro. Fallentown era costituita totalmente da immigrati che erano fuggiti dai loro vecchi paesi per le molteplici guerre che la corsa al petrolio in esaurimento aveva fatto scoppiare in tutto il mondo. Fallentown era prima un piccolo centro di commercianti e rifugiati che con il passare del tempo diedero una spinta all’economia del piccolo borgo rendendolo la grande metropoli dove tutto era permesso. Le persone si erano mischiate tra loro, si erano scambiate la propria cultura creando un vero miscuglio eterogeneo di cittadini diversi tra loro che riuscivano a scambiarsi idee senza minacciarsi di morte gli uni contro gli altri, forse proprio perché erano stanchi della guerra e avevano preferito il dialogo alle armi. Dentro le mura fortificate della metropoli tutti potevano professare i loro credo, ma la legge sotto la quale si era giudicati era quella dell’uomo, stabilita da un antico consiglio di pochi saggi che furono i precettori dell’espansione del piccolo borgo.

    Nathan era un trovatello come tutti gli altri e ancora non conosceva bene le dinamiche su come approdò all’interno del centro di addestramento, ma, tutto sommato, non era un argomento che gli interessasse più di tanto; ormai aveva una vita e obiettivi da raggiungere.

    Cercando di non dare nell’occhio si stava dirigendo verso la parte più a nord-est del centro di addestramento, per raggiungere il luogo in cui da 4 anni a quella parte gli insegnanti guardiani istruivano i bambini a muoversi più agilmente di ogni essere umano.

    <> Domandò Vincent, uno della sua classe che lo aveva preso in simpatia.

    <>

    <>

    <> Concluse Nathan salutandolo e proseguendo verso la palestra.

    Giunto in prossimità del Sephirot di nord-est, fu lieto di constatare che al suo interno nessuno si stava allenando. La palestra era libera e a luci spente. Regolando la luminosità dei grandi neon in cima al soffitto, alto circa 30 metri, si cambiò rapidamente gli abiti e si mise a suo agio. La loro tuta d’allenamento era quella con cui avrebbero proseguito il viaggio verso la strada del guardiano. La tunica e la tuta aderente erano la base. La tunica nera disponeva di una grande cappuccio composto da materiale altamente innovativo in grado deviare i proiettili sparati da una distanza superiore ai 50 metri e che colpissero solo di striscio la stoffa. La tuta aderiva perfettamente al corpo e lo lasciava libero di muoversi senza ostacoli. Infine, stivali ammortizzati e il cinturone, vuoto, senza alcun porta oggetti. Col tempo gli allievi avrebbero migliorato il loro equipaggiamento e sarebbero diventati tutti micidiali sorveglianti o ancora meglio, temuti guardiani. il

    Uscito dallo spogliatoio, Nathan si trovò di fronte il più complesso sistema di addestramento di tutto il continente. Una stanza rettangolare composta da ostacoli di diversa grandezza e forma, posizionati lungo tutto il volume della stanza, su cui il cadetto doveva arrivare saltando, arrampicandosi, lanciandosi e, magari, davvero volando. Il pavimento era composto da uno spesso strato di materassi che servivano per ammortizzare le cadute dall’alto, causate dai frequenti errori che gli allievi commettevano. Esistevano diversi percorsi da poter effettuare e di diversi livelli. I più basici, quelli con il colore bianco, azzardavano qualche piccolo salto verso l’alto, ma per lo più si estendevano in linea retta, facendo entrare i bambini nell’ottica di cosa volesse dire muoversi sopra i tetti delle case,compiere grandi balzi in avanti e afferrare qualsiasi cosa potesse reggere il loro peso. Nathan, nei suoi quattro anni di esperienza, aveva già raggiunto il livello verde. Un percorso avanzato non troppo intricato che racchiudeva quasi ogni piccola situazione in cui un sorvegliante poteva trovarsi mentre era in missione. Il massimo dell’altezza che aveva raggiunto erano gli otto metri da terra. Muoversi a quell’altezza poteva causare un minimo di timore psicologico negli allievi ma col tempo lo avrebbero superato. Una volta imparata la tecnica, il resto era solo autocontrollo.

    Nathan impiegò qualche minuto per il riscaldamento muscolare facendo qualche piccolo esercizio propiziatorio all’allenamento e infine si lanciò verso il primo ostacolo. Non appena arrivò alzò la gamba destra e cominciò a fare pochi passi sul muro che si era trovato di fronte fino a darsi un piccolo slancio per appendersi con le braccia all’estremità e sollevarsi facilmente al di sopra di esso. Per quanto fosse impegnativo ogni percorso, che fosse giallo o arcobaleno, quasi sempre si cominciava con scalare un muro mentre si correva. Nathan era alto 1,78 metri a quell’epoca e quel muro non gli creava troppi problemi, a differenza di quelli che avrebbe trovato nei percorsi più estremi dove l’altezza del muro iniziale era di circa 4 metri. Ripresa la posizione eretta, Nathan scattò e questa volta balzò davanti a sé sorvolando un baratro. Non fece in tempo a mettere piede per terra che dovette subito slanciarsi nuovamente in avanti per non perdere la velocità acquisita e poter effettuare un salto verso un altro ostacolo che si trovava più in alto rispetto alla sua posizione. Strinse i denti e faticosamente si aggrappò con le mani a delle grate che erano avvitate saldamente sul muro, come se fosse il muro di una casa tipica di Fallentown. La velocità del balzo portò il suo ginocchio a sbattere contro la superficie dell’ostacolo e istintivamente gli venne da mollare la presa per mettere una mano sulla parte dolorante, ma il buon senso prevalse su di lui. Digrignando sempre più i denti si fece coraggio e, cercando di aiutarsi con i piedi usandoli come perno, si sollevò verso l’alto per raggiungere un piccolo appiglio proprio sopra di lui con la mano sinistra. Lo afferrò infine anche con l’altra mano e si guardò vagamente sconcertato intorno. Il percorso gli sembrava cambiato, o forse ricordava male. Infondo lo aveva fatto per la prima volta solo la mattina stessa.

    "Eppure sopra di me dovrebbe esserci

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